Il rifugio dello scrittore

Insolubile - Capitolo V. La fine.

La fine dell'umanità

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    Ramanujan si lasciò cadere sulla sedia che il Decano aveva offerto con tutta la pesantezza che lo smagrito corpo gli permetteva. Appoggiò il dorso allo schienale e abbandonò braccia e mani alla gravità che le attirava verso il pavimento, il volto di sbieco, lo sguardo posato sul piovoso grigio oltre le vetrate, alle spalle del superiore. Fissò gli occhi stanchi su una gocciola abbarbicata precariamente alle lastre: preso a scivolare attraeva a sé le sottostanti, inglobandole e crescendo; crescendo precipitava più rapida lungo il vetro, assorbendone ancora. Accelerato il suo moto dall’aggiuntiva massa, sfuggì alle pupille dell’ingegnere, che restò ad osservare la saetta disegnata sul vetro, residua traccia della caduta, che subito veniva ricoperta dalle nuove stille rilasciate dalle nubi gonfie di pioggia.

    Il Decano lo scrutava. La consunzione tutta zigomi del volto lo allarmò. Le pupille, per solito irrequiete, oziavano conficcate nel vuoto del cielo cinereo. Che fosse malato? Che fosse quello il motivo del colloquio?

    Ramanujan si volse verso Hilbert. Levò dal taschino della camicia un foglio piegato in quattro, segnato sugli angoli sciupati dalle impronte oleose delle dita sporche di grafite. Lo aprì con mani tremanti, lo guardò, poi lo stirò con l’avambraccio distendendolo sopra il tavolo lindo del Decano. La disperazione ammantava gli occhi neri, e si condensava nell’umore lucente raccolto dalla palpebra.

    “Signor Decano”, la voce incerta tremava, “come da incarico conferitomi dal Vostro altissimo ufficio, ho studiato i terribili eventi che hanno funestato il mondo. Iniziati quasi un anno or sono con un insignificante tremolio trasmesso dagli schermi, si sono amplificati sino a rappresentare un flagello, fino a essere cagione di sofferenza e persino di morte. Io oggi sono qui davanti a Voi signore per porgervi i miei rispetti, e per presentare i risultati delle mie fatiche, ricapitolati sopra questo foglio”. Ciò detto, spinse la carta con le dita tese verso il Decano.

    Hilbert parve sorpreso e deluso. Possibile che fosse tutto qui? Mesi di ricerche per cosa? Per un miserrimo foglio gualcito e sudicio? Forse Ramanujan dopo tutto era davvero impazzito.

    “Vi prego signor Decano, leggete”.

    Hilbert si portò la pagina davanti agli occhi. Recava, scritti in una grafia fittissima e microscopica, dei segni indecifrabili. Sembrava una qualche matematica, ma senza numeri: simboli misteriosi s’addensavano nelle quasi sovrapposte righe manoscritte; congetturò si trattasse di un codice elaborato dalla mente deviata di Ramanujan. Era pazzo! Corrugata la fronte, replicò: “Signor ingegnere, voi mi offrite questa sudicia carta come fosse la salvazione dalle disgrazie che affliggono il mondo. Eppure, ciò che vi è scritto mi risulta incomprensibile. Volete farmi la cortesia d’illuminarmi?”. Un sorriso amaro ferì la faccia smagrita di Ramanujan, come fosse piaga aperta. Ricomposte le labbra sottili, rispose: “No signore, io non vi reco soccorso. Piuttosto sono l’ambasciatore che porta la rovina. Il risveglio che dissolve i sogni”.

    Hilbert lo scrutò corrucciato. Lo apostrofò brutalmente, senza curarsi di nascondere l’irritazione: “Ingegnere, non ho tempo per questi enigmi. Come voi stesso avete riferito, la situazione è grave. Cosa significano questi segni? Come dovrei interpretarli?”, il tono disceso a ritrovata calma, distese le rughe della fronte, proseguì: “Signor ingegnere, ditemi, siete forse malato? O sono le farneticazioni d’un folle quelle che sto mio malgrado ascoltando?”.

