Il rifugio dello scrittore

Insolubile - Capitolo IV. Fatiche

La fine dell'umanità

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Junior Member

    Group
    Member
    Posts
    39

    Status
    Hilbert non volle sin da subito mettere Ramanujan sotto pressione. Lasciò trascorrere le prime settimane di collaborazione trattenendosi dal condizionarne gli sforzi con la propria interferenza. Poi, in modo informale e all’apparenza casuale, principiò a sondare l'eccentrico ingegnere, per tentare di comprendere come stesse procedendo il suo lavoro, e se s’approssimasse a un concreto risultato.

    Col passare del tempo, le interrogazioni di Hilbert si fecero più frequenti. Venne imposta a Ramanujan la redazione d’un rapporto scritto ogni due settimane, nel quale riferisse delle proprie attività e risultati.

    L’insistenza del Decano debordò ben presto dall’argine degli obblighi codificati. La situazione in costante peggioramento sospingeva all’interventismo il subissato Hilbert, la cui impazienza, nel perdurante vuoto d’idee della Commissione, andava facendosi incontenibile. Tendeva a interpellare sempre più spesso il consulente, e si era spinto un paio di volte sino all’ufficio ricolmo di carta di Ramanujan. Questi, di controgenio, in ambedue le occasioni lo aveva accolto sulla soglia, aprendo appena il battente e lasciandogli soltanto intravedere lo scompiglio di carta che deturpava la stanza. L’ingegnere teneva a bada la curiosità del superiore con crescente difficoltà. Per il momento riusciva a spuntarla liquidandolo con qualche formula di prammatica: segnalando come fosse ancora nella fase preliminare di collezione dei dati; asserendo che ogni conclusione al momento non potesse considerarsi null’altro che un’ipotesi con scarso fondamento; affermando che non se la sentiva di esternare inconsistenti congetture in quello stadio embrionale. Malgrado fossero tutte verità, era palese che l’interlocutore viepiù li reputasse espedienti per evadere gli interpelli. Detti pretesti, o vissuti come tali dal Decano, cominciavano a mostrare il fianco di fronte alla perseveranza di un Hilbert sempre più caparbio e indagatore, e principiavano a non bastare più per tenerne a freno l’invadenza.

    Ramanujan compilava i rapporti con diligente puntualità, manifestando tuttavia in quella sede la medesima reticenza. Non ci si allontana dal vero affermando che tergiversasse. Rimaneva volutamente nel vago circa le proprie attività. Premetteva di trovarsi nel momento preparatorio della ricerca; si manteneva estremamente cauto, a non dire sfuggente, in merito ai risultati: nulla di conclusivo: teorie incerte, indeterminate. Condivideva malvolentieri soltanto confuse supposizioni, nebulose ipotesi tutte da comprovare.

    A distanza di diversi mesi, la mole di carta ammassata nell’ufficio di Ramanujan aveva cessato di crescere. Ora non lasciava quasi mai l’ufficio, neppure la notte. Trascurava persino la propria igiene personale, rientrando sempre più di rado all’alloggio, accompagnato dall’idea che la cura di sé rappresentasse una colpevole perdita di tempo.

    Anche il Decano aveva notato il cambiamento, e l’aveva con perspicacia interpretato come un passaggio allo stadio ulteriore delle ricerche dell’ingegnere. Ciò lo aveva indotto a esibire ancora maggiore insistenza. Ramanujan, comunque, pur riconoscendo come le sue ricerche fossero effettivamente progredite alla successiva ma non meglio precisata fase, non abbandonava la propria riluttanza a condividere gli esiti delle sue fatiche: persisteva nell’opporsi alle montanti pressioni del superiore. Tentava in ogni modo di evitare il Decano, inventando cavillosi alibi per non incontrarlo, per non doverci parlare. Nel mentre, la sua condizione fisica degradava: mangiava pochissimo; dormiva ancora meno. Non mostrava più interesse verso la pulizia degli abiti, che aveva smesso di cambiare, o verso la sua persona. Il già magro corpo mostrava col deperimento gli effetti di quelle negligenze, consumato dalla febbre degli studi cui l’ingegnere consacrava ormai l’interezza del suo tempo.

    Ramanujan, solo nella sua stanza al quarantatreesimo piano del palazzo dell’Ordine, strappò dalle vetrate tutti i fogli di carta coi quali le aveva oscurate. La fioca luce del breve pomeriggio novembrino, liberata, penetrò nell’ufficio con la sua timidezza. Come colto da improvvisa follia, denudò in un impeto le pareti, gettando sul pavimento tutto ciò che vi aveva affisso. Andava da un capo all’altro del locale calpestando senza riguardo libri e quaderni cascanti dalle precarie cataste che urtava, agitato dal delirio del quale era caduto preda. Scaraventato tutto a terra, afferrò un foglio gualcito dalla scrivania: l’ultimo sul quale aveva fissato in una minuscola e fitta grafia quegli appunti che reputava conclusivi. Arrestatosi il suo furore, con ritrovata tranquillità lo stirò accuratamente con l’avambraccio, e l’appese a una delle pareti. Prese allora la poltrona e la trascinò attraverso quel sottobosco di carte scomposte fin dirimpetto alla pagina manoscritta assicurata malamente al muro. Vi si accomodò, contemplando quell’unico foglio nel quale aveva condensato i lunghi mesi di lavoro. Restò a fissarlo per molto tempo in uno stato di amenza, dopo di che, come vinto dall’accumulata stanchezza, come se le sue energie si fossero del tutto esaurite, si abbandonò al suolo come fosse una bambola di pezza, gli occhi gonfi di lacrime, scosso da singulti.

    Quando si levò di nuovo in piedi, reso a una ridesta coscienza, era già notte fonda. Inviò al Decano un messaggio tramite i comunicatori della consolle, nel quale richiedeva un’urgente udienza, e poi si diresse verso il proprio alloggio. Dopo aver mangiato abbondantemente, per la prima volta da settimane, si lavò con cura, si cambiò d’abito e si mise a letto. Piangeva ancora quando si addormentò.

    Il mondo intanto andava in pezzi. Le macchine operatrici, prive di energia e della guida del Padre, rimanevano immobili nelle rimesse o inerti nelle fabbriche. Gli animali, non più accuditi e lasciati senza nutrimento, languivano sofferenti nelle stalle; i campi, incolti, venivano sopraffatti dalla natura selvaggia.

    Il genere umano era un formicaio in una teca. Scomparsa la mano che lo nutriva, incapace di fuggire, cosa le sarebbe accaduto?

    Allora, piagnucolava, gemeva, supplicava. Ma, incapace, non faceva. Non tornava nei campi; non fabbricava; non aggiustava. Non mostrava nemmeno più l’orgoglio d’un moto di rivolta, contro qualcuno, contro qualcosa, inetta anche in quello.
     
    Top
    .
0 replies since 8/12/2022, 17:58   6 views
  Share  
.