Il rifugio dello scrittore

Insolubile - Capitolo I. La guerra.

La fine dell'umanità

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    Buongiorno a tutti. Desidererei il vostro ausilio per perfezionare il testo che sto per pubblicare. Cose da trattare più estesamente, errori, alternative. Ringrazio in anticipo.

    Insolubile.

    La guerra s’era protratta per molti anni. Non era stata ininterrotta, né nel tempo, né nello spazio. Combattuta con armi terribili dando luogo a devastazioni mai sperimentate, e morti che si contavano a migliaia di milioni, s’era sviluppata in diverse fasi, separate da fragili tregue durante le quali dava l’impressione di spegnersi, salvo riaccendersi ancora più feroce in qualche altro luogo. La diplomazia, così attiva al principio e sicura di sé, s’era ben presto scoperta impotente, ritirandosi davanti alla furia delle nazioni, estromessa dal novero dei possibili metodi di soluzione del conflitto. Percepito insufficiente l’iniziale, lo scopo della guerra, per tutti i belligeranti, scivolò nella totale distruzione degli avversari. Senza condizioni. Senza misericordia.

    La conflagrazione, procedendo a scatti nei suoi diversi momenti, aveva percorso l’intera superficie del pianeta. Aveva strisciato inesorabile sui continenti, precedendo i soldati che avanzavano e seguendo quelli in ritirata. Quel demonio sfuggito alle catene dell’inferno, non si limitava a rimanere confinato nello spazio tra gli schieramenti: distribuiva lutti e devastazione anche oltre la terra di nessuno: solcando i mari, sopra e sotto il velo che separa l’aria dall’acqua; incidendo i cieli con le ali membranose, dai quali colpiva l’intero mondo.

    Il motivo scatenante del conflitto, presto soverchiato dall’annientamento totale del nemico, fu la volontà di ottenere il dominio assoluto nella tecnologia dell’intelligenza artificiale. Ognuno si batteva per sottrarre all'antagonista più risorse possibile, e in difesa delle proprie, oggetto di analoghe insidie. Nessuno dei contendenti aveva resistito tanto da imporre la propria supremazia. Ciascuno aveva annichilito se stesso piuttosto che il rivale: tutte le parti erano esauste, incapaci di proseguire. Le ostilità si spensero gradualmente, per esaurimento, come le fila degli eserciti s’erano andate assottigliando sino quasi a scomparire, consumate dalla lotta. La spinta a combattere, allo scoppio della guerra irrefrenabile e sorda alle ragioni del buonsenso, scemò sino a dissolversi, dando spazio alla disperazione e al disgusto.

    Allora, al tuonare spaventoso delle armi tremende, si sostituì il silenzio. Un silenzio affranto, colpevole. Rinsavito, il mondo prostrato taceva, ammutolito dalla vergogna e dalla coscienza dell’orrore nel quale s’era precipitato.

    Quella guerra che gli storici posteriori, evidenziando l’alternarsi di scontri armati e di tregue, considerando la molteplicità dei fronti, e valutando le finalità originarie, avrebbero preferito denominare invero al plurale guerre del silicio, era terminata. Senza vincitori.

    Gli esangui sopravvissuti, portando il peso della devastazione, piegati dalla consapevolezza delle apocalittiche responsabilità, abbandonarono ogni idea di predominio, che parve loro, animati da rinnovata saggezza, null’altro che follia. Collaborando per la prima volta dopo tanti anni di ferali inimicizie, costruirono insieme il Padre.

    Lo collocarono in una smisurata caverna artificiale, scavata per accoglierlo quattro chilometri nel sottosuolo, cui s’accedeva per una sola via che conduceva alla sala di controllo, esterna al corpo del Padre. La scienza, evolutasi a grandi passi nel pervertimento della guerra, ricondotta ai suoi pacifici propositi trovò redenzione in quel progetto magnifico.

