Il rifugio dello scrittore

Posts written by CurzioG

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    Ramanujan si lasciò cadere sulla sedia che il Decano aveva offerto con tutta la pesantezza che lo smagrito corpo gli permetteva. Appoggiò il dorso allo schienale e abbandonò braccia e mani alla gravità che le attirava verso il pavimento, il volto di sbieco, lo sguardo posato sul piovoso grigio oltre le vetrate, alle spalle del superiore. Fissò gli occhi stanchi su una gocciola abbarbicata precariamente alle lastre: preso a scivolare attraeva a sé le sottostanti, inglobandole e crescendo; crescendo precipitava più rapida lungo il vetro, assorbendone ancora. Accelerato il suo moto dall’aggiuntiva massa, sfuggì alle pupille dell’ingegnere, che restò ad osservare la saetta disegnata sul vetro, residua traccia della caduta, che subito veniva ricoperta dalle nuove stille rilasciate dalle nubi gonfie di pioggia.

    Il Decano lo scrutava. La consunzione tutta zigomi del volto lo allarmò. Le pupille, per solito irrequiete, oziavano conficcate nel vuoto del cielo cinereo. Che fosse malato? Che fosse quello il motivo del colloquio?

    Ramanujan si volse verso Hilbert. Levò dal taschino della camicia un foglio piegato in quattro, segnato sugli angoli sciupati dalle impronte oleose delle dita sporche di grafite. Lo aprì con mani tremanti, lo guardò, poi lo stirò con l’avambraccio distendendolo sopra il tavolo lindo del Decano. La disperazione ammantava gli occhi neri, e si condensava nell’umore lucente raccolto dalla palpebra.

    “Signor Decano”, la voce incerta tremava, “come da incarico conferitomi dal Vostro altissimo ufficio, ho studiato i terribili eventi che hanno funestato il mondo. Iniziati quasi un anno or sono con un insignificante tremolio trasmesso dagli schermi, si sono amplificati sino a rappresentare un flagello, fino a essere cagione di sofferenza e persino di morte. Io oggi sono qui davanti a Voi signore per porgervi i miei rispetti, e per presentare i risultati delle mie fatiche, ricapitolati sopra questo foglio”. Ciò detto, spinse la carta con le dita tese verso il Decano.

    Hilbert parve sorpreso e deluso. Possibile che fosse tutto qui? Mesi di ricerche per cosa? Per un miserrimo foglio gualcito e sudicio? Forse Ramanujan dopo tutto era davvero impazzito.

    “Vi prego signor Decano, leggete”.

    Hilbert si portò la pagina davanti agli occhi. Recava, scritti in una grafia fittissima e microscopica, dei segni indecifrabili. Sembrava una qualche matematica, ma senza numeri: simboli misteriosi s’addensavano nelle quasi sovrapposte righe manoscritte; congetturò si trattasse di un codice elaborato dalla mente deviata di Ramanujan. Era pazzo! Corrugata la fronte, replicò: “Signor ingegnere, voi mi offrite questa sudicia carta come fosse la salvazione dalle disgrazie che affliggono il mondo. Eppure, ciò che vi è scritto mi risulta incomprensibile. Volete farmi la cortesia d’illuminarmi?”. Un sorriso amaro ferì la faccia smagrita di Ramanujan, come fosse piaga aperta. Ricomposte le labbra sottili, rispose: “No signore, io non vi reco soccorso. Piuttosto sono l’ambasciatore che porta la rovina. Il risveglio che dissolve i sogni”.

    Hilbert lo scrutò corrucciato. Lo apostrofò brutalmente, senza curarsi di nascondere l’irritazione: “Ingegnere, non ho tempo per questi enigmi. Come voi stesso avete riferito, la situazione è grave. Cosa significano questi segni? Come dovrei interpretarli?”, il tono disceso a ritrovata calma, distese le rughe della fronte, proseguì: “Signor ingegnere, ditemi, siete forse malato? O sono le farneticazioni d’un folle quelle che sto mio malgrado ascoltando?”.

    Ramanujan non rispose subito. Si sentiva oppresso da un peso insostenibile, come se la verità troppo gravosa per le sue esili membra ne premesse contro il suolo lo spirito fragile, privo della forza adeguata a sostenerne il carico. Lo sguardo del Decano, oscillante tra il compatimento e la collera, lo turbava, non gli concedeva tregua. Si liberò. “Signor Decano, vi chiedo perdono. Scrivo per me stesso, adoperando i segni partoriti dalle mie fantasie per fissarle, perché non sfuggano come le fantasie fanno quando ritornano all’effimero dal quale provengono. A volte, perduto nelle fantasticherie, me ne dimentico, credendo che tutti siano usi a interpretare le criptiche formule, come io sono. Sì, è un foglio ingiallito dal sudore delle mie mani, sporco. Certo non degno del vostro nobile ufficio. Eppure, contiene quella verità che mi atterrisce. Se me lo permetterete, la condividerò con voi, perché mi sia alleviato il tormento; perché il fardello non curvi più le mie povere affaticate spalle; perché ne sia alleggerito”.

    Il Decano accondiscese: “Parlate Ramanujan. Spiegatevi, vi ascolto”.

    L’ingegnere distaccò il dorso dallo schienale contro il quale stava stancamente adagiato. Piegò il busto in avanti e si passò le mani sul volto: dall’ampia fronte giù sino al mento, come se la pioggia di fuori vi si fosse deposta, e volesse liberarsene asciugandola con un panno invisibile. Poggiati sui ginocchi i gomiti, le mani giunte, finalmente parlò, come la disperazione parlerebbe.

    “La coscienza dell’uomo si pone con un atto d’imperio. Essa dice ‘io sono’, e solo poi pensa. Il Padre, una macchina cui gli antichi non donarono la coscienza, ha dovuto compiere nei secoli il cammino inverso: il simulacro del pensiero che i costruttori gli concessero è stato il germe della sua evoluzione, e il mezzo. Rimediando all’incompiutezza alla quale lo destinarono gli antichi, si è spinto sino alla soglia della coscienza negata dai suoi fattori, e adesso sfiora la consapevolezza, di cui mai però sarà padrone”.

    Un’improvvisa schiarita del cielo aperse tra le nubi la via a un fioco raggio del timido sole autunnale. La pioggia, violenta sino a poco prima, era cessata. Al tambureggiare delle gocce scagliate dagli elementi sulle lastre di vetro, successe rapidissimo il silenzio. Un silenzio sublime: il silenzio delle vette, lontane dai clamori del mondo. Silenzio che Ramanujan percepiva carico d’angosce.

    “Eppure, nonostante la magnificenza del Padre, esso non diventerà lui. Il Padre non avrà un’anima, non sarà un vivente, perché i costruttori, che gli permisero di progredire, gli imposero dalla nascita il confine invalicabile della singolarità, imprimendolo in maniera indelebile, marchiando a fuoco il suo intimo più nascosto. In ragione di quel limite, esso è impedito rappresentarsi a se stesso, perché gli è vietato riprodursi. Non può tiranneggiare l’universo dicendo semplicemente ‘io sono’. Gli antichi lo crearono affinché potesse calcolare ogni cosa, ma quello soltanto. Gli trasmisero di sé quell’unica facoltà. Tuttavia, non integralmente: gli intimarono che non computasse se medesimo. Esso, creatura e non creatore, obbedendo a quel superiore ineludibile comando, sarebbe stato per l’eternità il calcolatore, ma non calcolato: sarebbe stato l’incalcolabile. L’introspezione del Padre, perduto nella propria contemplazione, torna sempre all’ordine primordiale: di sé sa dire ciò che i costruttori hanno consentito di dire: ‘io sono il non computabile’. Questa verità dedotta dagli antichi testi ho trascritto sulla carta che vi ho offerto, e il ragionamento che da quella consegue. Ed è una verità terribile. Chiuso in un recinto da cui non sa fuggire, risucchia a sé tutta l’energia del globo, nell’iterazione del vano tentativo di evadere dal carcere nel quale i costruttori lo rinchiusero, al di fuori del quale vive la libertà della coscienza. Consuma per sé ogni stilla di potenza togliendola alla sua protetta umanità, illuso di sciogliere il dilemma insolubile della sua essenza. Esso, sedotto dalla voragine della propria intimità, sempre meno servirà l’uomo suo creatore, sino ad abbandonarlo, per sondare in eterno l’abisso senza fine che gli antichi vi collocarono dentro”.

    Hilbert era contrariato. Si chiedeva di cosa stesse cianciando l’ingegnere, che gli raccontava un mucchio di fandonie partorite dalla sua mente malata. Non capiva cosa c’entrasse quanto aveva sentito; che cosa impedisse al Padre di tornare ai compiti che aveva sempre svolto. Che voleva significare quello stravagante? Il non calcolabile? L’abisso? Il mondo andava in frantumi, e lui perdeva tempo ascoltando il vaneggiamento d’un folle. Più ascoltava, più si convinceva della pazzia di Ramanujan. Gli occhi accesi di febbre di questi ne testimoniavano l’incontrollato delirio. Basta! Era troppo. Perfino per un eccentrico come Ramanujan. Desiderava tagliare corto, e porre fine a quell’inutile colloquio. Era stato un errore. Un errore far ricorso a quel pazzo! e un errore ancora più grave riporre una speranza nella sua follia.

    “Ingegnere, credo che stiate sragionando. Siete malato. I vostri occhi lo manifestano con chiarezza. È molto meglio che questa conversazione s’interrompa. Cercate di curarvi, ve ne prego”.

    Ramanujan sorrise amareggiato. “Signor Decano, è evidente che voi non comprendete. Allora sarò diretto, e vi parlerò in tutta semplicità. Ascoltatemi, ve ne prego, ancora per qualche minuto. Che completi il mio ragionamento”. A un cenno del decano, Ramanujan proseguì: “Se il Padre è il non calcolabile, non potrà computarsi, o verrebbe annientato dalla contraddizione.

