Il rifugio dello scrittore

I Giorni del Gigante: Il caso della Signora P.

Parte 4

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  1. GiorgioFochettini
     
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    Link delle parti precedenti.



    Qui la prima stesura.

    Pur essendo giunto in largo anticipo, il cancello della villa era aperto. Guardò all’interno e scorse, tra delle bellissime rose in giardino, la signora P.
    Anche lei lo vide.
    Percorse tutto il viale per raggiungerla. Era una giornata di sole e la signora P. ne giovò, era molto luminosa e carezzava le sue rose come fossero bambini.
    - Buongiorno, la trovo in forma: disse la signora P.
    - La ringrazio, io la trovo di buon umore.
    - Lo sono. Oggi, se a lei non dispiace, faremo la nostra chiacchierata qui in giardino.
    - Ne sarei felice.
    - Prima però, lasci che finisca di occuparmi delle mie rose, non mi ci vorrà più di una mezz’oretta.
    Il signor L. decise di fare due passi in giardino e, ottenuto il permesso, iniziò la sua escursione.
    Il giardino era enorme e c’erano fiori di ogni tipo, ma anche grandi alberi. Da tempo non vedeva un giardino inglese così minuziosamente curato.
    C’era persino un ruscello, che scorreva giù fino al lago.
    Lo attraversò servendosi di un ponticello di legno, al di là c’era un frutteto.
    Continuò a camminare sino al lago, lì fu felice di vedere una famigliola di anatre nuotare.
    Per tutta l’infanzia non si era staccato un attimo dalla famiglia. Col tempo aveva imparato a capirne l’importanza e la forza. Genitori, fratelli, ma anche zii e cugini, per non parlare dei nonni.
    Tutti uniti in ogni occasione, tutti insieme finché si è potuto. Ripensò alle primavere da bambino, agli odori della sua terra, ai rumori e alle voci. 
Iniziò ad immergersi, sempre più nei ricordi. Li accolse e dopo uno ne arrivò subito un altro.
    Ricordi meravigliosi, interrotti solo da uno di loro, che col tempo di fece tiranno. Un episodio che sancì nettamente la fine della sua infanzia: il suo primo incontro con la morte.
    Un rumore improvviso lo fece riemergere, rifiatò e si girò d’istinto.
    Sulla riva del lago c’era un vecchio capanno, il rumore proveniva da lì. Si avvicinò e si nascose dietro un grosso masso accanto ad un pioppo.
    Dall’interno del capanno arrivò un altro terribile tonfo, poi un urlo.
    Il cuore prese a battergli e sentì pulsare le tempie.
    Un altro urlo.
    Presero a tremargli le gambe. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma non riuscì a muoversi.
    La porta del capanno si aprì, poi vede uscire un uomo. Da dietro l’alberò il signor L. riusciva solo a vederne le gambe e parte del busto. La figura era ferma davanti il capannone, i vestiti erano strappati. Dalla tasca tirò fuori una tabacchiera.
    Tutto taceva.
    Dei volatili smossero le fronde degli alberi e al signor L. cedettero le gambe per la paura.
Da seduto riuscì a vedere l’uomo che fumava una sigaretta. Era il signor P..
    Pensò a Raimondo, ripensò alle sue parole e si pentì di non avergli creduto.
    Pensò anche alla signora P. e al volto gioviale che aveva quell’oggi.
    Pensò che si era fatto tardi e che probabilmente lei lo stesse cercando.
    Smise di pensare e si alzò.
    Improvvisamente le forze che lo avevano tenuto bloccato ora lo spingevano a fuggire.
    Decise che avrebbe, almeno per il momento, dimenticato l’accaduto e fatto finta di niente.
    Tornato dall’altra parte del ponticello, sentì che la signora P. lo chiamava.
    Accelerò il passo e andò da lei.
    Era nei pressi del gazebo di legno ben decorato e ricoperto di rampicanti.
    Signor L., le sembra cortese farmi… si sente bene?
    Il signor L. non doveva avere un bell’aspetto, diede la colpa al caldo.
    La signora entrò nel gazebo e prese dell’acqua.
    Prenda, ne beva un poco, si riprenda.
    In pochi minuti il signor L. riprese colore e contegno. Sedette vicino la sua ospite e uscì gli attrezzi del mestiere dalla sua borsa.