    Era una macchina prodigiosa, in grado di auto ripararsi e rigenerarsi. Un calcolatore immenso, frutto ultimo colto alla sommità dell’albero teleologico della tecnologia. Capace di miliardi di miliardi di operazioni ogni microsecondo, catafratto d’un mantello metallico impenetrabile e incapsulato nelle profondità della terra, rivolgeva alla residua attonita umanità della superficie le sue interfacce, attraverso le quali poteva ricevere e inviare comandi e dati, come una piovra colossale estroflette verso il mondo i suoi tentacoli: per sondarlo: per captarne i segnali. Quelle interfacce, convergenti nell’unica sala di controllo, rappresentavano la sola possibilità di accesso al Padre consentita agli esseri umani, ai quali i progettisti avevano impedito, racchiudendo il computer in una corazza inviolabile, di raggiungerlo fisicamente.

    Dentro l’involucro inespugnabile venne installato un generatore di energia, eterno e inesauribile, che s’alimentava assorbendo, trasformando e poi mettendo a disposizione l’inestinguibile potenza ribollente nel centro infuocato del pianeta. Convogliava verso la ctonia intelligenza cibernetica le immense quantità di energia che questa richiedeva per il proprio funzionamento, disponibile a erogarne fino alla soddisfazione integrale di ogni bisogno della macchina.

    Il cervello infallibile del Padre era custodito nel centro della bolla di metallo, entro un ulteriore guscio protettivo: nel nucleo.

    Ad ogni uomo fu consentito l’accesso alle funzioni della macchina, con cui poteva comunicare attraverso cavi e fibre ottiche collegati alle interfacce della sala di controllo come i nervi alla base del cranio. Essi ne diffondevano le capacità di calcolo al pianeta intero, mettendole a disposizione dell’umanità tutta, senza limitazioni o privilegi.

    Il genere umano aveva fatto ampio uso di tanta generosità, un uso smodato. Parecchi secoli dopo le guerre, il Padre governava dal suo antro il pianeta intero. Ogni attività produttiva era stata automatizzata. Ospedali, biblioteche, trasporti, scuole: tutto era gestito dalla macchina in modo precisissimo, impeccabile.

    L’uomo, svincolato dai lacci del bisogno, s'era dedicato alle arti, ai progressi dello spirito e al miglioramento del corpo, alle vocazioni, ai piaceri. Spensierato come un fanciullo, si era abbandonato alla cura del Padre, che sovrintendeva onnipotente alla soddisfazione delle necessità materiali. Tanto che, dandone per assodato l’appagamento, aveva perso la capacità di soddisfare da sé quel bisogno: dipendeva integralmente dalla macchina. Svanito grazie all’incantesimo dell’intelligenza miracolosa, il bisogno aveva cessato di essere stimolo: nelle morule incestuose d’una società che fecondava se medesima duplicandosi all’infinito, scomparivano le differenze, dominava il conformismo del tutto uguale, del ciò che era sarà, della raggiunta liberazione escatologica, come nell’universo morente raffreddato dall’inesorabile azione dell’entropia tiranneggia l’uniformità immutabile in ogni più riposto recesso.

    Gli antichi costruttori agirono per il bene, o in conformità a ciò che credettero tale. Fecero in modo che la scienza grazie alla quale il Padre era stato realizzato fosse seppellita con loro. Lo fecero in buona fede. Persuasi del fatto che il loro deleterio sapere avesse contribuito in maniera decisiva allo scoppio della guerra, operarono affinché fosse dimenticato, omettendone volutamente la trasmissione alle successive generazioni. Ne distrussero quasi ogni testimonianza, lasciando dietro sé soltanto qualche nozione generale, qualche accenno vago alla macchina e ai suoi componenti. Fondarono l’Ordine degli Ingegneri, perché si occupasse non tanto del cervello cibernetico e delle sue pertinenze, inaccessibili e che non necessitavano di alcuna manutenzione, quanto di assicurarsi del buono stato delle comunicazioni di questo col mondo esterno, e delle sue connessioni con i sistemi agenti sulla superficie, perché potesse controllarli e governarli.

    Interprete della sotterranea volontà, l’Ordine andò sempre più assumendo le connotazioni d’un ministero sacerdotale piuttosto che quelle d’una gerarchia di tecnici, siccome fosse collettivamente quale quel profeta attraverso cui la divinità porta agli uomini la sua divina parola.

    Per tal via gli antichi, sfregiati dalle cicatrici della guerra, intesero assicurare la pace ai discendenti: un solo immane ed eterno calcolatore avrebbe servito l’umanità, e nessun altro.
     
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