Il rifugio dello scrittore

Insolubile - Capitolo III. L'ingegnere

La fine dell'umanità

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    Non appena gli fu notificato tramite la consolle posta sulla scrivania di mogano l’arrivo di Ramanujan, Hilbert dispose che fosse atteso un minuto prima di permetterne l’ingresso. Poi si alzò dalla poltrona e volgendo le spalle alla porta si mise a contemplare la città che si stendeva di sotto, osservandola dall’ampia finestra attraverso la quale la luce intensa dell’estate saturava l’ufficio al settantaduesimo piano, la vetta del palazzo dell’Ordine.

    Un trillo, il campanello della porta, annunciò la scadenza del minuto. Allora il Decano, sfiorando un pannello, concesse al suo ospite di entrare aprendo la porta scorrevole.

    Dopo i saluti e la stretta di mano di rito, Hilbert invitò Ramanujan a prendere posto su una delle sedie allineate di fronte alla scrivania, sedendosi a propria volta sulla poltrona abbandonata poco prima.

    Sul volto affilato di Ramanujan spiccavano gli occhiali con la montatura color tartaruga e tonda, che si discioglievano parzialmente nell’ambra della sua pelle. Ingannavano l’occhio distratto, parendogli i vetri sostenuti dal nulla. Due pupille nere e mobilissime mandavano lampi sondando la stanza e la scrivania. Le mani intrecciate stavano poggiate sul grembo. L’ingegnere aveva portato seco una cartella all’apparenza di cuoio, o di pelle sintetica, e sedendosi l’aveva deposta a lato della sedia, sul pavimento.

    Il Decano osservò il suo ospite. Tutti nell’Ordine lo conoscevano, e ne avevano scarso riguardo: lo accompagnava come un’ombra la sua pessima reputazione. I più generosi lo ritenevano un eccentrico. Gli occhiali, la cartella, e gli altri anacronismi che ostentava e di cui si ciarlava a sproposito, facevano parte dell’epos che s’era andato consolidando attorno alla sua figura peculiare. Piuttosto che sottoporsi alla chirurgia oculistica correttiva, aveva preferito le protesi. Anziché creare uno spazio a sé dedicato nell’infinita memoria del Padre, come tutti facevano, e accedervi dagli ubiqui terminali, si muoveva immancabilmente con una borsa sotto il braccio, o a tracolla. Da questa traeva all’occorrenza libri, o quaderni, o persino fogli: di carta! Scriveva a mano gli appunti sopra quegli antiquati supporti, con l’ausilio di una penna o di una matita, antichi arnesi dei quali non si indovinava l’origine. In aggiunta a queste esteriori e palesi, si sapeva per certo come ci fossero altre assai meno pittoresche stranezze. Una sopra tutte: la ricerca della scienza perduta degli antichi costruttori. Questa sua curiosità, pur non oltrepassando il confine del lecito, era percepita come qualcosa che rassomigliava all’eresia. Quella scienza era stata volutamente cancellata dagli antenati, per ragioni ben fondate. L’Ordine credeva con fermezza che non ci si dovesse allontanare dalle determinazioni degli antichi, e si dovesse lasciare che le conoscenze dei progenitori rimanessero seppellite nei secoli andati, come questi avevano reputato saggio che fosse. L’ingegnere rappresentava una malvista singolarità in un mondo abbeverato a un’unica fonte: come un pesce anadromo, nuotava controcorrente tentando di risalire il flusso del conformismo impregnante l’Ordine cui apparteneva, siccome la società indifferenziata in cui quest’ultimo era immerso, che riproduceva se stessa infinitamente uguale e beata, sotto la curatela dell’inconoscibile e benevolo intelletto ipogeo. A causa dei suoi discutibili interessi, Ramanujan era osteggiato dai suoi stessi colleghi, della considerazione e stima dei quali, a dispetto della brillante intelligenza, di conseguenza non godeva. Pur facendone parte a pieno titolo, era una sorta di oggetto estraneo rigettato dal corpo della gerarchia, tutta raccolta attorno all’irrinunciabilità dei dogmi e animata dall’inconsistente preminenza del benpensante, come gli anticorpi avversano quanto di alieno penetra nell’organismo. Il Decano in ciò non rappresentava un’eccezione. Anzi. Sebbene il proprio giudizio sull’ingegnere l’avesse espresso con estrema ponderazione e in rarissime occasioni, la sua opinione di inveterato perbenista era netta: Ramanujan era pericoloso, poiché rimetteva in discussione la saggia deliberazione degli antichi di celare il loro sapere, aspirando a riportarne alla luce i segreti. Era una mina vagante, che attaccava il fondamento stesso della pacifica società planetaria emersa dopo le tragedie delle guerre del silicio, come dalle sue ceneri l’uccello mitologico. Purtuttavia, ne aveva in quel momento un bisogno disperato: era l’unico ad avere, almeno in potenza, qualche nozione delle leggi consegnate all’oblio che sovrintendevano al funzionamento del Padre.