    - Alla fine degli anni ’60 - iniziò lei -, da noi non tirava una bella aria. Io ero ancora molto giovane, ma aveva già delle brutte sensazioni.
    Nessuno avrebbe immaginato che di lì a poco saremmo stati praticamente invasi, senza che nessuno prendesse le nostre difese.
    La mia famiglia però si trovava già alle porte dell’inferno. Fu in quegli anni che iniziammo a vivere un incubo, che presto divenne condiviso.
    Proprio per mano di uno di loro.
    - Per uno di loro si riferisce a…
    - Sì, sa bene a chi mi riferisco. Mia sorella fu la prima a pagare. Pagò per amore. Una sera non era ancora tornata a casa, mio padre uscì a cercarla.
    Si fece molto tardi, chiese a chiunque potesse sapere qualcosa. Cominciavamo a pensare il peggio. Io e i miei fratelli e sorelle più piccole eravamo rimasti a casa e siamo stati, per così dire i primi a ritrovarla. La polizia bussò alla porta, era da poco passata la mezzanotte.
    Mia sorella era in ospedale. Era ferita gravemente.
    Vittima di un aggressione, stuprata e abbandonata per le campagne, era stata ritrovata da un cane da pastore. Il suo padrone avvisò poi la polizia.
    Non c’erano testimoni e nessuno riuscì mai a trovare il colpevole. 
Mia sorella era stata la prima, la prima di molte. Io sapevo chi era stato, ma sapevo anche che se l’avessi detto, mio padre non avrebbe esitato a farsi giustizia da solo. Non potevo permetterlo e tenni il segreto per me.
    Mia sorella rimase gravida e morì di parto.
    Il suo aggressore, lo conoscevo bene, lo vidi morire qualche anno dopo in una guerriglia. Il cadavere era in una fossa comune.
    Lei crede in Dio signor L.?
    - Io? Sì, sono credente.
    - Io continuo a chiedermi, da mezzo secolo, se qualcuno lassù ci sia davvero. Se e come possa permettere che qui si scateni un tale inferno.
    Il suo sguardo mutò all’improvviso, gli occhi della signora P. erano sporgenti e persi nel vuoto, la voce si abbassò: - Quali orrori può permettere un Dio tanto grande? Quali orrori gettati in questa terra? Io non avrei mai creduto che fosse possibile, che nell’uomo si nascondesse una tale bestia. Quanta efferata scelleratezza. Follia forse? Si tocchi il cuore signor L., io non voglio più immaginare cosa ci possa essere dentro il cuore degli esseri umani.
    Silenzio.
    Un leggero venticello si alzò, iniziarono a muoversi le foglie.
    La signora P. invitò il signor L. a tornare la prossima domenica. Lo invitò a pranzo, dicendogli che sarebbero giunti degli invitati.


    La parentesi della chiacchierata con la signora P. avevano fatto dimenticare al signor L. l’accaduto del capanno in riva al lago.
    Ma varcato il cancello si precipitò a casa senza voltarsi.
    Pensava e ripensava a quello che aveva visto e sentito e tutto continuava a vorticare sempre più velocemente nella sua mente, nei suoi ricordi.
    - Chiamerò la signora P. - pianificò - le dirò che domenica dovrò partire. Vado lontano, rimanderemo gli incontri al mio ritorno.
    Voleva prendere tempo per indagare, per capire, poi forse sarebbe tornato lì.
    Però no, forse è meglio tornare. Cosa succede in quella villa? Siamo sicuri che l’incontro si è tenuto in giardino perché era una giornata di sole? Cosa mi sfugge…E quelle urla? E i rumore? I vestiti strappati. Cosa faceva il signor P. in quel capanno? perché la signora P. ha lasciato che me ne andassi in giro allora? se nasconde qualcosa, perché l’ha fatto? e se volessero intimorirmi? ma perché?
    Migliaia di domande lo strinsero in una morsa distruttiva, lo stancarono, lo mortificarono.
    Andò a letto.