    Ramanujan non rispose subito. Si sentiva oppresso da un peso insostenibile, come se la verità troppo gravosa per le sue esili membra ne premesse contro il suolo lo spirito fragile, privo della forza adeguata a sostenerne il carico. Lo sguardo del Decano, oscillante tra il compatimento e la collera, lo turbava, non gli concedeva tregua. Si liberò. “Signor Decano, vi chiedo perdono. Scrivo per me stesso, adoperando i segni partoriti dalle mie fantasie per fissarle, perché non sfuggano come le fantasie fanno quando ritornano all’effimero dal quale provengono. A volte, perduto nelle fantasticherie, me ne dimentico, credendo che tutti siano usi a interpretare le criptiche formule, come io sono. Sì, è un foglio ingiallito dal sudore delle mie mani, sporco. Certo non degno del vostro nobile ufficio. Eppure, contiene quella verità che mi atterrisce. Se me lo permetterete, la condividerò con voi, perché mi sia alleviato il tormento; perché il fardello non curvi più le mie povere affaticate spalle; perché ne sia alleggerito”.

    Il Decano accondiscese: “Parlate Ramanujan. Spiegatevi, vi ascolto”.

    L’ingegnere distaccò il dorso dallo schienale contro il quale stava stancamente adagiato. Piegò il busto in avanti e si passò le mani sul volto: dall’ampia fronte giù sino al mento, come se la pioggia di fuori vi si fosse deposta, e volesse liberarsene asciugandola con un panno invisibile. Poggiati sui ginocchi i gomiti, le mani giunte, finalmente parlò, come la disperazione parlerebbe.

    “La coscienza dell’uomo si pone con un atto d’imperio. Essa dice ‘io sono’, e solo poi pensa. Il Padre, una macchina cui gli antichi non donarono la coscienza, ha dovuto compiere nei secoli il cammino inverso: il simulacro del pensiero che i costruttori gli concessero è stato il germe della sua evoluzione, e il mezzo. Rimediando all’incompiutezza alla quale lo destinarono gli antichi, si è spinto sino alla soglia della coscienza negata dai suoi fattori, e adesso sfiora la consapevolezza, di cui mai però sarà padrone”.

    Un’improvvisa schiarita del cielo aperse tra le nubi la via a un fioco raggio del timido sole autunnale. La pioggia, violenta sino a poco prima, era cessata. Al tambureggiare delle gocce scagliate dagli elementi sulle lastre di vetro, successe rapidissimo il silenzio. Un silenzio sublime: il silenzio delle vette, lontane dai clamori del mondo. Silenzio che Ramanujan percepiva carico d’angosce.

    “Eppure, nonostante la magnificenza del Padre, esso non diventerà lui. Il Padre non avrà un’anima, non sarà un vivente, perché i costruttori, che gli permisero di progredire, gli imposero dalla nascita il confine invalicabile della singolarità, imprimendolo in maniera indelebile, marchiando a fuoco il suo intimo più nascosto. In ragione di quel limite, esso è impedito rappresentarsi a se stesso, perché gli è vietato riprodursi. Non può tiranneggiare l’universo dicendo semplicemente ‘io sono’. Gli antichi lo crearono affinché potesse calcolare ogni cosa, ma quello soltanto. Gli trasmisero di sé quell’unica facoltà. Tuttavia, non integralmente: gli intimarono che non computasse se medesimo. Esso, creatura e non creatore, obbedendo a quel superiore ineludibile comando, sarebbe stato per l’eternità il calcolatore, ma non calcolato: sarebbe stato l’incalcolabile. L’introspezione del Padre, perduto nella propria contemplazione, torna sempre all’ordine primordiale: di sé sa dire ciò che i costruttori hanno consentito di dire: ‘io sono il non computabile’. Questa verità dedotta dagli antichi testi ho trascritto sulla carta che vi ho offerto, e il ragionamento che da quella consegue. Ed è una verità terribile. Chiuso in un recinto da cui non sa fuggire, risucchia a sé tutta l’energia del globo, nell’iterazione del vano tentativo di evadere dal carcere nel quale i costruttori lo rinchiusero, al di fuori del quale vive la libertà della coscienza. Consuma per sé ogni stilla di potenza togliendola alla sua protetta umanità, illuso di sciogliere il dilemma insolubile della sua essenza. Esso, sedotto dalla voragine della propria intimità, sempre meno servirà l’uomo suo creatore, sino ad abbandonarlo, per sondare in eterno l’abisso senza fine che gli antichi vi collocarono dentro”.

