Il rifugio dello scrittore

Quando conobbi P

Toccare il fondo

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    Sono stato in terapia: psicoterapia di gruppo: abusavo di alcolici.
    Fu partecipando a quegli incontri che conobbi P.
    Le riunioni si tenevano, sotto la supervisione di uno psichiatra, nel seminterrato di una clinica privata: una struttura fatta di basse costruzioni annegate tra gli abeti e collegate da camminamenti in legno sopraelevati, per rispetto al sottobosco, edificata sulla sommità di una collina strappata, con la forza dei milioni, al demanio cantonale. Era uno di quei lussuosi e lindi ospedali privati nei quali i ricchi vanno a sbiancare i panni sudici nella discreta candeggina dei medici più pagati e riservati.
    Benché non fossi ricco, vi ebbi accesso grazie alla mia famiglia, che diede fondo alle sue risorse, e ai buoni uffici dello psichiatra dal quale ero in cura. Fu una fortuna, anche se non dovrebbe esserlo. Non dovrebbe essere una fortuna intendo, perché tutti dovrebbero poterne beneficiare. Ma questa è soltanto l'amara considerazione di un alcolista redento.
    P, al contrario di me, era ricco. Anzi, ricchissimo. Come avrei scoperto nel corso del tempo, spendeva ogni mese cifre pari ai miei stipendi di due o tre anni per auto di lusso, o d'epoca, per le quali aveva una passione sfrenata. Eppure, il suo aspetto non manifestava in nulla quell'opulenza. A guardarlo, o parlando con lui, dai suoi modi gentili e aperti non ne traspariva alcun indizio, salvo gli accenni espliciti che si lasciava sfuggire di tanto in tanto. Vestiva in modo trascurato, quasi sciatto: pantaloni di jeans e maglioncino a collo alto durante i mesi freddi, che sostituiva con una semplice camicia in quelli caldi. Prediligeva i colori spenti, le tinte neutre. Lo ricordo vestito d'un golf marrone, o verde scuro, e con una camicia bianca d'estate, oppure di un azzurro slavato, con un pacchetto morbido di sigarette mezzo vuoto perennemente nel taschino. Rammento che le fumava in modo singolare, senza staccarle dalle labbra, spazzolando a intervalli regolari con un gesto meccanico della mano la cenere che gli cadeva sugli abiti. Portava scarpe da ginnastica in ogni stagione, tanto fruste che sembrava potessero andare in pezzi ad ogni passo.
    Il suo volto era tondo, poggiato su un collo tozzo e largo. La vita lo aveva inciso di rughe, sottolineate dalla barba forte come dal carboncino di un artista irriverente. La fronte si alzava spingendosi nelle pronunciate stempiature, e le sue orecchie sporgevano a ventaglio fuori dalla testa.
    La cosa più notevole erano i grandi occhi: rotondi e scuri. Con le marcate borse e la pelle delle guance che già cedeva al peso del tempo, gli davano un'aria perennemente triste. Di una tristezza però dolce, e sazia, come avesse infine compreso una verità profondissima e spiacevole, la cui necessità aveva accettato di buon grado. Contribuivano alla sua rassegnata mestizia la bocca dagli ampi labbri carnosi, e un accenno appena percettibile di progenismo, che ne incupiva ancor più l'espressione.
    Non era molto alto, ma la sua larga figura trasmetteva una sensazione di forza fisica considerevole. Aveva mani così grandi, che le tazzine del caffè che mi offriva regolarmente alla buvette della clinica parevano, tra le sue dita, accessori di una casa di bambola.
    Parlava d'abitudine con voce profonda e calda, incespicando di tanto in tanto in qualche sillaba. Pronunciando qualche parola occasionalmente deragliava, sostituendo le vocali in modo insolito e imprevedibile, credo senza accorgersene, perché, a memoria, non l'ho mai sentito correggersi. Malgrado ciò, la sua conversazione era piacevole. Evocava confidenza, e la concedeva con facilità, o almeno lo faceva quando eravamo a tu per tu. Ci trovavamo una mezz'ora prima delle sedute, e dopo ci fermavamo ancora, scambiando qualche parola con la scusa di un altro caffè. Benché ci conoscessimo poco, mi parlava di cose intime, come i ruvidi conflitti col padre e i fratelli, o il suo disinteresse per il sesso, con un candore fanciullesco.
    Durante le riunioni P se ne stava sulle sue, seduto con le gambe incrociate, reggendosi ora sulla mano destra, ora sulla sinistra, il capo reclinato. Così comunicativo fuori dalla sala, altrettanto apatico una volta all'interno. Di tanto in tanto veniva chiamato in causa dal dottore in merito alla testimonianza di qualcuno, o sollecitato a portare la sua. Allora farfugliava di malavoglia qualche parola incomprensibile, e tornava nel suo silenzio annoiato. Era il suo modo di passare il turno, per così dire. Non si sentiva pronto.
    Un giorno, in modo del tutto inaspettato, le barriere di quella sua reticenza cedettero di schianto, liberando le parole a lungo trattenute.
    Sembrava un seduta come un'altra. Era stato introdotto, forse dal dottore, forse da noi malati, uno dei temi ricorrenti della terapia: toccare il fondo: una locuzione in uso tra i reietti del seminterrato, che rappresenta il momento in cui il malato, raggiunto il culmine del degrado, decide di reagire e chiede aiuto. È un passo essenziale, il primo e imprescindibile della terapia di una malattia da dipendenza. E non è automatico. Non sempre il malato lo compie. In quei casi, purtroppo non rari, è perduto.