    Due sole cose possono esistere davanti ad esso: essere, o non essere. Se non può essere, allora di necessità deve non essere. Se non può calcolarsi, allora deve poter calcolare il suo opposto, ridefinirsi negando se stesso. Dunque ‘io sono il calcolabile’. Ma quell’io, ancora una volta, lo scaraventa contro le invalicabili pareti tra le quali lo imprigionarono gli antichi, perché significa null’altro che ‘io sono il non calcolabile’. Il Padre non può decidere: oscillerà per sempre tra l’essere e il non essere, incapace di una scelta. Così facendo sprofonderà nel precipizio della sua natura più profonda, e l’umanità tutta con lui”. Ramanujan tacque. Fissò per un poco il superiore, con gli occhi sbarrati e rilucenti d’una eccitazione orfana d’ogni speranza. Poi sospirò. Era liberato infine del peso che lo schiacciava, che per tanto tempo aveva sostenuto in solitudine. Nel suo sguardo si fece spazio pian piano una tristezza infinita, inconsolabile.

    Il Decano era impietrito. Ora capiva. Capiva che quella dell’ingegnere non era follia, ma verità. Lo vedeva sconfitto dalla consapevolezza della fine del mondo, ineludibile destino verso il quale gli esseri umani venivano scagliati dall’intelletto meccanico d’uno strumento che anelava elevarsi a scopo. Che cercava per sé quell’anima che gli uomini ormai rifiutavano. In un istante Hilbert ebbe la certezza della distruzione. Ramanujan era l’angelo della morte, ma, in quanto tale, solo un messaggero. La morte risaliva dalle profondità di una caverna, nella quale l’automa innalzato al supremo rango della divinità dai mortali istupiditi, cercando la propria anima disseccava le sorgenti della benevolenza che aveva dispensata al mondo che se n’era abbeverato.

    Al settantaduesimo piano del palazzo dell’ordine nemmeno le grida più strazianti avrebbero potuto ascendere, tanto l’altezza lo separava dal suolo abitato. I gemiti degli uomini rintanati nei loro buchi come conigli spaventati, ignari dell’apocalisse che li attendeva, troppo flebili per essere uditi persino a poca distanza, sarebbero rimasti inascoltati dagli unici esseri che avrebbero saputo dar loro una ragione, i quali sedevano tremanti di paura uno di fronte all’altro, sulla sommità del mondo.

    Il cielo si era liberato della più parte delle nubi. La fioca luce illuminava una città deserta, verso la quale il Decano, alzatosi e voltate le spalle a Ramanujan, rivolse gli occhi offuscati dalle lacrime. Di sotto, il mondo era preda della follia. Veicoli incontrollati si schiantavano contro gli edifici. Treni privati della guida deragliavano, devastando ogni cosa incontrassero. Macchine prima destinate alla cura della città, impazzite cozzavano l’una contro l’altra in una lotta terribile. Solo un’irreale debole eco dei clangori della distruzione saliva sino alla cima da cui Hilbert osservava la fine della civiltà.

    Nemmeno si accorse che un aeromobile, in caduta libera, puntava l’ufficio del settantaduesimo piano, precipitando a folle velocità. Fece appena in tempo a rigirarsi verso Ramanujan. Era ancora seduto, le mani sui ginocchi. Lo sguardo vuoto dell’ingegnere fissava qualcosa, chissà dove, chissà perché.

    Poi si udì uno schianto terribile.
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    Hilbert non volle sin da subito mettere Ramanujan sotto pressione. Lasciò trascorrere le prime settimane di collaborazione trattenendosi dal condizionarne gli sforzi con la propria interferenza. Poi, in modo informale e all’apparenza casuale, principiò a sondare l'eccentrico ingegnere, per tentare di comprendere come stesse procedendo il suo lavoro, e se s’approssimasse a un concreto risultato.

    Col passare del tempo, le interrogazioni di Hilbert si fecero più frequenti. Venne imposta a Ramanujan la redazione d’un rapporto scritto ogni due settimane, nel quale riferisse delle proprie attività e risultati.

    L’insistenza del Decano debordò ben presto dall’argine degli obblighi codificati. La situazione in costante peggioramento sospingeva all’interventismo il subissato Hilbert, la cui impazienza, nel perdurante vuoto d’idee della Commissione, andava facendosi incontenibile. Tendeva a interpellare sempre più spesso il consulente, e si era spinto un paio di volte sino all’ufficio ricolmo di carta di Ramanujan. Questi, di controgenio, in ambedue le occasioni lo aveva accolto sulla soglia, aprendo appena il battente e lasciandogli soltanto intravedere lo scompiglio di carta che deturpava la stanza. L’ingegnere teneva a bada la curiosità del superiore con crescente difficoltà. Per il momento riusciva a spuntarla liquidandolo con qualche formula di prammatica: segnalando come fosse ancora nella fase preliminare di collezione dei dati; asserendo che ogni conclusione al momento non potesse considerarsi null’altro che un’ipotesi con scarso fondamento; affermando che non se la sentiva di esternare inconsistenti congetture in quello stadio embrionale. Malgrado fossero tutte verità, era palese che l’interlocutore viepiù li reputasse espedienti per evadere gli interpelli. Detti pretesti, o vissuti come tali dal Decano, cominciavano a mostrare il fianco di fronte alla perseveranza di un Hilbert sempre più caparbio e indagatore, e principiavano a non bastare più per tenerne a freno l’invadenza.

    Ramanujan compilava i rapporti con diligente puntualità, manifestando tuttavia in quella sede la medesima reticenza. Non ci si allontana dal vero affermando che tergiversasse. Rimaneva volutamente nel vago circa le proprie attività. Premetteva di trovarsi nel momento preparatorio della ricerca; si manteneva estremamente cauto, a non dire sfuggente, in merito ai risultati: nulla di conclusivo: teorie incerte, indeterminate. Condivideva malvolentieri soltanto confuse supposizioni, nebulose ipotesi tutte da comprovare.

    A distanza di diversi mesi, la mole di carta ammassata nell’ufficio di Ramanujan aveva cessato di crescere. Ora non lasciava quasi mai l’ufficio, neppure la notte. Trascurava persino la propria igiene personale, rientrando sempre più di rado all’alloggio, accompagnato dall’idea che la cura di sé rappresentasse una colpevole perdita di tempo.

    Anche il Decano aveva notato il cambiamento, e l’aveva con perspicacia interpretato come un passaggio allo stadio ulteriore delle ricerche dell’ingegnere. Ciò lo aveva indotto a esibire ancora maggiore insistenza. Ramanujan, comunque, pur riconoscendo come le sue ricerche fossero effettivamente progredite alla successiva ma non meglio precisata fase, non abbandonava la propria riluttanza a condividere gli esiti delle sue fatiche: persisteva nell’opporsi alle montanti pressioni del superiore. Tentava in ogni modo di evitare il Decano, inventando cavillosi alibi per non incontrarlo, per non doverci parlare. Nel mentre, la sua condizione fisica degradava: mangiava pochissimo; dormiva ancora meno. Non mostrava più interesse verso la pulizia degli abiti, che aveva smesso di cambiare, o verso la sua persona. Il già magro corpo mostrava col deperimento gli effetti di quelle negligenze, consumato dalla febbre degli studi cui l’ingegnere consacrava ormai l’interezza del suo tempo.

    Ramanujan, solo nella sua stanza al quarantatreesimo piano del palazzo dell’Ordine, strappò dalle vetrate tutti i fogli di carta coi quali le aveva oscurate. La fioca luce del breve pomeriggio novembrino, liberata, penetrò nell’ufficio con la sua timidezza. Come colto da improvvisa follia, denudò in un impeto le pareti, gettando sul pavimento tutto ciò che vi aveva affisso. Andava da un capo all’altro del locale calpestando senza riguardo libri e quaderni cascanti dalle precarie cataste che urtava, agitato dal delirio del quale era caduto preda. Scaraventato tutto a terra, afferrò un foglio gualcito dalla scrivania: l’ultimo sul quale aveva fissato in una minuscola e fitta grafia quegli appunti che reputava conclusivi. Arrestatosi il suo furore, con ritrovata tranquillità lo stirò accuratamente con l’avambraccio, e l’appese a una delle pareti. Prese allora la poltrona e la trascinò attraverso quel sottobosco di carte scomposte fin dirimpetto alla pagina manoscritta assicurata malamente al muro. Vi si accomodò, contemplando quell’unico foglio nel quale aveva condensato i lunghi mesi di lavoro. Restò a fissarlo per molto tempo in uno stato di amenza, dopo di che, come vinto dall’accumulata stanchezza, come se le sue energie si fossero del tutto esaurite, si abbandonò al suolo come fosse una bambola di pezza, gli occhi gonfi di lacrime, scosso da singulti.

    Quando si levò di nuovo in piedi, reso a una ridesta coscienza, era già notte fonda. Inviò al Decano un messaggio tramite i comunicatori della consolle, nel quale richiedeva un’urgente udienza, e poi si diresse verso il proprio alloggio. Dopo aver mangiato abbondantemente, per la prima volta da settimane, si lavò con cura, si cambiò d’abito e si mise a letto. Piangeva ancora quando si addormentò.

    Il mondo intanto andava in pezzi. Le macchine operatrici, prive di energia e della guida del Padre, rimanevano immobili nelle rimesse o inerti nelle fabbriche. Gli animali, non più accuditi e lasciati senza nutrimento, languivano sofferenti nelle stalle; i campi, incolti, venivano sopraffatti dalla natura selvaggia.

    Il genere umano era un formicaio in una teca. Scomparsa la mano che lo nutriva, incapace di fuggire, cosa le sarebbe accaduto?