    Le tende lasciavano scorgere il paesaggio cittadino fuori dalla finestra, era il crepuscolo e l’aria era densa.
    La porta socchiusa e le lenzuola coprivano le sue gambe. 
Di là qualcuno chiuse la porta del bagno. Poi si spense la luce del corridoio.
    Una figura tremenda entrò nella semioscurità della stanza, gli auto-reggenti e quel profumo inconfondibile, il profumo della perdizione.
    Maria fece qualche passo, si abbassò lasciando cadere i capelli e si rialzò ricacciandoli indietro.
    Il corpo iniziò a muoversi in un danza, un’abile sapera, onde sinuose di pelle lucida, forme e colori come le colline di Sagbayan, o come le strade nel massiccio del Pasubio.
    Gli occhi del signor L. seguivano ogni movimento inesorabilmente attratti da quella figura spietata.
    Poi Maria sollevò le coperte e entrò nel letto.
    Si fece sera e le nuvole, arrossate dagli ultimi raggi del sole, spinte dal vento, scesero a valle. Accarezzarono dolcemente la terra e circondarono gli alberi. Cominciò a formarsi uno strato di rugiada, cielo e terra si fusero e tutto iniziò a ruotare, il paesaggio si confuse e tutto si perse nella notte, ogni piacere, ogni pensiero.
    Il signor L. si svegliò. Aprì il braccio destro, e carezzò il letto. Cercò per qualche secondo, poi un bruciore improvviso al petto. Una terribile sensazione di vuoto lo colse, lo ingabbiò, lo asservì.
    La tirannia del vuoto, l’angheria della mancanza di quei profumi, di quelle sensazioni, come l’alba in una tenda sul lago a Kruchowo o in una fattoria a Dukla.
    Per un attimo, disteso a braccia aperte, ripensò a uno dei pomeriggi più belli della sua vita.
    Era affacciato dal terrazzino della Alte Brücke, guardava fisso le acque scorrervi sotto. Era così attento che ai passanti sembrò che contasse le increspature del Meno. In realtà era impegnato a scrutare lo scorrere dei suoi pensieri, in una giornata importante, quella del suo esordio.
    Niente riuscì a distrarlo, se non una figura che giunse sul terrazzino, con la sua macchina fotografica. Aveva dei lunghi capelli neri, portava un abito scuro con una gonna a campana tagliata male, tutta fiorata e sullo sfondo la notte.
    Un occhio era chiuso, l’altro guardava dentro l’obiettivo. Sembrava sorridere mentre metteva a fuoco, invece stava solo mostrando i denti alla sua preda.
    Scattò delle foto, poi chiese all’allora ancora troppo giovane signor L. se sapeva dove fosse la Kino-Haus. Questi sentì improvvisamente un calore inaspettato, lei aveva dei meravigliosi occhi neri, parlava un discreto tedesco, con un inconfondibile accento polacco.
    Sapeva benissimo dov’era la Kinohaus, era un mega-tendone che lui stesso aveva contribuito a costruire, dove giovani registi potessero esibire le proprie opere, dove potevano confrontarsi sulle idee per le nuove reazioni alle politiche sociali e dove la gioventù potesse superare le differenze e le scorie di un’Europa moderna ancora troppo giovane.
    Balbettando gli diede delle indicazioni e non ebbe la forza di fare o dire altro mentre lei si allontanava.
    L’immagine di lei rimase impressa, indelebile nella sua mente.
    Quella sera temette seriamente per la sua salute, l’adrenalina ormai era padrona di ogni cellula, il cuore a ritmo di rullante e non riusciva a respirare bene.
    Aveva pensato tanto al suo debutto, aveva messo tanto lavoro, un intero semestre e tutta la borsa di studio in quel corto.
    Ma ora tutto questo non contava e, come preso da un incantesimo, da una maledizione, voleva solo rivederla, stare con lei.
    Si preparò e uscì in strada, l’aria era fresca, prese la sua bici e si diresse alla Kino-Haus.
    Giunto lì cercò in ogni ombra il profilo di lei, tutto il mondo si offuscò e davanti gli passavano solo maschere, gli facevano i complimenti, poi passarono delle ore, qualcuno gli disse che aveva vinto il primo premio, che sarebbe andato a Berlino, Venezia e chissà forse in America, che tutti i suoi sogni, forse, si sarebbero realizzati.
    Non riusciva più a sentire, il veleno era entrato in circolo, aveva inibito le sinapsi e paralizzato gli arti superiori. Sintomi chiari: febbre alta, tremori, vista offuscata, sensibilità ridotta, secchezza delle fauci. Presto il veleno lo avrebbe reso ceco, poi paralizzato e infine gli avrebbe spezzato il cuore.
    Alla fine della serata, il padiglione si svuotò, la folla andò via, portando con sé il suo ronzio.
    Rimase solo, ogni rumore minuscolo lo infastidiva, finì la sigaretta e buttò ciò che rimaneva lì vicino.
    Trattenne il fumo nei polmoni e pensò ancora una volta a quella visione, pensò a lei.
    Non era venuta. Era sicuro che sarebbe venuta. Non era lì. Si chiedeva se non fosse stata solo una visione, un’allucinazione, un semplice miraggio.
    Il fumo uscì nella notte gelida, si condensò di fronte al suo viso.
    Diradatosi, mostrò due profondi occhi neri di fronte a lui, lunghissimi capelli e un vestito fiorato, con il fondo scuro come la notte.
    Ecco, adesso si sentiva appagato, i sensi tornarono a funzionare e il cuore a battere, ogni cosa brillava di una luce nuova e lui era schiavo di ogni respiro.
    Lei fece un ampio sorriso.
    - Posso farti una foto?: chiese lei subito.
    - Vuoi farmi una foto?
    - Si, grazie. Io ho visto il film e penso che il tuo film è bello, mi piace.
    - Sono felice che ti sia piaciuto, io, voglio fare il regista e… -
    E avrebbe voluto dirle quanto era bella, quanto gli sarebbe piaciuto passeggiare con lei, conoscerla, stringerla a sé, magari rapirla, portarla in un viaggio eterno tra le meraviglie del mondo, per mostrare loro quanto fossero lontane da tanta perfezione.
    -…oh scusa, non ho sentito il tuo nome.
    - Non ti ho ancora detto mio nome, io sono Maria, Maria Alina Wozniak, vengo da Poland.
    - Maria, è un bellissimo nome.
    - Grazie, tu è gentile.
    La stanza ed il letto vuoto erano tristi, ma ora il Signor L. non provava nulla di tutto quello che aveva provato. Forse amava così tanto Maria da non riuscire a soffrire per una decisione presa da lei. Accettò tutto da subito, senza proteste, senza se e senza ma, ognuno è andato per la sua strada e ognuno a percorso il suo cammino.
    Si alzò e chiuse la finestra, poi uscì.
    Girovagò un poco, gli piaceva passeggiare all’aria aperta, fumare la sua sigaretta era una forma di meditazione. Lo aiutava a definire lo scorrere del tempo, a vedere passo dopo passo come ogni cosa inesorabilmente passi e vada oltre. Vada oltre il tempo, oltre la memoria, si trasformi e si sbricioli nel vento dopo aver bruciato incandescente, dopo essere stata una flebile luce nell’oscurità
    Meditava su se stesso. Sapeva che lui non era quello delle passeggiate notturne e della sigaretta. Sapeva che stava attraversando solo un momento, era solo un passaggio verso il suo Nirvana, verso l’illuminazione che lo avrebbe presto raggiunto e che avrebbe fatto di lui una stella.
    Era fiducioso del fatto che fosse solo nel punto centrale del guado e che una volta dall’altro lato, avrebbe rivisto quanta strada aveva percorso, senza vedere le singole orme che vi aveva lasciato, ma solo i campi e i monti che le circondavano.
    Raimondo aveva torto, la sua vita non era questa, la sua vita era dopo. Come l’araba fenice sarebbe risorto, si sarebbe mostrato al mondo.
    Un giorno il mondo si sarebbe accorto di lui.