    In maniera inopinata, P chiese la parola con un'alzata di mano. Appena il dottore gliela concesse, nel rispetto dell'ossuto ma rigidissimo protocollo delle riunioni, la sua postura cambiò. Si piegò in avanti, coi gomiti sulle cosce e le mani giunte. Alzò lo sguardo verso di me, che gli sedevo di fronte, e prese a fissarmi. Come se parlasse con me solo, e gli altri non ci fossero.
    La sua voce calda era modulata un tono sopra l'ordinario. Masticando qualche sillaba, parlò del suo lavoro, e di come fosse stato sollevato dagli incarichi operativi. La sua famiglia possedeva e gestiva un'importante azienda fornitrice di servizi di sicurezza: autisti armati assegnati, per la loro protezione, a personalità di alto profilo. Ora era ridotto al rango di fattorino, allontanato dai compiti di scorta a causa della sua dipendenza dall'alcol.
    Si stringeva le mani parlando, sino a sbiancarle, colmo di quella pietà per se stessi che provano tutti gli alcolisti quando sono lucidi. Raccontava uno di quei dolorosi periodi di coscienza della propria condizione che il disagio da dipendenza concede. Uno di quelli in cui la malattia si ritira temporaneamente, lasciando il malato privo di speranze, consapevole dell'abisso in cui è precipitato. La dipendenza, in quei frangenti, con perfidia si scosta, e il malato si ritrova nella più assoluta solitudine, racchiuso nella bolla in cui quella lo imprigiona: un campo di forze repulsivo che tiene lontani tutti gli altri esseri umani.
    Narrava con difficoltà. Faticava a concatenare le sillabe, mentre la disperazione rivissuta si condensava in gocce d'argento raccolte dall'orlo delle palpebre spalancate.
    Si era diretto verso le campagne con l'auto, arrestandosi nei pressi di un bosco. Era disceso. Aveva fatto qualche passo e poi si era seduto sotto un pino, con la sua pistola automatica in mano.
    P parlava. I suoi occhi sbarrati erano conficcati nei miei. Ogni mia cellula lo ascoltava, nell'assoluto silenzio della stanza, rotto dagli affrettati passi e dalle voci indistinte provenienti dai corridoi oltre la porta. Quegli occhi! Pieni della paura di quel tempo che rievocava. Occhi che mi chiedevano aiuto disperatamente, come certamente avevano fatto in quel momento lontano rivolgendosi a un universo vuoto.
    Aveva preso la pistola e si era messo la canna nella bocca. Rammentò di averla sentita fredda mentre l'appoggiava alle labbra. In quell'angolo di mondo, silenzioso e disabitato, sentiva la propria determinazione prendere forza. Aveva già il dito sul grilletto. Tuttavia aveva esitato, concedendosi ancora qualche secondo, e fu quella titubanza che lo salvò, perché accadde qualcosa che lo fece desistere.
    Ero paralizzato. La sua voce mi avvolgeva in un sortilegio. Tentavo persino di frenare lo sbattere delle palpebre.
    Continuando a fissarmi mentre raccontava, si alzò distendendo la schiena, appoggiato con le ampie spalle alla parete. Le mani ferme tenevano i ginocchi.
    La sua espressione tornò quella triste e gentile di sempre. I resti di quella paura appena rivissuta restavano impigliati in minuscoli cristalli tra le sue ciglia.
    Anche la sua voce si abbassò, discendendo al tono abituale.
    Aveva sentito suonare il telefono, lasciato nella macchina poco distante.
    Quel suono familiare lo aveva scosso, rompendo l'illusione di un universo privo di vita in cui lo imprigionava la sua malata percezione. Quel banale trillo gli regalò la vita. Qualcuno lo cercava. Si sentì invadere da una gioia incontenibile e inattesa. Una gioia dimenticata.
    Si tolse la volata gelida dalla bocca e rimise la sicura, poi tornò all'auto, ferma lì a pochi passi, e controllò il display del cellulare. Era una chiamata dal numero dell'ufficio. Mentre guardava il telefono, vi comparve un messaggio di suo padre, che lo pregava di rientrare. Una commissione urgente doveva essergli affidata.
    Rise forte, lì solo, ma non più in solitudine, seduto nella macchina in una strada isolata tra i boschi. Era rinato. La vita gli aveva regalato una seconda possibilità.
    Così aveva toccato il suo fondo. E ora risaliva. Perciò era in quella stanza.
    Terminato il racconto, reclinò come suo solito la testa, reggendola sulla mano sinistra. Mi guardava ancora, con una serenità rinnovata sul volto. Sembrava assaporare la libertà di chi si disfa di un segreto doloroso rivelandolo al mondo. Sorrideva. Si era alleggerito del peso di quella verità sgradevole che aveva portato tutto solo per tanto tempo.
    La sala rimase muta per qualche minuto. Vedevo annuire in silenzio i compagni di sventura.
    Fu il dottore che parlò per primo. Ringraziò P, sottolineando la drammaticità del suo racconto. Disse che aveva fatto un passo importante lungo il cammino della terapia. Promise che ne avremmo parlato al prossimo incontro, chiedendo a ciascuno di riflettere su quelle terribili parole.
    La seduta era terminata.
    Andammo al bar, per il solito caffè. P mi parlò di un'auto che aveva visto e che voleva comprare a ogni costo.