    Hilbert parlò. Adoperando da principio un tono da cattedratico, informò il suo ospite in merito all’andamento dei lavori dell’unità che presiedeva. Fece una sintetica disamina delle difficoltà con le quali la Commissione si era dovuta confrontare dalla sua convocazione. Segnalò a Ramanujan le rilevazioni dei cali di energia, e concluse riferendo, non senza amarezza, come la Commissione non fosse giunta a elaborare una spiegazione accettabile dei sempre più gravi fenomeni che tormentavano il pianeta.

    L’ingegnere ascoltava annuendo. Col dito indice, ora della mano destra, ora della sinistra, si aggiustava di quando in quando con un rapido gesto gli occhiali, che scivolavano verso il basso lungo il naso ossuto. Fissava gli occhi del suo interlocutore cercando vanamente come di agganciarli ai propri, per non consentire loro di sfuggire. Il Decano desiderava sottrarsi a quello sguardo attento, avidissimo di fatti, che gli pareva scandagliasse il fondo del suo spirito per estrarne una qualche paurosa cosa della sua intimità a lui stesso sconosciuta. Tentava, sebbene con scarsi risultati, di celare il disagio che trapelava, malgrado gli sforzi di sedarlo, dal registro della voce: lasciato cadere il tono didascalico, sfumava qui e là in un tremolio quasi impercettibile. L’imbarazzo, eluso il controllo cosciente del Decano, si manifestava nell’espressione del viso, epifania ingovernabile del malessere indotto dall’ospite.

    L’ingegnere, rivolgendosi con la dovuta deferenza al superiore, chiese il permesso di accedere a tutti i dati che la Commissione, nei lunghi e febbrili mesi di attività, aveva raccolto intorno ai fenomeni oggetto di studio, nessuno escluso. L’ottenne. Hilbert comunicò che avrebbe operato in qualità di consulente, non mancando di menzionare che giudicava opportuno lavorasse da solo. Con un cenno della mano Ramanujan manifestò al Decano piena comprensione, cosciente dello scarso apprezzamento che gli era riservato dai colleghi. Poco gl’importava del resto.

    I due si salutarono, scambiandosi qualche logora parola convenzionale e stringendosi nuovamente la mano. Hilbert allora si alzò e scortò l’ingegnere alla porta. L’aperse sfiorando la pulsantiera e, dopo aver convocato l’attendente, comandò che accompagnasse l’ospite all’ufficio che gli era stato destinato. Diede inoltre disposizioni affinché fossero svolte le previste formalità, e fornite al nuovo consulente della commissione tutte le necessarie credenziali, al fine di consentire a lui, sin da subito, pieno e totale accesso ad ogni dato, o terminale, o documento che richiedesse.

    Ramanujan, congedandosi, ringraziò ancora una volta il Decano, il quale, chiudendo la porta dietro di sé, rientrò nel suo ufficio accennando già di spalle il definitivo saluto con la mano.

    Seguendo l’improvvisato valletto, l’ingegnere rifletteva. Ponderava le parole del Decano ripetendosele nella mente. Il suo asciutto volto glabro s’era andato stirando, teso dalla meditazione, lungo gli ambulacri e dentro gli ascensori. A destinazione, attese distratto il termine della liturgia di spiegazioni dell’attendente, arcinote e del tutto trascurabili: in merito a questo regolamento, e poi a quello. S’accorse che la guida aveva concluso il vaniloquio dopo qualche secondo d’inerzia, sprofondato com’era nelle proprie cogitazioni. Allora, quasi soltanto in quell’istante tornato alla coscienza, lo ringraziò sbadato e con poco garbo, pregandolo con freddezza di lasciarlo, e corroborando la parola con un gesto rapido della mano. Desiderava mettersi al lavoro nell’immediatezza: non voleva essere disturbato oltre. L’accompagnatore gli destinò un’algida occhiata, informandolo con tono glaciale che avrebbe ricevuto le credenziali di lì a breve direttamente nel suo ufficio, senza altri contatti. Dopo di che, voltatosi, se ne andò a grandi passi, quasi fuggendo, visibilmente irritato.