    Pur essendo giunto in largo anticipo, il cancello della villa era aperto. Guardò all’interno e scorse, tra delle bellissime rose in giardino, la signora P.
    Anche lei lo vide.
    Percorse tutto il viale per raggiungerla. Era una giornata di sole e la signora P. ne giovò, era molto luminosa e carezzava le sue rose come fossero bambini.
    - Buongiorno, la trovo in forma: disse la signora P.
    - La ringrazio, io la trovo di buon umore.
    - Lo sono. Oggi, se a lei non dispiace, faremo la nostra chiacchierata qui in giardino.
    - Ne sarei felice.
    - Prima però, lasci che finisca di occuparmi delle mie rose, non mi ci vorrà più di una mezz’oretta.
    Il signor L. decise di fare due passi in giardino e, ottenuto il permesso, iniziò la sua escursione.
    Il giardino era enorme e c’erano fiori di ogni tipo, ma anche grandi alberi. Da tempo non vedeva un giardino inglese così minuziosamente curato.
    C’era persino un ruscello, che scorreva giù fino al lago.
    Lo attraversò servendosi di un ponticello di legno, al di là c’era un frutteto.
    Continuò a camminare sino al lago, lì fu felice di vedere una famigliola di anatre nuotare.
    Per tutta l’infanzia non si era staccato un attimo dalla famiglia. Col tempo aveva imparato a capirne l’importanza e la forza. Genitori, fratelli, ma anche zii e cugini, per non parlare dei nonni.
    Tutti uniti in ogni occasione, tutti insieme finché si è potuto. Ripensò alle primavere da bambino, agli odori della sua terra, ai rumori e alle voci. 
Iniziò a immergersi, sempre più nei ricordi. Li accolse e dopo uno ne arrivò subito un altro.
    Ricordi meravigliosi, interrotti solo da uno di loro, che col tempo si fece tiranno. Un episodio che sancì nettamente la fine della sua infanzia: il suo primo incontro con la morte.
    Un rumore improvviso lo fece riemergere, rifiatò e si girò d’istinto.
    Sulla riva del lago c’era un vecchio capanno, il rumore proveniva da lì. Si avvicinò e si nascose dietro un grosso masso accanto ad un pioppo.
    Dall’interno del capanno arrivò un altro terribile tonfo, poi un urlo.
    Il cuore prese a battergli e sentì pulsare le tempie.
    Un altro urlo.
    Presero a tremargli le gambe. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma non riuscì a muoversi.
    La porta del capanno si aprì, poi vide uscire un uomo. Da dietro l’alberò il signor L. riusciva solo a vederne le gambe e parte del busto. La figura era ferma davanti il capannone, i vestiti erano strappati. Dalla tasca tirò fuori una tabacchiera.
    Tutto taceva.
    Dei volatili smossero le fronde degli alberi e al signor L. cedettero le gambe per la paura.
Da seduto riuscì a vedere l’uomo che fumava una sigaretta. Era il signor P..
    Pensò a Raimondo, ripensò alle sue parole e si pentì di non avergli creduto.
    Pensò anche alla signora P. e al volto gioviale che aveva quell’oggi.
    Pensò che si era fatto tardi e che probabilmente lei lo stesse cercando.
    Smise di pensare e si alzò.
    Improvvisamente le forze che lo avevano tenuto bloccato ora lo spingevano a fuggire.
    Decise che avrebbe, almeno per il momento, dimenticato l’accaduto e fatto finta di niente.
    Tornato dall’altra parte del ponticello, sentì che la signora P. lo chiamava.
    Accelerò il passo e andò da lei.
    Era nei pressi del gazebo di legno ben decorato e ricoperto di rampicanti.
    Signor L., le sembra cortese farmi… si sente bene?
    Il signor L. non doveva avere un bell’aspetto, diede la colpa al caldo.
    La signora entrò nel gazebo e prese dell’acqua.
    Prenda, ne beva un poco, si riprenda.
    In pochi minuti il signor L. riprese colore e contegno. Sedette vicino la sua ospite e uscì gli attrezzi del mestiere dalla sua borsa.