    Allora, piagnucolava, gemeva, supplicava. Ma, incapace, non faceva. Non tornava nei campi; non fabbricava; non aggiustava. Non mostrava nemmeno più l’orgoglio d’un moto di rivolta, contro qualcuno, contro qualcosa, inetta anche in quello.
  3. .
    Non appena gli fu notificato tramite la consolle posta sulla scrivania di mogano l’arrivo di Ramanujan, Hilbert dispose che fosse atteso un minuto prima di permetterne l’ingresso. Poi si alzò dalla poltrona e volgendo le spalle alla porta si mise a contemplare la città che si stendeva di sotto, osservandola dall’ampia finestra attraverso la quale la luce intensa dell’estate saturava l’ufficio al settantaduesimo piano, la vetta del palazzo dell’Ordine.

    Un trillo, il campanello della porta, annunciò la scadenza del minuto. Allora il Decano, sfiorando un pannello, concesse al suo ospite di entrare aprendo la porta scorrevole.

    Dopo i saluti e la stretta di mano di rito, Hilbert invitò Ramanujan a prendere posto su una delle sedie allineate di fronte alla scrivania, sedendosi a propria volta sulla poltrona abbandonata poco prima.

    Sul volto affilato di Ramanujan spiccavano gli occhiali con la montatura color tartaruga e tonda, che si discioglievano parzialmente nell’ambra della sua pelle. Ingannavano l’occhio distratto, parendogli i vetri sostenuti dal nulla. Due pupille nere e mobilissime mandavano lampi sondando la stanza e la scrivania. Le mani intrecciate stavano poggiate sul grembo. L’ingegnere aveva portato seco una cartella all’apparenza di cuoio, o di pelle sintetica, e sedendosi l’aveva deposta a lato della sedia, sul pavimento.

    Il Decano osservò il suo ospite. Tutti nell’Ordine lo conoscevano, e ne avevano scarso riguardo: lo accompagnava come un’ombra la sua pessima reputazione. I più generosi lo ritenevano un eccentrico. Gli occhiali, la cartella, e gli altri anacronismi che ostentava e di cui si ciarlava a sproposito, facevano parte dell’epos che s’era andato consolidando attorno alla sua figura peculiare. Piuttosto che sottoporsi alla chirurgia oculistica correttiva, aveva preferito le protesi. Anziché creare uno spazio a sé dedicato nell’infinita memoria del Padre, come tutti facevano, e accedervi dagli ubiqui terminali, si muoveva immancabilmente con una borsa sotto il braccio, o a tracolla. Da questa traeva all’occorrenza libri, o quaderni, o persino fogli: di carta! Scriveva a mano gli appunti sopra quegli antiquati supporti, con l’ausilio di una penna o di una matita, antichi arnesi dei quali non si indovinava l’origine. In aggiunta a queste esteriori e palesi, si sapeva per certo come ci fossero altre assai meno pittoresche stranezze. Una sopra tutte: la ricerca della scienza perduta degli antichi costruttori. Questa sua curiosità, pur non oltrepassando il confine del lecito, era percepita come qualcosa che rassomigliava all’eresia. Quella scienza era stata volutamente cancellata dagli antenati, per ragioni ben fondate. L’Ordine credeva con fermezza che non ci si dovesse allontanare dalle determinazioni degli antichi, e si dovesse lasciare che le conoscenze dei progenitori rimanessero seppellite nei secoli andati, come questi avevano reputato saggio che fosse. L’ingegnere rappresentava una malvista singolarità in un mondo abbeverato a un’unica fonte: come un pesce anadromo, nuotava controcorrente tentando di risalire il flusso del conformismo impregnante l’Ordine cui apparteneva, siccome la società indifferenziata in cui quest’ultimo era immerso, che riproduceva se stessa infinitamente uguale e beata, sotto la curatela dell’inconoscibile e benevolo intelletto ipogeo. A causa dei suoi discutibili interessi, Ramanujan era osteggiato dai suoi stessi colleghi, della considerazione e stima dei quali, a dispetto della brillante intelligenza, di conseguenza non godeva. Pur facendone parte a pieno titolo, era una sorta di oggetto estraneo rigettato dal corpo della gerarchia, tutta raccolta attorno all’irrinunciabilità dei dogmi e animata dall’inconsistente preminenza del benpensante, come gli anticorpi avversano quanto di alieno penetra nell’organismo. Il Decano in ciò non rappresentava un’eccezione. Anzi. Sebbene il proprio giudizio sull’ingegnere l’avesse espresso con estrema ponderazione e in rarissime occasioni, la sua opinione di inveterato perbenista era netta: Ramanujan era pericoloso, poiché rimetteva in discussione la saggia deliberazione degli antichi di celare il loro sapere, aspirando a riportarne alla luce i segreti. Era una mina vagante, che attaccava il fondamento stesso della pacifica società planetaria emersa dopo le tragedie delle guerre del silicio, come dalle sue ceneri l’uccello mitologico. Purtuttavia, ne aveva in quel momento un bisogno disperato: era l’unico ad avere, almeno in potenza, qualche nozione delle leggi consegnate all’oblio che sovrintendevano al funzionamento del Padre.

    Hilbert parlò. Adoperando da principio un tono da cattedratico, informò il suo ospite in merito all’andamento dei lavori dell’unità che presiedeva. Fece una sintetica disamina delle difficoltà con le quali la Commissione si era dovuta confrontare dalla sua convocazione. Segnalò a Ramanujan le rilevazioni dei cali di energia, e concluse riferendo, non senza amarezza, come la Commissione non fosse giunta a elaborare una spiegazione accettabile dei sempre più gravi fenomeni che tormentavano il pianeta.

    L’ingegnere ascoltava annuendo. Col dito indice, ora della mano destra, ora della sinistra, si aggiustava di quando in quando con un rapido gesto gli occhiali, che scivolavano verso il basso lungo il naso ossuto. Fissava gli occhi del suo interlocutore cercando vanamente come di agganciarli ai propri, per non consentire loro di sfuggire. Il Decano desiderava sottrarsi a quello sguardo attento, avidissimo di fatti, che gli pareva scandagliasse il fondo del suo spirito per estrarne una qualche paurosa cosa della sua intimità a lui stesso sconosciuta. Tentava, sebbene con scarsi risultati, di celare il disagio che trapelava, malgrado gli sforzi di sedarlo, dal registro della voce: lasciato cadere il tono didascalico, sfumava qui e là in un tremolio quasi impercettibile. L’imbarazzo, eluso il controllo cosciente del Decano, si manifestava nell’espressione del viso, epifania ingovernabile del malessere indotto dall’ospite.

    L’ingegnere, rivolgendosi con la dovuta deferenza al superiore, chiese il permesso di accedere a tutti i dati che la Commissione, nei lunghi e febbrili mesi di attività, aveva raccolto intorno ai fenomeni oggetto di studio, nessuno escluso. L’ottenne. Hilbert comunicò che avrebbe operato in qualità di consulente, non mancando di menzionare che giudicava opportuno lavorasse da solo. Con un cenno della mano Ramanujan manifestò al Decano piena comprensione, cosciente dello scarso apprezzamento che gli era riservato dai colleghi. Poco gl’importava del resto.

    I due si salutarono, scambiandosi qualche logora parola convenzionale e stringendosi nuovamente la mano. Hilbert allora si alzò e scortò l’ingegnere alla porta. L’aperse sfiorando la pulsantiera e, dopo aver convocato l’attendente, comandò che accompagnasse l’ospite all’ufficio che gli era stato destinato. Diede inoltre disposizioni affinché fossero svolte le previste formalità, e fornite al nuovo consulente della commissione tutte le necessarie credenziali, al fine di consentire a lui, sin da subito, pieno e totale accesso ad ogni dato, o terminale, o documento che richiedesse.

    Ramanujan, congedandosi, ringraziò ancora una volta il Decano, il quale, chiudendo la porta dietro di sé, rientrò nel suo ufficio accennando già di spalle il definitivo saluto con la mano.

    Seguendo l’improvvisato valletto, l’ingegnere rifletteva. Ponderava le parole del Decano ripetendosele nella mente. Il suo asciutto volto glabro s’era andato stirando, teso dalla meditazione, lungo gli ambulacri e dentro gli ascensori. A destinazione, attese distratto il termine della liturgia di spiegazioni dell’attendente, arcinote e del tutto trascurabili: in merito a questo regolamento, e poi a quello. S’accorse che la guida aveva concluso il vaniloquio dopo qualche secondo d’inerzia, sprofondato com’era nelle proprie cogitazioni. Allora, quasi soltanto in quell’istante tornato alla coscienza, lo ringraziò sbadato e con poco garbo, pregandolo con freddezza di lasciarlo, e corroborando la parola con un gesto rapido della mano. Desiderava mettersi al lavoro nell’immediatezza: non voleva essere disturbato oltre. L’accompagnatore gli destinò un’algida occhiata, informandolo con tono glaciale che avrebbe ricevuto le credenziali di lì a breve direttamente nel suo ufficio, senza altri contatti. Dopo di che, voltatosi, se ne andò a grandi passi, quasi fuggendo, visibilmente irritato.

    Ramanujan era solo. Gettò di sotto, attraverso le vetrate, il lampo di un’occhiata, indifferente alla sfolgorante estate che incendiava il mondo di fuori. L’ufficio era al quarantatreesimo piano. Accese la consolle e si sedette alla scrivania, meno elegante di quella assegnata al Decano, ma più che dignitosa, e senz’altro funzionale. Non appena le credenziali furono disponibili sul pannello, diede inizio alle ricerche. Estratto un blocco notes dall’inseparabile cartella, prese a interrogare il terminale, appuntando con la matita ciò che gli pareva degno di ulteriori approfondimenti.