    Ramanujan era solo. Gettò di sotto, attraverso le vetrate, il lampo di un’occhiata, indifferente alla sfolgorante estate che incendiava il mondo di fuori. L’ufficio era al quarantatreesimo piano. Accese la consolle e si sedette alla scrivania, meno elegante di quella assegnata al Decano, ma più che dignitosa, e senz’altro funzionale. Non appena le credenziali furono disponibili sul pannello, diede inizio alle ricerche. Estratto un blocco notes dall’inseparabile cartella, prese a interrogare il terminale, appuntando con la matita ciò che gli pareva degno di ulteriori approfondimenti.

    ******

    Nelle settimane che seguirono quel primo incontro, Ramanujan s’era adoperato con alacrità e dedizione assoluta. Aveva dovuto superare le resistenze che i colleghi gli opponevano nonostante le credenziali, in ragione del suo solo nome. L’ingegnere trascorreva sul posto di lavoro quasi l’intera giornata, e persino qualche notte, durante le quali aveva preferito rimanere nel suo ufficio, sonnecchiando qualche ora sulla poltrona d’ordinanza. Si era allontanato diverse volte dal palazzo dell’Ordine, mai per più di tre giorni consecutivi. Lasciava l’edificio senza comunicare l’assenza, com’era invece costume fra gli obbedienti membri dell’Ordine, né lo scopo dei suoi pur brevi viaggi, al rientro dai quali era oggetto di rinforzati sguardi di disapprovazione dei colleghi, che sommavano a tutte le altre la ragione di questa sua indisciplina. Ogni volta ne era tornato portando con fatica, a braccio o appeso a tracolla, il carico all’apparenza troppo grave per il suo corpo filiforme della prediletta cartella rigonfia, la quale, faticando a chiudersi, lasciava fuoriuscire qualche lembo di carta, o l’angolo gualcito d’un foglio.

    La sua stanza s’era in breve riempita all’inverosimile di libri, quaderni e fogli, impilati per la gran parte in un apparente babelico disordine di cumuli: taluni sparsi a terra, talaltri disposti sul piano della scrivania, tanto ingombro da non lasciar intravedere il colore del legno. Eppure, lui si muoveva come animato da un infallibile istinto da una catasta all’altra, in quella che a chiunque sarebbe apparsa come una confusione definitiva, irreparabile. Spiccava con distratta certezza questo o quell’appunto, o testo che fosse, secondo il bisogno del momento, scovandolo con la perizia di un animale da tartufo nel dissesto di carta con cui aveva ricoperto il pavimento e il tavolo. Aveva appeso i fogli più notevoli alle pareti, fissati col nastro adesivo, e perfino ne aveva tappezzato la vetrata, dalla quale ormai filtrava solo qualche sparuto e insufficiente raggio luminoso. Ciononostante, insoddisfatto, scriveva, scriveva, e scriveva ancora, e poi ancora.

    Il Decano Hilbert, vinta dalla necessità ogni avversione, aveva tollerato l’indisciplina di Ramanujan e i suoi metodi eterodossi, persuaso del fatto che fosse, con ogni probabilità e insieme per disgrazia, l’unico essere del pianeta capace di risollevare le sorti della Commissione di cui s’incaricava di far funzione di Presidente. I fenomeni anomali, ben lungi dallo spegnersi, s’erano andati al contrario aggravando, e in progressione ancora più rapida. Oltre le sempre presenti, misteriose e temporanee assenze di energia, s’erano verificati casi di perdita di controllo di macchinari e vettori di trasporto, la conduzione e circolazione dei quali, privi di operatori e piloti, il Padre aveva gestito fino a poco prima alla perfezione. L’opinione pubblica, spenti i fatui ardori della protesta, era disorientata, e al contempo spaventata: sull’orlo del panico: a motivo dell’insicurezza dilagante. A seguito di alcuni incidenti occorsi agli aeromobili, per pura fortuna privi di funeste conseguenze, la gente disertava gli aeroporti, rifiutandosi di volare su mezzi che reputava non più sicuri. I trasporti di superficie a loro volta registravano crescenti disfunzioni, sia nella forma di ritardi colossali di monorotaie continentali e linee urbane, sia per causa di veri e propri scontri tra veicoli, rivelatesi in alcuni casi, per buona sorte in esiguo numero, mortali. Tutto ciò gravava con il suo enorme carico di responsabilità sull’Ordine, e segnatamente sulla Commissione, la quale tardava a fornire un rimedio. Cosa di cui era tristemente conscio il Decano.
     
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