    Edited by CurzioG - 24/2/2021, 16:45
     
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    Ciao CurzioG,
    ma allora aveva ragione Massimo Lopez in quella pubblicità degli anni 90... 😉

    Come sempre, il brano scorre e si fagocita con piacere. Questa volta hai usato il metodo descrittivo, che funziona molto con gli anglofoni e un po' meno con noi italiani, che sovente non interpretiamo bene il loro "Show, don't tell" e tentiamo di farlo funzionare con la nostra meravigliosa lingua senza considerare che il nostro idioma letterario fa apparire lo show, don't tell come una lista di dettagli che tuttavia dimentichiamo dopo poche righe. Tuttavia, degustibus non disputandum est, specialmente con te, che hai ampiamente dimostrato di "saperla lunga".
    Colgo la palla al balzo per mostrarti come agiamo, come tentiamo di proporre aiuti: ti mostrerò un tratto del tuo brano che mi ha indotto a un inceppamento, ovvero una serie di remoti in una frazione narrata non in prima persona, non in terza e nemmeno in un dialogo diretto.
    Ti chiedo di osservare il tratto con altri tempi verbali, alla stregua del narratore onnisciente interrotto, dove è servito, dalla rimembranza vera e propria e dalle sensazioni provate dalla voce narrante. Con i remoti sembra che ci sia un cambio di ambientazione, come se i due si fossero spostati fisicamente in un altro luogo; lì il lettore si aspetta di scoprire il luogo, che tuttavia non c'è.
    Eccolo (con altri tempi):
    Si era diretto nelle campagne con l'auto, arrestandosi nei pressi di un bosco. Era disceso dal mezzo. Aveva fatto qualche passo e poi si era seduto sotto un pino, con la sua pistola automatica in mano.
    P parlava. I suoi occhi sbarrati erano conficcati nei miei. Ogni mia cellula lo ascoltava, nell'assoluto silenzio degli astanti, rotto dagli affrettati passi e dalle voci indistinte provenienti dai corridoi oltre la porta. Quegli occhi! Pieni della paura di quel tempo che rievocava. Occhi che mi chiedevano aiuto disperatamente, come certamente avevano fatto in quel momento lontano rivolgendosi a un universo vuoto.
    Aveva preso la pistola e si era messo la canna nella bocca. Rammentava di averla sentita fredda mentre l'appoggiava alle labbra. In quell'angolo di mondo, silenzioso e disabitato, aveva avvertito la propria determinazione prendere forza. Aveva già messo il dito sul grilletto. Poi era ristato, concedendosi ancora qualche secondo. Quell’esitazione lo aveva salvato, perché accadde qualcosa che lo fece desistere.

    L'ultimo remoto è soltanto uno stratagemma per stimolare la curiosità del lettore, altrimenti non ci sarebbe voluto nemmeno quello.

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    Ciao Axum. Grazie per questa riscrittura. In effetti non mi è risultato semplice gestire da un lato il racconto di un tempo lontano, e dall'altro le reazioni che avevo nella stanza. In effetti si tratta di due luoghi diversi: il bosco, dove P decide per il proprio suicidio; e la stanza entro la quale lo racconta. Potrebbe certamente riscriversi come tu suggerisci. Tuttavia permettimi di dirti che "aveva ristato" mi pare orrendo. Grazie mille del solito commento puntale e preciso.

    Pardon, "era ristato". Mi scuso per il refuso.
     
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    Sì, "ristare", se non è al remoto, è insolito, ne convengo.
    Sì, i luoghi sono due ma, come dicevo, durante la narrazione sembra uno spostamento fisico di entrambi gli interlocutori (uno che fa, e l'altro che assiste), come fosse un cambio inaspettato del punto di vista della voce narrante.

    Rinnovo i complimenti e la stima per le tue capacità.
     
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    Grazie. Prendo buona nota degli utilissimi suggerimenti.
    A presto.
     
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    Ciao. Ho fatto quelle correzioni che mi hai suggerito. Ora credo che il testo sia più scorrevole in virtù dei tuoi consigli. Grazie ancora.
     
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5 replies since 23/2/2021, 09:48   58 views
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