    - Alla fine degli anni ’60 - iniziò lei -, da noi non tirava una bella aria. Io ero ancora molto giovane, ma avevo già delle brutte sensazioni.
    Nessuno avrebbe immaginato che di lì a poco saremmo stati praticamente invasi, senza che nessuno prendesse le nostre difese.
    La mia famiglia però si trovava già alle porte dell’inferno. Fu in quegli anni che iniziammo a vivere un incubo, che presto divenne condiviso.
    Proprio per mano di uno di loro.
    - Per uno di loro si riferisce a…
    - Sì, sa bene a chi mi riferisco. Mia sorella fu la prima a pagare. Pagò per amore. Una sera non era ancora tornata a casa, mio padre uscì a cercarla.
    Si fece molto tardi, chiese a chiunque potesse sapere qualcosa. Cominciavamo a pensare il peggio. Io e i miei fratelli e sorelle più piccole eravamo rimasti a casa e siamo stati, per così dire i primi a ritrovarla. La polizia bussò alla porta, era da poco passata la mezzanotte.
    Mia sorella era in ospedale. Era ferita gravemente.
    Vittima di un aggressione, stuprata e abbandonata per le campagne, era stata ritrovata da un cane da pastore. Il suo padrone avvisò poi la polizia.
    Non c’erano testimoni e nessuno riuscì mai a trovare il colpevole. 
Mia sorella era stata la prima, la prima di molte. Io sapevo chi era stato, ma sapevo anche che se l’avessi detto, mio padre non avrebbe esitato a farsi giustizia da solo. Non potevo permetterlo e tenni il segreto per me.
    Mia sorella rimase gravida e morì di parto.
    Il suo aggressore, lo conoscevo bene, lo vidi morire qualche anno dopo in una guerriglia. Il cadavere era in una fossa comune.
    Lei crede in Dio signor L.?
    - Io? Sì, sono credente.
    - Io continuo a chiedermi, da mezzo secolo, se qualcuno lassù ci sia davvero. Se e come possa permettere che qui si scateni un tale inferno.
    Il suo sguardo mutò all’improvviso, gli occhi della signora P. erano sporgenti e persi nel vuoto, la voce si abbassò: - Quali orrori può permettere un Dio tanto grande? Quali orrori gettati in questa terra? Io non avrei mai creduto che fosse possibile, che nell’uomo si nascondesse una tale bestia. Quanta efferata scelleratezza. Follia forse? Si tocchi il cuore signor L., io non voglio più immaginare cosa ci possa essere dentro il cuore degli esseri umani.
    Silenzio.
    Un leggero venticello si alzò, iniziarono a muoversi le foglie.
    La signora P. invitò il signor L. a tornare la prossima domenica. Lo invitò a pranzo, dicendogli che sarebbero giunti degli invitati.