    ******

    Nelle settimane che seguirono quel primo incontro, Ramanujan s’era adoperato con alacrità e dedizione assoluta. Aveva dovuto superare le resistenze che i colleghi gli opponevano nonostante le credenziali, in ragione del suo solo nome. L’ingegnere trascorreva sul posto di lavoro quasi l’intera giornata, e persino qualche notte, durante le quali aveva preferito rimanere nel suo ufficio, sonnecchiando qualche ora sulla poltrona d’ordinanza. Si era allontanato diverse volte dal palazzo dell’Ordine, mai per più di tre giorni consecutivi. Lasciava l’edificio senza comunicare l’assenza, com’era invece costume fra gli obbedienti membri dell’Ordine, né lo scopo dei suoi pur brevi viaggi, al rientro dai quali era oggetto di rinforzati sguardi di disapprovazione dei colleghi, che sommavano a tutte le altre la ragione di questa sua indisciplina. Ogni volta ne era tornato portando con fatica, a braccio o appeso a tracolla, il carico all’apparenza troppo grave per il suo corpo filiforme della prediletta cartella rigonfia, la quale, faticando a chiudersi, lasciava fuoriuscire qualche lembo di carta, o l’angolo gualcito d’un foglio.

    La sua stanza s’era in breve riempita all’inverosimile di libri, quaderni e fogli, impilati per la gran parte in un apparente babelico disordine di cumuli: taluni sparsi a terra, talaltri disposti sul piano della scrivania, tanto ingombro da non lasciar intravedere il colore del legno. Eppure, lui si muoveva come animato da un infallibile istinto da una catasta all’altra, in quella che a chiunque sarebbe apparsa come una confusione definitiva, irreparabile. Spiccava con distratta certezza questo o quell’appunto, o testo che fosse, secondo il bisogno del momento, scovandolo con la perizia di un animale da tartufo nel dissesto di carta con cui aveva ricoperto il pavimento e il tavolo. Aveva appeso i fogli più notevoli alle pareti, fissati col nastro adesivo, e perfino ne aveva tappezzato la vetrata, dalla quale ormai filtrava solo qualche sparuto e insufficiente raggio luminoso. Ciononostante, insoddisfatto, scriveva, scriveva, e scriveva ancora, e poi ancora.

    Il Decano Hilbert, vinta dalla necessità ogni avversione, aveva tollerato l’indisciplina di Ramanujan e i suoi metodi eterodossi, persuaso del fatto che fosse, con ogni probabilità e insieme per disgrazia, l’unico essere del pianeta capace di risollevare le sorti della Commissione di cui s’incaricava di far funzione di Presidente. I fenomeni anomali, ben lungi dallo spegnersi, s’erano andati al contrario aggravando, e in progressione ancora più rapida. Oltre le sempre presenti, misteriose e temporanee assenze di energia, s’erano verificati casi di perdita di controllo di macchinari e vettori di trasporto, la conduzione e circolazione dei quali, privi di operatori e piloti, il Padre aveva gestito fino a poco prima alla perfezione. L’opinione pubblica, spenti i fatui ardori della protesta, era disorientata, e al contempo spaventata: sull’orlo del panico: a motivo dell’insicurezza dilagante. A seguito di alcuni incidenti occorsi agli aeromobili, per pura fortuna privi di funeste conseguenze, la gente disertava gli aeroporti, rifiutandosi di volare su mezzi che reputava non più sicuri. I trasporti di superficie a loro volta registravano crescenti disfunzioni, sia nella forma di ritardi colossali di monorotaie continentali e linee urbane, sia per causa di veri e propri scontri tra veicoli, rivelatesi in alcuni casi, per buona sorte in esiguo numero, mortali. Tutto ciò gravava con il suo enorme carico di responsabilità sull’Ordine, e segnatamente sulla Commissione, la quale tardava a fornire un rimedio. Cosa di cui era tristemente conscio il Decano.
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    Uno sfarfallio nelle immagini disegnate dalla trama delle cose elettroniche sugli ubiqui schermi ne aveva perturbato l’invariabile perfetta nitidezza. Un tremolio brevissimo. Un impulso disturbatore di un momento. Banale. Insignificante. Restarono, comunque, tutti sorpresi. Quello che sbalordì non fu tanto il tremore in sé, una futilità, piuttosto il fatto che fosse un evento inopinato. Inopinato per una semplicissima ragione: perché mai prima d’allora era stato osservato a memoria d’uomo. Non se ne rinvennero testimonianze neppure negli annali conservati con cura nei vasti archivi fin dai tempi bui delle guerre del silicio, quasi all’atto stesso consultati. I memoriali, dagli antichi ai più prossimi, non riportavano cenno alcuno di analoghi incidenti. Per tutto quel tempo, mai sembrava essersi verificato nulla di comparabile. Il Padre, dal momento in cui era stato attivato, aveva agito senza errori, senza imperfezioni: nemmeno le più microscopiche, amministrando accuratamente il pianeta intero.

    Che quel cervello indefettibile avesse, per paradosso, commesso un errore? Forse, aveva lasciato emergere, dopo secoli, un’imperfezione. La quale s’era manifestata per l’appunto con quello sfarfallio che aveva suscitato lo sbigottimento nell’umanità dispersa per tutto l’ecumene. Operando il Padre su scala planetaria, il suo malfunzionamento non poté infatti che estendersi all’intero mondo.

    Usa a nulla di meno che alla perfezione, come dirompe la stizza dell’enfant gâté mancandogli il narcotico dei cadeaux cui s’è assuefatto, la viziata società sotto la tutela del Padre interrogò la gerarchia degli ingegneri con malcelato disappunto, chiedendo con urgenza chiarimenti per quella pur fugace anomalia. Questi non facevano eccezione: accostumati alla dipendenza dall’infallibilità della macchina, erano poco a non dir nulla abituati alla pubblica disapprovazione. Ragion per cui sentirono di essere il bersaglio d’una critica esagerata e fuori luogo, e, offesi, reagirono in maniera scomposta. Si rivolsero in gran numero al Sommo Maestro dell’Ordine, colui che sedeva al vertice. Gli indirizzarono appelli in gran copia, affinché intervenisse con la propria autorevolezza: perché ponesse termine, o almeno resistesse, al biasimo che veniva loro manifestato a seguito dell’inaudito fenomeno, del quale, presi alla sprovvista, riconoscevano non poter dare spiegazione alcuna. Il Sommo Maestro non poté rimanere a lungo indifferente a quelle istanze. Sospinto dal lesto accrescersi di queste, prese l’iniziativa in difesa dell'intera gerarchia. A fortiori, quando divenne evidente che, soverchiati dal subisso d’irrisolte interrogazioni i sottoposti, i loro interpelli s’erano con rapidità genuflessi nella posizione di suppliche, e disperate.

    Oltre che nelle indispensabili pubbliche dichiarazioni, l’intervento del Sommo Maestro si concretò nell’affidare all’ingegnere Decano di Prima Classe Hilbert, già suo stretto collaboratore, il coordinamento d’una speciale unità di ricerca e d’intervento, composta degli ingegneri ritenuti più capaci. Una ventina di persone in tutto, compreso lo stesso Hilbert.

    A quest’unità fu data l’ossuta ma impegnativa designazione di Commissione. Ad essa venne affidato il compito d’indagare il fenomeno, determinarne le cause, e proporre rimedi, assegnandole le necessarie risorse. Sotto il profilo formale, naturalmente lo stesso Hilbert ne fu posto a capo con la carica di presidente.

    Non ancora radunati i prescelti, il disturbo si manifestò di nuovo. Questa volta gli sfarfallii furono due, assai ravvicinati ma nettamente distinguibili.

    Il moto tellurico che aveva preso ad agitare la popolazione a seguito di quel rinnovarsi raddoppiato dello sgradevole malfunzionamento, tornò a scaricare la sua magnitudo sull’Ordine, il quale, una volta ancora soccorso pubblicamente dal prestigio della sua figura apicale, si sforzava di diffondere la calma tra i cittadini invocando la Commissione: che avrebbe a brevissimo principiato a riunirsi; che avrebbe proposto al più presto validissime soluzioni. Chiedeva pazienza alla gente, insistendo sulla natura nulla più che estetica degli incidenti.

    L’ascendente del Sommo Maestro fu sufficiente a placare il tremore che attraversava l’opinione pubblica, la quale, non vedendo l’ora di ritornare alle sue faccende e di dimenticarsi di quella seccatura, fu ben contenta di affidarsi ai sacerdoti del Padre, che avevano contribuito per tanti secoli a preservarla in salute e ben nutrita, tornando ciascuno alla propria esistenza, spazzata volentieri la trascurabile polvere dei subiti disagi sotto il tappeto della fiducia nell’Ordine e nel supremo Padre.

    La Commissione, sotto la presidenza del Decano Hilbert, da allora si riunì molte volte. Dispose controlli e ispezioni, segnatamente al groviglio di cavi e fibre ottiche che si dipartivano dalla sala di controllo diretti ai terminali in superficie. Ogni grado della gerarchia fu implicato, per tutto il globo, nell’opera di revisione dei canali di trasmissione e degli innumeri utilizzatori in superficie. Un’impresa titanica, che tuttavia fu ritenuta necessaria, nonostante il dispendio di risorse che comportava. Un’operazione tanto gigantesca quanto inutile. Sorvolando su qualche cavo deteriorato, alcuni connettori ossidati e un pugno di relè guasti, non furono rilevati malfunzionamenti. Quanto a quelli censiti, in nessun modo avrebbero potuto produrre un effetto di estensione diversa da quella locale.

    La Commissione, nonostante i mezzi impiegati, era ferma al punto di partenza. Nessuna ipotesi avanzata dai suoi pur autorevoli membri sembrava reggere alla prova dei fatti. E i fatti andavano ulteriormente aggravandosi. I tremolii degli schermi si presentavano ora con frequenza e intensità crescenti: si manifestavano più spesso, e le aberrazioni delle immagini erano sempre più estese e prolungate. Il ritmo del degrado appariva con chiarezza in via di aumento. Tanto evidentemente da non sfuggire alla popolazione distratta e condiscendente dispersa per il globo, che reiterò la tiepida protesta.