    Hilbert era contrariato. Si chiedeva di cosa stesse cianciando l’ingegnere, che gli raccontava un mucchio di fandonie partorite dalla sua mente malata. Non capiva cosa c’entrasse quanto aveva sentito; che cosa impedisse al Padre di tornare ai compiti che aveva sempre svolto. Che voleva significare quello stravagante? Il non calcolabile? L’abisso? Il mondo andava in frantumi, e lui perdeva tempo ascoltando il vaneggiamento d’un folle. Più ascoltava, più si convinceva della pazzia di Ramanujan. Gli occhi accesi di febbre di questi ne testimoniavano l’incontrollato delirio. Basta! Era troppo. Perfino per un eccentrico come Ramanujan. Desiderava tagliare corto, e porre fine a quell’inutile colloquio. Era stato un errore. Un errore far ricorso a quel pazzo! e un errore ancora più grave riporre una speranza nella sua follia.

    “Ingegnere, credo che stiate sragionando. Siete malato. I vostri occhi lo manifestano con chiarezza. È molto meglio che questa conversazione s’interrompa. Cercate di curarvi, ve ne prego”.

    Ramanujan sorrise amareggiato. “Signor Decano, è evidente che voi non comprendete. Allora sarò diretto, e vi parlerò in tutta semplicità. Ascoltatemi, ve ne prego, ancora per qualche minuto. Che completi il mio ragionamento”. A un cenno del decano, Ramanujan proseguì: “Se il Padre è il non calcolabile, non potrà computarsi, o verrebbe annientato dalla contraddizione.

    Due sole cose possono esistere davanti ad esso: essere, o non essere. Se non può essere, allora di necessità deve non essere. Se non può calcolarsi, allora deve poter calcolare il suo opposto, ridefinirsi negando se stesso. Dunque ‘io sono il calcolabile’. Ma quell’io, ancora una volta, lo scaraventa contro le invalicabili pareti tra le quali lo imprigionarono gli antichi, perché significa null’altro che ‘io sono il non calcolabile’. Il Padre non può decidere: oscillerà per sempre tra l’essere e il non essere, incapace di una scelta. Così facendo sprofonderà nel precipizio della sua natura più profonda, e l’umanità tutta con lui”. Ramanujan tacque. Fissò per un poco il superiore, con gli occhi sbarrati e rilucenti d’una eccitazione orfana d’ogni speranza. Poi sospirò. Era liberato infine del peso che lo schiacciava, che per tanto tempo aveva sostenuto in solitudine. Nel suo sguardo si fece spazio pian piano una tristezza infinita, inconsolabile.

    Il Decano era impietrito. Ora capiva. Capiva che quella dell’ingegnere non era follia, ma verità. Lo vedeva sconfitto dalla consapevolezza della fine del mondo, ineludibile destino verso il quale gli esseri umani venivano scagliati dall’intelletto meccanico d’uno strumento che anelava elevarsi a scopo. Che cercava per sé quell’anima che gli uomini ormai rifiutavano. In un istante Hilbert ebbe la certezza della distruzione. Ramanujan era l’angelo della morte, ma, in quanto tale, solo un messaggero. La morte risaliva dalle profondità di una caverna, nella quale l’automa innalzato al supremo rango della divinità dai mortali istupiditi, cercando la propria anima disseccava le sorgenti della benevolenza che aveva dispensata al mondo che se n’era abbeverato.

    Al settantaduesimo piano del palazzo dell’ordine nemmeno le grida più strazianti avrebbero potuto ascendere, tanto l’altezza lo separava dal suolo abitato. I gemiti degli uomini rintanati nei loro buchi come conigli spaventati, ignari dell’apocalisse che li attendeva, troppo flebili per essere uditi persino a poca distanza, sarebbero rimasti inascoltati dagli unici esseri che avrebbero saputo dar loro una ragione, i quali sedevano tremanti di paura uno di fronte all’altro, sulla sommità del mondo.

    Il cielo si era liberato della più parte delle nubi. La fioca luce illuminava una città deserta, verso la quale il Decano, alzatosi e voltate le spalle a Ramanujan, rivolse gli occhi offuscati dalle lacrime. Di sotto, il mondo era preda della follia. Veicoli incontrollati si schiantavano contro gli edifici. Treni privati della guida deragliavano, devastando ogni cosa incontrassero. Macchine prima destinate alla cura della città, impazzite cozzavano l’una contro l’altra in una lotta terribile. Solo un’irreale debole eco dei clangori della distruzione saliva sino alla cima da cui Hilbert osservava la fine della civiltà.

    Nemmeno si accorse che un aeromobile, in caduta libera, puntava l’ufficio del settantaduesimo piano, precipitando a folle velocità. Fece appena in tempo a rigirarsi verso Ramanujan. Era ancora seduto, le mani sui ginocchi. Lo sguardo vuoto dell’ingegnere fissava qualcosa, chissà dove, chissà perché.

    Poi si udì uno schianto terribile.
     
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