    La parentesi della chiacchierata con la signora P. aveva fatto dimenticare al signor L. l’accaduto del capanno in riva al lago.
    Ma varcato il cancello si precipitò a casa senza voltarsi.
    Pensava e ripensava a quello che aveva visto e sentito e tutto continuava a vorticare sempre più velocemente nella sua mente, nei suoi ricordi.
    - Chiamerò la signora P. - pianificò - le dirò che domenica dovrò partire. Vado lontano, rimanderemo gli incontri al mio ritorno.
    Voleva prendere tempo per indagare, per capire, poi forse sarebbe tornato lì.
    Però no, forse è meglio tornare. Cosa succede in quella villa? Siamo sicuri che l’incontro si è tenuto in giardino perché era una giornata di sole? Cosa mi sfugge…E quelle urla? E il rumore? I vestiti strappati. Cosa faceva il signor P. in quel capanno? perché la signora P. ha lasciato che me ne andassi in giro allora? se nasconde qualcosa, perché l’ha fatto? e se volessero intimorirmi? ma perché?
    Migliaia di domande lo strinsero in una morsa distruttiva, lo stancarono, lo mortificarono.
    Andò a letto.



    Le tende lasciavano scorgere il paesaggio cittadino fuori dalla finestra, era il crepuscolo e l’aria era densa.
    La porta socchiusa e le lenzuola coprivano le sue gambe. 
Di là qualcuno chiuse la porta del bagno. Poi si spense la luce del corridoio.
    Una figura tremenda entrò nella semioscurità della stanza, gli auto-reggenti e quel profumo inconfondibile, il profumo della perdizione.
    Maria fece qualche passo, si abbassò lasciando cadere i capelli e si rialzò ricacciandoli indietro.
    Il corpo iniziò a muoversi in un danza, un’abile sapera, onde sinuose di pelle lucida, forme e colori come le colline di Sagbayan, o come le strade nel massiccio del Pasubio.
    Gli occhi del signor L. seguivano ogni movimento inesorabilmente attratti da quella figura spietata.
    Poi Maria sollevò le coperte e entrò nel letto.
    Si fece sera e le nuvole, arrossate dagli ultimi raggi del sole, spinte dal vento, scesero a valle. Accarezzarono dolcemente la terra e circondarono gli alberi. Cominciò a formarsi uno strato di rugiada, cielo e terra si fusero e tutto iniziò a ruotare, il paesaggio si confuse e tutto si perse nella notte, ogni piacere, ogni pensiero.
    Il signor L. si svegliò. Aprì il braccio destro, e carezzò il letto. Cercò per qualche secondo, poi un bruciore improvviso al petto. Una terribile sensazione di vuoto lo colse, lo ingabbiò, lo asservì.
    La tirannia del vuoto, l’angheria della mancanza di quei profumi, di quelle sensazioni, come l’alba in una tenda sul lago a Kruchowo o in una fattoria a Dukla.
    Per un attimo, disteso a braccia aperte, ripensò a uno dei pomeriggi più belli della sua vita.
    Era affacciato dal terrazzino della Alte Brücke, guardava fisso le acque scorrervi sotto. Ai passanti sembrò che fosse lì per contare le increspature del Meno, tanto era immobile e concentrato nel fissare il fiume.
    In realtà era impegnato a scrutare lo scorrere dei suoi pensieri, in una giornata importante, quella del suo esordio.
    Niente riuscì a distrarlo, se non una figura che giunse sul terrazzino, con la sua macchina fotografica. Aveva dei lunghi capelli neri, portava un abito scuro con una gonna a campana tagliata male, tutta fiorata e sullo sfondo la notte.
    Un occhio era chiuso, l’altro guardava dentro l’obiettivo. Sembrava sorridere mentre metteva a fuoco, invece stava solo mostrando i denti alla sua preda.
    Scattò delle foto, poi chiese all’allora ancora troppo giovane signor L. se sapeva dove fosse la Kino-Haus. Questi sentì improvvisamente un calore inaspettato, lei aveva dei meravigliosi occhi neri, parlava un discreto tedesco, con un inconfondibile accento polacco.
    Sapeva benissimo dov’era la Kinohaus, era un mega-tendone che lui stesso aveva contribuito a costruire, dove giovani registi potessero esibire le proprie opere, dove potevano confrontarsi sulle idee per le nuove reazioni alle politiche sociali e dove la gioventù potesse superare le differenze e le scorie di un’Europa moderna ancora troppo giovane.
    Balbettando gli diede delle indicazioni e non ebbe la forza di fare o dire altro mentre lei si allontanava.
    L’immagine di lei rimase impressa, indelebile nella sua mente.