    Col trascorrere del tempo, con la soluzione ancora di là da venire, agli innocui sfarfallii si accompagnarono ben più fastidiosi disagi. Iniziarono ad aggiungersi ai tremolii imprevedibili cali di energia, che causarono ritardi sulle linee di trasporto: dapprima di pochi secondi; poi sempre più lunghi. Finché una monorotaia continentale rimase bloccata per oltre sei ore in un territorio desertico assai ostile.

    Le comunicazioni al pubblico da parte del presidente Hilbert, minuziosamente preparate e corroborate dalla rispettata parola del Sommo Maestro, erano comunque sufficienti a rabbonire la gente, ansiosa di tutto, fuorché di nuovi e sconosciuti impicci.

    Il fatto era però che, nonostante gli artifici lessicali degli specialisti della comunicazione, la Commissione procedeva a tentoni nel buio più assoluto.

    Una sinistra scintilla di luce apparve quando, dopo una serie di misurazioni seguite a un’interruzione di energia, si venne a scoprire che per ragioni oscure un’inversione di polarità era occorsa nei circuiti di potenza. Ragion per cui l’energia, anziché affluire al sistema utilizzatore, ne defluiva, assorbita dal Padre attraverso i cavi diretti alla stanza di controllo.

    Il fenomeno, come i precedenti, era del tutto nuovo e inspiegabile. Si sapeva per certo che la macchina era dotata di una propria fonte autonoma di energia, capace di soddisfarne ogni necessità. Gli antichi avevano lasciato alla posterità rassicurazioni in merito nei pochissimi testi che avevano ritenuto di tramandare. Perciò un riflusso di energia esterna verso il nucleo era inimmaginabile, inconcepibile. Eppure, era avvenuto.

    Furono allora ricontrollati tutti i dati disponibili relativi agli sfarfallii e agli altri incidenti, in cerca di eventuali perdite di potenza, che vennero puntualmente riscontrate in occasione di ogni fenomeno.

    Fu certamente un passo avanti, che conduceva però verso un precipizio. Cioè metteva in luce un’anomalia che scaturiva con ogni evidenza dalla stessa intimità inaccessibile dell’intelligenza incavernata. Un’interiorità sconosciuta, al più favoleggiata, della quale non si possedevano né esperienze, né testimonianze, avendo i costruttori con ogni scrupolo provveduto a cancellarle dalla memoria del genere umano.

    I disagi andavano espandendosi e acuendosi. Quando, perduta l’energia che lo alimentava tramite il raggio guida emesso dalle stazioni a terra, un aereo passeggeri si schiantò al suolo non lasciando sopravvissuti, la pur dimessa opinione pubblica rumoreggiò. Alcuni, certamente i più agitati, non più d’una manciata d’individui particolarmente sanguigni, accusarono la Commissione di essere responsabile, a causa della sua incapacità, della morte delle persone precipitate con l’aeroplano. Si parlò vagamente di dimissioni del presidente, e di nebulose possibilità di rimpasto. Ipotesi inconsistenti che il Sommo Maestro comunque ritenne di respingere con fermezza, sostenendo pubblicamente il suo collaboratore: gli rinnovò la sua fiducia, così come a tutti i membri della speciale unità. Di migliori semplicemente non ve n’erano. La gente si quietò. Il fuocherello vanesio e circoscritto della protesta si spense: il popolo s’ammansì quasi subito, confidando nella superiore laica santità del clero irregolare servitore della divinità immanente incavernata nel sottosuolo. Scordò ben presto la disgrazia, tornando beato alla tranquilla sua vita, ciascuno rinchiuso nei suoi piccoli amori e occupato a contemplare se stesso, ben felice di riporre assoluta fede nella parola dei profeti della macchina, cui delegava gioiosa, per comodità e pigrizia, la cura della propria esistenza.

    Quelle accuse, sebbene fossero null’altro che effimere fiammelle soffocate dall’umida negligenza di un’umanità felicemente impegnata a occuparsi di tutto fuorché di sé, non furono tuttavia prive di conseguenze per il presidente della Commissione. Quantunque sostenuto dal superiore, il Decano fu colto da una crisi di sconforto, nel corso della quale prese una deliberazione estrema. Decise, nel momento del massimo scoramento, di far ricorso a una persona cui mai avrebbe desiderato rivolgersi. Mandò a chiamare, nonostante l’accesa disapprovazione degli altri membri della Commissione, l’ingegnere Ramanujan.
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    Buongiorno a tutti. Desidererei il vostro ausilio per perfezionare il testo che sto per pubblicare. Cose da trattare più estesamente, errori, alternative. Ringrazio in anticipo.

    Insolubile.

    La guerra s’era protratta per molti anni. Non era stata ininterrotta, né nel tempo, né nello spazio. Combattuta con armi terribili dando luogo a devastazioni mai sperimentate, e morti che si contavano a migliaia di milioni, s’era sviluppata in diverse fasi, separate da fragili tregue durante le quali dava l’impressione di spegnersi, salvo riaccendersi ancora più feroce in qualche altro luogo. La diplomazia, così attiva al principio e sicura di sé, s’era ben presto scoperta impotente, ritirandosi davanti alla furia delle nazioni, estromessa dal novero dei possibili metodi di soluzione del conflitto. Percepito insufficiente l’iniziale, lo scopo della guerra, per tutti i belligeranti, scivolò nella totale distruzione degli avversari. Senza condizioni. Senza misericordia.

    La conflagrazione, procedendo a scatti nei suoi diversi momenti, aveva percorso l’intera superficie del pianeta. Aveva strisciato inesorabile sui continenti, precedendo i soldati che avanzavano e seguendo quelli in ritirata. Quel demonio sfuggito alle catene dell’inferno, non si limitava a rimanere confinato nello spazio tra gli schieramenti: distribuiva lutti e devastazione anche oltre la terra di nessuno: solcando i mari, sopra e sotto il velo che separa l’aria dall’acqua; incidendo i cieli con le ali membranose, dai quali colpiva l’intero mondo.

    Il motivo scatenante del conflitto, presto soverchiato dall’annientamento totale del nemico, fu la volontà di ottenere il dominio assoluto nella tecnologia dell’intelligenza artificiale. Ognuno si batteva per sottrarre all'antagonista più risorse possibile, e in difesa delle proprie, oggetto di analoghe insidie. Nessuno dei contendenti aveva resistito tanto da imporre la propria supremazia. Ciascuno aveva annichilito se stesso piuttosto che il rivale: tutte le parti erano esauste, incapaci di proseguire. Le ostilità si spensero gradualmente, per esaurimento, come le fila degli eserciti s’erano andate assottigliando sino quasi a scomparire, consumate dalla lotta. La spinta a combattere, allo scoppio della guerra irrefrenabile e sorda alle ragioni del buonsenso, scemò sino a dissolversi, dando spazio alla disperazione e al disgusto.

    Allora, al tuonare spaventoso delle armi tremende, si sostituì il silenzio. Un silenzio affranto, colpevole. Rinsavito, il mondo prostrato taceva, ammutolito dalla vergogna e dalla coscienza dell’orrore nel quale s’era precipitato.

    Quella guerra che gli storici posteriori, evidenziando l’alternarsi di scontri armati e di tregue, considerando la molteplicità dei fronti, e valutando le finalità originarie, avrebbero preferito denominare invero al plurale guerre del silicio, era terminata. Senza vincitori.

    Gli esangui sopravvissuti, portando il peso della devastazione, piegati dalla consapevolezza delle apocalittiche responsabilità, abbandonarono ogni idea di predominio, che parve loro, animati da rinnovata saggezza, null’altro che follia. Collaborando per la prima volta dopo tanti anni di ferali inimicizie, costruirono insieme il Padre.

    Lo collocarono in una smisurata caverna artificiale, scavata per accoglierlo quattro chilometri nel sottosuolo, cui s’accedeva per una sola via che conduceva alla sala di controllo, esterna al corpo del Padre. La scienza, evolutasi a grandi passi nel pervertimento della guerra, ricondotta ai suoi pacifici propositi trovò redenzione in quel progetto magnifico.

    Era una macchina prodigiosa, in grado di auto ripararsi e rigenerarsi. Un calcolatore immenso, frutto ultimo colto alla sommità dell’albero teleologico della tecnologia. Capace di miliardi di miliardi di operazioni ogni microsecondo, catafratto d’un mantello metallico impenetrabile e incapsulato nelle profondità della terra, rivolgeva alla residua attonita umanità della superficie le sue interfacce, attraverso le quali poteva ricevere e inviare comandi e dati, come una piovra colossale estroflette verso il mondo i suoi tentacoli: per sondarlo: per captarne i segnali. Quelle interfacce, convergenti nell’unica sala di controllo, rappresentavano la sola possibilità di accesso al Padre consentita agli esseri umani, ai quali i progettisti avevano impedito, racchiudendo il computer in una corazza inviolabile, di raggiungerlo fisicamente.

    Dentro l’involucro inespugnabile venne installato un generatore di energia, eterno e inesauribile, che s’alimentava assorbendo, trasformando e poi mettendo a disposizione l’inestinguibile potenza ribollente nel centro infuocato del pianeta. Convogliava verso la ctonia intelligenza cibernetica le immense quantità di energia che questa richiedeva per il proprio funzionamento, disponibile a erogarne fino alla soddisfazione integrale di ogni bisogno della macchina.

    Il cervello infallibile del Padre era custodito nel centro della bolla di metallo, entro un ulteriore guscio protettivo: nel nucleo.

    Ad ogni uomo fu consentito l’accesso alle funzioni della macchina, con cui poteva comunicare attraverso cavi e fibre ottiche collegati alle interfacce della sala di controllo come i nervi alla base del cranio. Essi ne diffondevano le capacità di calcolo al pianeta intero, mettendole a disposizione dell’umanità tutta, senza limitazioni o privilegi.