    Quella sera temette seriamente per la sua salute, l’adrenalina ormai era padrona di ogni cellula, il cuore batteva a ritmo di rullante e non riusciva a respirare bene.
    Aveva pensato tanto al suo debutto, aveva messo tanto lavoro, un intero semestre e tutta la borsa di studio in quel corto.
    Ma ora tutto questo non contava e, come preso da un incantesimo, da una maledizione, voleva solo rivederla, stare con lei.
    Si preparò e uscì in strada, l’aria era fresca, prese la sua bici e si diresse alla Kino-Haus.
    Giunto lì cercò in ogni ombra il profilo di lei, tutto il mondo si offuscò e davanti gli passavano solo maschere, gli facevano i complimenti, poi passarono delle ore, qualcuno gli disse che aveva vinto il primo premio, che sarebbe andato a Berlino, Venezia e chissà forse in America, che tutti i suoi sogni, forse, si sarebbero realizzati.
    Non riusciva più a sentire, il veleno era entrato in circolo, aveva inibito le sinapsi e paralizzato gli arti superiori. Sintomi chiari: febbre alta, tremori, vista offuscata, sensibilità ridotta, secchezza delle fauci. Presto il veleno lo avrebbe reso cieco, poi paralizzato e infine gli avrebbe spezzato il cuore.
    Alla fine della serata, il padiglione si svuotò, la folla andò via, portando con sé il suo ronzio.
    Rimase solo, ogni rumore minuscolo lo infastidiva, finì la sigaretta e buttò ciò che rimaneva lì vicino.
    Trattenne il fumo nei polmoni e pensò ancora una volta a quella visione, pensò a lei.
    Non era venuta. Era sicuro che sarebbe venuta. Non era lì. Si chiedeva se non fosse stata solo una visione, un’allucinazione, un semplice miraggio.
    Il fumo uscì nella notte gelida, si condensò di fronte al suo viso.
    Diradatosi, mostrò due profondi occhi neri di fronte a lui, lunghissimi capelli e un vestito fiorato, con il fondo scuro come la notte.
    Ecco, adesso si sentiva appagato, i sensi tornarono a funzionare e il cuore a battere, ogni cosa brillava di una luce nuova e lui era schiavo di ogni respiro.
    Lei fece un ampio sorriso.
    - Posso farti una foto?: chiese lei subito.
    - Vuoi farmi una foto?
    - Si, grazie. Io ho visto il film e penso che il tuo film è bello, mi piace.
    - Sono felice che ti sia piaciuto, io, voglio fare il regista e… -
    E avrebbe voluto dirle quanto era bella, quanto gli sarebbe piaciuto passeggiare con lei, conoscerla, stringerla a sé, magari rapirla, portarla in un viaggio eterno tra le meraviglie del mondo, per mostrare loro quanto fossero lontane da tanta perfezione.
    -…oh scusa, non ho sentito il tuo nome.
    - Non ti ho ancora detto mio nome, io sono Maria, Maria Alina Wozniak, vengo da Poland.
    - Maria, è un bellissimo nome.
    - Grazie, tu è gentile.
    Stanza e letto vuoto erano tristi, ma ora il Signor L. non provava nulla di tutto quello che aveva provato. Forse amava così tanto Maria da non riuscire a soffrire per una decisione presa da lei. Accettò tutto da subito, senza proteste, senza se e senza ma, ognuno è andato per la sua strada e ognuno ha percorso il suo cammino.
    Si alzò e chiuse la finestra, poi uscì.
    Girovagò un poco, gli piaceva passeggiare all’aria aperta, fumare la sua sigaretta era una forma di meditazione. Lo aiutava a definire lo scorrere del tempo, a vedere passo dopo passo come ogni cosa inesorabilmente passi e vada oltre. Vada oltre il tempo, oltre la memoria, si trasformi e si sbricioli nel vento dopo aver bruciato incandescente, dopo essere stata una flebile luce nell’oscurità
    Meditava su se stesso. Sapeva che lui non era quello delle passeggiate notturne e della sigaretta. Sapeva che stava attraversando solo un momento, era solo un passaggio verso il suo Nirvana, verso l’illuminazione che lo avrebbe presto raggiunto e che avrebbe fatto di lui una stella.
    Era fiducioso del fatto che fosse solo nel punto centrale del guado e che una volta dall’altro lato, avrebbe rivisto quanta strada aveva percorso, senza vedere le singole orme che vi aveva lasciato, ma solo i campi e i monti che le circondavano.
    Raimondo aveva torto, la sua vita non era questa, la sua vita era dopo. Come l’araba fenice sarebbe risorto, si sarebbe mostrato al mondo.
    Un giorno il mondo si sarebbe accorto di lui.

    La correzione di alcune imperfezioni è stata possibile grazie BitFrau, che gentilmente me le ha segnalate.