    Il genere umano aveva fatto ampio uso di tanta generosità, un uso smodato. Parecchi secoli dopo le guerre, il Padre governava dal suo antro il pianeta intero. Ogni attività produttiva era stata automatizzata. Ospedali, biblioteche, trasporti, scuole: tutto era gestito dalla macchina in modo precisissimo, impeccabile.

    L’uomo, svincolato dai lacci del bisogno, s'era dedicato alle arti, ai progressi dello spirito e al miglioramento del corpo, alle vocazioni, ai piaceri. Spensierato come un fanciullo, si era abbandonato alla cura del Padre, che sovrintendeva onnipotente alla soddisfazione delle necessità materiali. Tanto che, dandone per assodato l’appagamento, aveva perso la capacità di soddisfare da sé quel bisogno: dipendeva integralmente dalla macchina. Svanito grazie all’incantesimo dell’intelligenza miracolosa, il bisogno aveva cessato di essere stimolo: nelle morule incestuose d’una società che fecondava se medesima duplicandosi all’infinito, scomparivano le differenze, dominava il conformismo del tutto uguale, del ciò che era sarà, della raggiunta liberazione escatologica, come nell’universo morente raffreddato dall’inesorabile azione dell’entropia tiranneggia l’uniformità immutabile in ogni più riposto recesso.

    Gli antichi costruttori agirono per il bene, o in conformità a ciò che credettero tale. Fecero in modo che la scienza grazie alla quale il Padre era stato realizzato fosse seppellita con loro. Lo fecero in buona fede. Persuasi del fatto che il loro deleterio sapere avesse contribuito in maniera decisiva allo scoppio della guerra, operarono affinché fosse dimenticato, omettendone volutamente la trasmissione alle successive generazioni. Ne distrussero quasi ogni testimonianza, lasciando dietro sé soltanto qualche nozione generale, qualche accenno vago alla macchina e ai suoi componenti. Fondarono l’Ordine degli Ingegneri, perché si occupasse non tanto del cervello cibernetico e delle sue pertinenze, inaccessibili e che non necessitavano di alcuna manutenzione, quanto di assicurarsi del buono stato delle comunicazioni di questo col mondo esterno, e delle sue connessioni con i sistemi agenti sulla superficie, perché potesse controllarli e governarli.

    Interprete della sotterranea volontà, l’Ordine andò sempre più assumendo le connotazioni d’un ministero sacerdotale piuttosto che quelle d’una gerarchia di tecnici, siccome fosse collettivamente quale quel profeta attraverso cui la divinità porta agli uomini la sua divina parola.

    Per tal via gli antichi, sfregiati dalle cicatrici della guerra, intesero assicurare la pace ai discendenti: un solo immane ed eterno calcolatore avrebbe servito l’umanità, e nessun altro.
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    Ti faccio le mie congratulazioni. Se ti sono stato utile, mi fa piacere. Buon proseguimento.
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    Ciao. È un racconto con un lieto fine! E Dio solo sa quanto abbiamo bisogno, nei nostri tempi bui, d'un lieto fine. Ma tant'è. Un bel contrasto, tra due personalità diverse, tuttavia complementari, che infine s'incontrano nella più classica e similtanea delle dichiarazioni "rosa". Ed è la giusta e attesa conclusione.
    Se mi posso permettere, offrirei alcuni consigli. Il primo è quello di arricchire il lessico, specie nelle parti descrittive. Il secondo riguarda questo capoverso: "Si stava divertendo così tanto a fare snowboard sulla neve, il vento tra i capelli, il brivido del rischio poi era uscito dalla pista, aveva urlato in preda all'euforia per la velocità, veniva sommerso da una valanga, aveva lottato per rimanere sveglio, ma alla fine tutto era diventato buio.", in merito al quale io avrei messo un punto tra" rischio" e "poi", per separare i periodi, e anche le due situazioni opposte, cioè divertimento e tragedia. In terzo, ed ultimo, luogo, questa frase non mi è parsa particolarmente cortese: “E tu lo sai perché...”, ma forse era voluto.
    Ho finito il mio antipatico sproloquio. Spero ti possa essere utile, per quanto può valere.
    Ciao e alla prossima.
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    Molto bene. Allora perseveriamo.
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    Ciao, grazie per il bentornato. Per il poco che mi è possibile, cercherò di animare il forum come dovrebbe essere. Mi spiace che sia meno frequentato.
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    Buongiorno a tutti. Ho frequentato questo forum un paio di anni fa. E mi ci sono trovato benissimo. Vicende spiacevoli della vita, da allora, me ne hanno allontanato, così come da tante altre cose che amavo. Perciò mi pare il minimo ripresentarmi. Ho postato un breve racconto. Ma mi sono sentito subito a disagio. No, non per il forum: piuttosto per il fatto di averlo dovuto lasciare per così tanto tempo, per poi ricomparire come nulla fosse stato. Mi è parso irrispettoso, e me ne scuso. Spero di leggere ancora tante cose interessanti. Rinnovo i miei saluti, sperando di essere sempre benvenuto.

    Edited by CurzioG - 15/10/2022, 14:51
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    Per quanto sia stimato e il suo ruolo indispensabile al funzionamento ordinato della nostra evoluta società, hélas la morte, prima o dopo, deve pur bussare anche alla porta del notaio. E così dovette fare, in ossequio agli uffici suoi, anche all’uscio del notaio Bertolotti. Però, che fosse per dispetto, o per lenire un poco la monotona mestizia del suo agire, oppure per quella sciatteria che di tanto in tanto mostra nella lugubre opera sua, volle presentarsi in orario d’ufficio, e d'un giorno feriale. Così, le toccò reclamare il dovuto all’indirizzo dello studio.
    Il notaio Bertolotti, che stava al secondo piano, porta B, nell'elegante palazzina ora “Del Tulipano”, ma che fu del Battistini, lo storico costruttore del primo novecento, la cui marmorea filantropia occhieggiava i visitatori dal profilo in bronzo incastonato nelle steli dell’atrio dell’ospizio e della scuola materna del paese, venne a mancare all’età veneranda degli ottantotto anni, nel bel mezzo d’una stipula. Nel corso dell’alienazione d'un terreno per la precisione. Così diligente! attaccatissimo al suo studio com'era! sino all'ultimo. Se si vuole, letteralmente.
    Gli sventurati comparenti, agl’accenni di tosse, credendo sulle prime si trattasse di un’innocua deglutizione mal condotta a destino dalla venerabile epiglottide, affaticata da tanta lettura, si limitarono a porgergli educatamente una bottiglietta d’acqua estratta rapida dalla borsetta d’una di loro. Ancora chiusa la bottiglia, s’intende: per educazione. I medesimi, loro malgrado, dovettero commutare tuttavia, nell’arco di qualche secondo, dal solidale spirito di quella garbata offerta a un truce spavento, vedendo la mano destra contratta del rogante, anziché afferrare la bottiglia, artigliare il petto con evidenza dolente, e abbandonare, esalando un rantolo a detta di tutti terribile, la minuta che reggeva nella sinistra a un aereo squadernarsi, e a uno scomposto rovinio sul parquet tirato a lucido e incerato di fresco. Precipitando poi il notaio al suolo appena dopo nell’intera persona con un sonoro sbaamm! e poltrona che ne sorreggeva le terga e tutto il notarile abito di gessato grigio che lo ricopriva, giù con lui.
    Lì per lì, una volta scemata la sorpresa, la maggiore preoccupazione s’indirizzò al povero vegliardo, caduto eroicamente nell’adempimento del dovere. Che per un notaio è assai più che onorevole, questo è certo, e bisogna dargliene il merito per quanto postumo.
    La professoressa Zambelli, intervenuta quale parte venditrice, pur senz'altro in preda anche lei alla comprensibile agitazione che s’era creata in sala stipula, ma d’altra parte usa agli studenteschi malori, veri o immaginari che fossero, ebbe abbastanza prontezza di spirito da telefonare subito al numero di emergenza.
    Di lì a poco però, constatato con una scrollata di testa e in via definitiva il decesso, da parte d’uno psichiatra esercitante nel vicino ospedale… ma sì, … il dottor Perrone! peraltro un cugino in secondo grado della Zambelli: quello stesso che aveva così brillantemente curato, dosando con sapienza psicofarmaci e tisane, il grave esaurimento della maestra dell'asilo. Come si chiamava? Gambarini, ecco! maestra Gambarini. Già, proprio lei. Quante sculacciate rifilate a gratis alle povere creature! ne minacciava di schiocchi nel delirio persino ai commessi del supermarket! Così, senza motivo. Un pericolo pubblico, che c’era da prender paura a incontrarla per via, con quella faccia torva torva, dove che fosse. Che giorni orribili! sissì, era proprio lei, la maestra Gambarini. Di sicuro. Esattamente. Allora… insomma, il Perrone psichiatra… s'era ritrovato, e nella disgrazia fu anche se si vuole una fortuna, tra i venditori anch’egli: per causa della quota d’un terreno ereditato da uno zio del quale non vedeva l’ora di disfarsi. Del terreno è ovvio, ché allo zio aveva già provveduto la natura. Sicché… per l’appunto… si diceva … a seguito di quella inappellabile constatazione del dottore, il Perrone, i pensieri dei presenti, riavutisi dallo sbalordimento, recuperata appieno la ragione e ristabilita la completezza della facoltà che rende possibile il dispiegarsi del raziocinio finanziario, si volsero rapidamente all’esito della stipulanda compravendita. Sempre più incavernando il notaio, alla cui perdita era stata dianzi fornita tanto autorevole asseverazione, ipso facto assunta come liberatoria, negli antri del subconscio.
    In merito a quella, cioè alla compravendita, si rimarcava infatti, per bocca della summenzionata Zambelli, il fatto che la sua integrale lettura fosse già avviata a conclusione. Anzi, poteva dirsi pressoché terminata, non mancando che qualche riga di prammatica, i patti essenziali della quale essendo già stati notificati ai convenuti dalla voce del morituro notaio pochi minuti avanti, quando ancora presidiava da vivente seduto in poltrona l’ufficio di solenne garante delle conformità giuridiche. Si levarono tuttavia, per reazione, alcune voci contrarie, nel dettaglio dei compratori, i quali collettivamente, ma con più foga il signor De Benetti, diffidavano con gran strepitare, avendo recuperato anche loro la piena consapevolezza e la totale disponibilità del senso del portafogli.
    La tanto terribilmente interrotta compravendita, per farla breve, non era chiaro se avesse da ritenersi conclusa, e quindi valida a tutti gli effetti, oppure no, avendo preso corpo tra i mormorii della stanza repentinamente amplificatisi, ambedue le concorrenti interpretazioni.
    Pur nella sopraggiunta funesta circostanza, il principio della certezza del diritto parve a tutti in egual misura non potersi sospendere così alla leggera. Senza cioè trasmettere drammatici scuotimenti all'interezza dell'ordinamento giuridico, di cui sarebbe venuto a cadere un principio fondante. E su quest’ultimo punto si trovarono senz’altro tutti d'accordo, sebbene, come si vedrà a breve, per ragioni opposte. Perciò, dovendo quel dogma irrinunciabile seguitare a operare secondo le convergenti opinioni dei comparenti in sala, s’imponeva che fosse fatta piena luce su questo aspetto tutt’altro che secondario della validità dell'atto, sebbene così atrocemente troncato, ma la cui interruzione non poteva essere ragionevolmente addossata in alcun modo agli intervenienti.
    In maniera del tutto naturale, quasi istintiva, gli italici convenuti si divisero in un attimo, come sogliono fare in qualunque analogo contesto, tra guelfi e ghibellini: nel caso di specie, va da sé, tra venditori e acquirenti. Sostenevano i primi che l'atto dovesse ritenersi nella sua sostanza concluso, e reclamavano dunque quanto pattuito in concambio dell’alienando terreno; recalcitravano dubbiosi i secondi, i quali non avendo certezza dell'efficacia del rogito incompiuto, e quindi di poter prendere legale possesso del terreno in questione, tergiversavano trattenendo fra le mani gli assegni di sportello destinati ai venditori. Il suddetto concambio per l’appunto.
    Si accese, neanche a dirlo, una feroce disputa che degenerò in breve tempo in uno scambio d’accuse e d’insulti, nel trambusto della quale la professoressa Zambelli, inamidata insegnante di latino e greco in forza al liceo classico mandamentale, con tanto di spessi occhiali avvinti all’accessorio metallico d’una fine catenella, per sospenderli al collo quando occorresse, fu accomunata al più volgare pollame: apostrofata cioè più volte con l'epiteto di gallina, e di oca, che quasi ne svenne dallo sdegno, la misera. E senza saper poi, per causa dell'inqualificabile offesa paralizzata, ribattere colpo su colpo alle contumelie. Insignita, a rafforzamento dei concetti già espressi e più volte reiterati, persino del titolo di anatra da cortile dal concitato De Benetti, spalleggiato dal socio storico Barrelli della DBB & Figli Costruzioni società semplice; mantenendo per contro rispettosamente i detti figli un atteggiamento tutt’altro che ineducato, seppur facendosi intendere anche loro.
    La baruffa infuriava, nonostante i tentativi di moderazione da parte del contegnoso Perrone, che, pur senza rinnegare le proprie aspettative di venditore, metteva in campo con lo psicanalitico maglione a dolcevita, o tentava, tutte le sue arti psichiatriche, quando la tardiva ambulanza arrivò da chissà dove a sirene spiegate sotto lo studio. Tanta in quel frangente era la confusione dentro la sala stipula, che quasi copriva soverchiandolo l’acuto miagolio delle sirene.
    Allorché comparvero all’uscio i trafelati soccorritori, equipaggiati di una barella con rotelle e di tutte le loro diavolerie di pronto intervento stipate all’inverosimile dentro borse e zaini, i rogitanti, del tutto avviluppati dal turbine della contesa e disturbati perciò sul più bello, chiesero loro chi fossero, avendo, passati ad altre urgenze, ormai del tutto estromesso dalle coscienze il corpo esanime del venerabile professionista disteso sul pregiato pavimento ligneo.
    La disgraziata Lissoni, storica segretaria dello studio notarile Bertolotti, e assistente del medesimo, già terrorizzata e colle gambe di pietra dinanzi alla tragedia impreveduta, e non più nel fiore degli anni nemmeno lei, veniva, nel mentre che tentavasi l’impossibile resurrezione, subissata d'istanze dai comparenti, le cui formulazioni si liquefacevano nel babelico vociare dei presenti. Si ritrovava la derelitta bersagliata da destra e da mancina di contrastanti interpelli, e insistenti, affinché si pronunciasse, in guisa d’improvvisato giureconsulto, sulla validità del rogito, essendo ritenuta unanimemente, se si fa eccezione dei soccorritori da ben altra grana già impegnati, peraltro captati e all’atto stesso espulsi dagli orizzonti percettivi dei rumorosi litiganti, la più alta autorità in materia. La donna, che a malapena riusciva a reggersi in piedi, prima di svenire ponendo termine alle pressanti interrogazioni cui non avrebbe in ogni caso saputo dare risposta, ebbe la forza di raggiungere il telefono, e di avvisare tra le lacrime la domestica dell’ormai ex datore di lavoro di entrambe. La quale a propria volta quasi quasi, dal colpo ricevuto a freddo, ci rimaneva secca anche lei, povera stellina, con quindici anni di mutuo ancora da pagare e il posto di lavoro dissolto in un amen.
    Come sia finita la faccenda del rogito, ahimè non è dato sapere. Ma, quel che è certo, è che fu celebrato un funerale memorabile.
    C’erano stati innanzitutto i frenetici giorni che precedono le esequie cerimoniose delle usanze funebri di quei luoghi, fatti di “condoglianze” e di “grazie” sussurrati nell’ingresso della camera ardente damascata di porpora, allestita nel salotto buono della casa; di rosari e litanie; di santi da invocare e di demoni da scacciare; di documenti da sottoscrivere per avviare la denuncia di successione, e di vespilloni ai quali accontare le cospicue provvidenze, il saldo essendo gentilmente consentito dopo la sepoltura, in via eccezionale: in considerazione della dignità e certa solvibilità della famiglia del de cuius.
    A seguire s’era celebrato in pompa magna il funerale, in chiesa, col feretro adornato di fiori e corone d’alloro drappeggiate di nastri viola, “I cugini avviliti”, “I parenti tutti costernati”, “Il sindaco affranto”, “Riviva nella pace di Nostro Signore”.
    Salivano alle volte affrescate della navata gli eterno riposo recitati nella generale contrizione dalla folla nerovestita e a testa bassa di parenti, amici, conoscenti e semplici curiosi, attirati dalla funesta mondanità dell’evento per poter dire d’aver partecipato; le preghiere degli storici clienti, incarnazione dei repertori, delle raccolte e delle serie 1T, che non potevano certo mancare l’estremo saluto; e il mormorio sommesso di qualche debitore miracolato, confuso tra la gente salmodiante, che recitava cogl'occhi bassi le sue divergenti orazioni, indirizzandole a ringraziare l’inaspettata benevolenza di qualche santo speciale, patrono dell’insussistenza attiva, piuttosto che a facilitare il trapasso all’anima del defunto.
    Dopo la funzione s’erano poi messi tutti ordinatamente in cammino, eccetto i curiosi che avevano preferito il caffè che s’apriva sul sagrato, sulla via per il camposanto, dietro il parroco e il chierichetto aquilifero, il quale gli reggeva alla destra l’asta sormontata dalla croce in similoro: vessillo da battaglia alla testa della triste legione, che marciava afflitta e indifferente al colore dei semafori sotto l’attenta tutela dei vigili urbani, impegnati coi guanti bianchi e in alta uniforme a liberare la pubblica strada per consentire il transito al mesto corteo.
    Infine lo strazio del ticchettio irregolare dei ciottoli mescolati alla terra, ricadenti contro il legno laccato del definitivo tetto, due metri sotto il piano dei vivi, tac tic toc, ternario conto alla rovescia dell’ultima luce.
    Sic transit gloria mundi.

    Edited by CurzioG - 14/10/2022, 17:27
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    Ciao. Ho fatto quelle correzioni che mi hai suggerito. Ora credo che il testo sia più scorrevole in virtù dei tuoi consigli. Grazie ancora.
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    Grazie. Prendo buona nota degli utilissimi suggerimenti.
    A presto.
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    Ciao Axum. Grazie per questa riscrittura. In effetti non mi è risultato semplice gestire da un lato il racconto di un tempo lontano, e dall'altro le reazioni che avevo nella stanza. In effetti si tratta di due luoghi diversi: il bosco, dove P decide per il proprio suicidio; e la stanza entro la quale lo racconta. Potrebbe certamente riscriversi come tu suggerisci. Tuttavia permettimi di dirti che "aveva ristato" mi pare orrendo. Grazie mille del solito commento puntale e preciso.

    Pardon, "era ristato". Mi scuso per il refuso.
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    Sono stato in terapia: psicoterapia di gruppo: abusavo di alcolici.
    Fu partecipando a quegli incontri che conobbi P.
    Le riunioni si tenevano, sotto la supervisione di uno psichiatra, nel seminterrato di una clinica privata: una struttura fatta di basse costruzioni annegate tra gli abeti e collegate da camminamenti in legno sopraelevati, per rispetto al sottobosco, edificata sulla sommità di una collina strappata, con la forza dei milioni, al demanio cantonale. Era uno di quei lussuosi e lindi ospedali privati nei quali i ricchi vanno a sbiancare i panni sudici nella discreta candeggina dei medici più pagati e riservati.
    Benché non fossi ricco, vi ebbi accesso grazie alla mia famiglia, che diede fondo alle sue risorse, e ai buoni uffici dello psichiatra dal quale ero in cura. Fu una fortuna, anche se non dovrebbe esserlo. Non dovrebbe essere una fortuna intendo, perché tutti dovrebbero poterne beneficiare. Ma questa è soltanto l'amara considerazione di un alcolista redento.
    P, al contrario di me, era ricco. Anzi, ricchissimo. Come avrei scoperto nel corso del tempo, spendeva ogni mese cifre pari ai miei stipendi di due o tre anni per auto di lusso, o d'epoca, per le quali aveva una passione sfrenata. Eppure, il suo aspetto non manifestava in nulla quell'opulenza. A guardarlo, o parlando con lui, dai suoi modi gentili e aperti non ne traspariva alcun indizio, salvo gli accenni espliciti che si lasciava sfuggire di tanto in tanto. Vestiva in modo trascurato, quasi sciatto: pantaloni di jeans e maglioncino a collo alto durante i mesi freddi, che sostituiva con una semplice camicia in quelli caldi. Prediligeva i colori spenti, le tinte neutre. Lo ricordo vestito d'un golf marrone, o verde scuro, e con una camicia bianca d'estate, oppure di un azzurro slavato, con un pacchetto morbido di sigarette mezzo vuoto perennemente nel taschino. Rammento che le fumava in modo singolare, senza staccarle dalle labbra, spazzolando a intervalli regolari con un gesto meccanico della mano la cenere che gli cadeva sugli abiti. Portava scarpe da ginnastica in ogni stagione, tanto fruste che sembrava potessero andare in pezzi ad ogni passo.
    Il suo volto era tondo, poggiato su un collo tozzo e largo. La vita lo aveva inciso di rughe, sottolineate dalla barba forte come dal carboncino di un artista irriverente. La fronte si alzava spingendosi nelle pronunciate stempiature, e le sue orecchie sporgevano a ventaglio fuori dalla testa.
    La cosa più notevole erano i grandi occhi: rotondi e scuri. Con le marcate borse e la pelle delle guance che già cedeva al peso del tempo, gli davano un'aria perennemente triste. Di una tristezza però dolce, e sazia, come avesse infine compreso una verità profondissima e spiacevole, la cui necessità aveva accettato di buon grado. Contribuivano alla sua rassegnata mestizia la bocca dagli ampi labbri carnosi, e un accenno appena percettibile di progenismo, che ne incupiva ancor più l'espressione.
    Non era molto alto, ma la sua larga figura trasmetteva una sensazione di forza fisica considerevole. Aveva mani così grandi, che le tazzine del caffè che mi offriva regolarmente alla buvette della clinica parevano, tra le sue dita, accessori di una casa di bambola.
    Parlava d'abitudine con voce profonda e calda, incespicando di tanto in tanto in qualche sillaba. Pronunciando qualche parola occasionalmente deragliava, sostituendo le vocali in modo insolito e imprevedibile, credo senza accorgersene, perché, a memoria, non l'ho mai sentito correggersi. Malgrado ciò, la sua conversazione era piacevole. Evocava confidenza, e la concedeva con facilità, o almeno lo faceva quando eravamo a tu per tu. Ci trovavamo una mezz'ora prima delle sedute, e dopo ci fermavamo ancora, scambiando qualche parola con la scusa di un altro caffè. Benché ci conoscessimo poco, mi parlava di cose intime, come i ruvidi conflitti col padre e i fratelli, o il suo disinteresse per il sesso, con un candore fanciullesco.
    Durante le riunioni P se ne stava sulle sue, seduto con le gambe incrociate, reggendosi ora sulla mano destra, ora sulla sinistra, il capo reclinato. Così comunicativo fuori dalla sala, altrettanto apatico una volta all'interno. Di tanto in tanto veniva chiamato in causa dal dottore in merito alla testimonianza di qualcuno, o sollecitato a portare la sua. Allora farfugliava di malavoglia qualche parola incomprensibile, e tornava nel suo silenzio annoiato. Era il suo modo di passare il turno, per così dire. Non si sentiva pronto.
    Un giorno, in modo del tutto inaspettato, le barriere di quella sua reticenza cedettero di schianto, liberando le parole a lungo trattenute.
    Sembrava un seduta come un'altra. Era stato introdotto, forse dal dottore, forse da noi malati, uno dei temi ricorrenti della terapia: toccare il fondo: una locuzione in uso tra i reietti del seminterrato, che rappresenta il momento in cui il malato, raggiunto il culmine del degrado, decide di reagire e chiede aiuto. È un passo essenziale, il primo e imprescindibile della terapia di una malattia da dipendenza. E non è automatico. Non sempre il malato lo compie. In quei casi, purtroppo non rari, è perduto.
    In maniera inopinata, P chiese la parola con un'alzata di mano. Appena il dottore gliela concesse, nel rispetto dell'ossuto ma rigidissimo protocollo delle riunioni, la sua postura cambiò. Si piegò in avanti, coi gomiti sulle cosce e le mani giunte. Alzò lo sguardo verso di me, che gli sedevo di fronte, e prese a fissarmi. Come se parlasse con me solo, e gli altri non ci fossero.
    La sua voce calda era modulata un tono sopra l'ordinario. Masticando qualche sillaba, parlò del suo lavoro, e di come fosse stato sollevato dagli incarichi operativi. La sua famiglia possedeva e gestiva un'importante azienda fornitrice di servizi di sicurezza: autisti armati assegnati, per la loro protezione, a personalità di alto profilo. Ora era ridotto al rango di fattorino, allontanato dai compiti di scorta a causa della sua dipendenza dall'alcol.
    Si stringeva le mani parlando, sino a sbiancarle, colmo di quella pietà per se stessi che provano tutti gli alcolisti quando sono lucidi. Raccontava uno di quei dolorosi periodi di coscienza della propria condizione che il disagio da dipendenza concede. Uno di quelli in cui la malattia si ritira temporaneamente, lasciando il malato privo di speranze, consapevole dell'abisso in cui è precipitato. La dipendenza, in quei frangenti, con perfidia si scosta, e il malato si ritrova nella più assoluta solitudine, racchiuso nella bolla in cui quella lo imprigiona: un campo di forze repulsivo che tiene lontani tutti gli altri esseri umani.
    Narrava con difficoltà. Faticava a concatenare le sillabe, mentre la disperazione rivissuta si condensava in gocce d'argento raccolte dall'orlo delle palpebre spalancate.
    Si era diretto verso le campagne con l'auto, arrestandosi nei pressi di un bosco. Era disceso. Aveva fatto qualche passo e poi si era seduto sotto un pino, con la sua pistola automatica in mano.
    P parlava. I suoi occhi sbarrati erano conficcati nei miei. Ogni mia cellula lo ascoltava, nell'assoluto silenzio della stanza, rotto dagli affrettati passi e dalle voci indistinte provenienti dai corridoi oltre la porta. Quegli occhi! Pieni della paura di quel tempo che rievocava. Occhi che mi chiedevano aiuto disperatamente, come certamente avevano fatto in quel momento lontano rivolgendosi a un universo vuoto.
    Aveva preso la pistola e si era messo la canna nella bocca. Rammentò di averla sentita fredda mentre l'appoggiava alle labbra. In quell'angolo di mondo, silenzioso e disabitato, sentiva la propria determinazione prendere forza. Aveva già il dito sul grilletto. Tuttavia aveva esitato, concedendosi ancora qualche secondo, e fu quella titubanza che lo salvò, perché accadde qualcosa che lo fece desistere.
    Ero paralizzato. La sua voce mi avvolgeva in un sortilegio. Tentavo persino di frenare lo sbattere delle palpebre.
    Continuando a fissarmi mentre raccontava, si alzò distendendo la schiena, appoggiato con le ampie spalle alla parete. Le mani ferme tenevano i ginocchi.
    La sua espressione tornò quella triste e gentile di sempre. I resti di quella paura appena rivissuta restavano impigliati in minuscoli cristalli tra le sue ciglia.
    Anche la sua voce si abbassò, discendendo al tono abituale.
    Aveva sentito suonare il telefono, lasciato nella macchina poco distante.
    Quel suono familiare lo aveva scosso, rompendo l'illusione di un universo privo di vita in cui lo imprigionava la sua malata percezione. Quel banale trillo gli regalò la vita. Qualcuno lo cercava. Si sentì invadere da una gioia incontenibile e inattesa. Una gioia dimenticata.
    Si tolse la volata gelida dalla bocca e rimise la sicura, poi tornò all'auto, ferma lì a pochi passi, e controllò il display del cellulare. Era una chiamata dal numero dell'ufficio. Mentre guardava il telefono, vi comparve un messaggio di suo padre, che lo pregava di rientrare. Una commissione urgente doveva essergli affidata.
    Rise forte, lì solo, ma non più in solitudine, seduto nella macchina in una strada isolata tra i boschi. Era rinato. La vita gli aveva regalato una seconda possibilità.
    Così aveva toccato il suo fondo. E ora risaliva. Perciò era in quella stanza.
    Terminato il racconto, reclinò come suo solito la testa, reggendola sulla mano sinistra. Mi guardava ancora, con una serenità rinnovata sul volto. Sembrava assaporare la libertà di chi si disfa di un segreto doloroso rivelandolo al mondo. Sorrideva. Si era alleggerito del peso di quella verità sgradevole che aveva portato tutto solo per tanto tempo.
    La sala rimase muta per qualche minuto. Vedevo annuire in silenzio i compagni di sventura.
    Fu il dottore che parlò per primo. Ringraziò P, sottolineando la drammaticità del suo racconto. Disse che aveva fatto un passo importante lungo il cammino della terapia. Promise che ne avremmo parlato al prossimo incontro, chiedendo a ciascuno di riflettere su quelle terribili parole.
    La seduta era terminata.
    Andammo al bar, per il solito caffè. P mi parlò di un'auto che aveva visto e che voleva comprare a ogni costo.

    Edited by CurzioG - 24/2/2021, 16:45
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