    Continua qui


    Edited by GiorgioFochettini - 25/6/2018, 16:01
     
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  2. BitFrau
     
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    CITAZIONE (GiorgioFochettini @ 6/6/2018, 21:28) 
    Pur essendo giunto in largo anticipo, il cancello della villa era aperto. Guardò all’interno e scorse, tra delle bellissime rose in giardino, la signora P.
    Anche lei lo vide.
    Percorse tutto il viale per raggiungerla. Era una giornata di sole e la signora P. ne giovò, era molto luminosa e carezzava le sue rose come fossero bambini.
    - Buongiorno, la trovo in forma: disse la signora P.
    - La ringrazio, io la trovo di buon umore.
    - Lo sono. Oggi, se a lei non dispiace, faremo la nostra chiacchierata qui in giardino.
    - Ne sarei felice.
    - Prima però, lasci che finisca di occuparmi delle mie rose, non mi ci vorrà più di una mezz’oretta.
    Il signor L. decise di fare due passi in giardino e, ottenuto il permesso, iniziò la sua escursione.
    Il giardino era enorme e c’erano fiori di ogni tipo, ma anche grandi alberi. Da tempo non vedeva un giardino inglese così minuziosamente curato.
    C’era persino un ruscello, che scorreva giù fino al lago.
    Lo attraversò servendosi di un ponticello di legno, al di là c’era un frutteto.
    Continuò a camminare sino al lago, lì fu felice di vedere una famigliola di anatre nuotare.
    Per tutta l’infanzia non si era staccato un attimo dalla famiglia. Col tempo aveva imparato a capirne l’importanza e la forza. Genitori, fratelli, ma anche zii e cugini, per non parlare dei nonni.
    Tutti uniti in ogni occasione, tutti insieme finché si è potuto. Ripensò alle primavere da bambino, agli odori della sua terra, ai rumori e alle voci. 
Iniziò ad immergersi, sempre più nei ricordi. Li accolse e dopo uno ne arrivò subito un altro.
    Ricordi meravigliosi, interrotti solo da uno di loro, che col tempo di fece tiranno. Un episodio che sancì nettamente la fine della sua infanzia: il suo primo incontro con la morte.
    Un rumore improvviso lo fece riemergere, rifiatò e si girò d’istinto.
    Sulla riva del lago c’era un vecchio capanno, il rumore proveniva da lì. Si avvicinò e si nascose dietro un grosso masso accanto ad un pioppo.
    Dall’interno del capanno arrivò un altro terribile tonfo, poi un urlo.
    Il cuore prese a battergli e sentì pulsare le tempie.
    Un altro urlo.
    Presero a tremargli le gambe. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma non riuscì a muoversi.
    La porta del capanno si aprì, poi vede uscire un uomo. Da dietro l’alberò il signor L. riusciva solo a vederne le gambe e parte del busto. La figura era ferma davanti il capannone, i vestiti erano strappati. Dalla tasca tirò fuori una tabacchiera.
    Tutto taceva.
    Dei volatili smossero le fronde degli alberi e al signor L. cedettero le gambe per la paura.
Da seduto riuscì a vedere l’uomo che fumava una sigaretta. Era il signor P..
    Pensò a Raimondo, ripensò alle sue parole e si pentì di non avergli creduto.
    Pensò anche alla signora P. e al volto gioviale che aveva quell’oggi.
    Pensò che si era fatto tardi e che probabilmente lei lo stesse cercando.
    Smise di pensare e si alzò.
    Improvvisamente le forze che lo avevano tenuto bloccato ora lo spingevano a fuggire.
    Decise che avrebbe, almeno per il momento, dimenticato l’accaduto e fatto finta di niente.
    Tornato dall’altra parte del ponticello, sentì che la signora P. lo chiamava.
    Accelerò il passo e andò da lei.
    Era nei pressi del gazebo di legno ben decorato e ricoperto di rampicanti.
    Signor L., le sembra cortese farmi… si sente bene?
    Il signor L. non doveva avere un bell’aspetto, diede la colpa al caldo.
    La signora entrò nel gazebo e prese dell’acqua.
    Prenda, ne beva un poco, si riprenda.
    In pochi minuti il signor L. riprese colore e contegno. Sedette vicino la sua ospite e uscì gli attrezzi del mestiere dalla sua borsa.


    - Alla fine degli anni ’60 - iniziò lei -, da noi non tirava una bella aria. Io ero ancora molto giovane, ma aveva già delle brutte sensazioni.
    Nessuno avrebbe immaginato che di lì a poco saremmo stati praticamente invasi, senza che nessuno prendesse le nostre difese.
    La mia famiglia però si trovava già alle porte dell’inferno. Fu in quegli anni che iniziammo a vivere un incubo, che presto divenne condiviso.
    Proprio per mano di uno di loro.
    - Per uno di loro si riferisce a…
    - Sì, sa bene a chi mi riferisco. Mia sorella fu la prima a pagare. Pagò per amore. Una sera non era ancora tornata a casa, mio padre uscì a cercarla.
    Si fece molto tardi, chiese a chiunque potesse sapere qualcosa. Cominciavamo a pensare il peggio. Io e i miei fratelli e sorelle più piccole eravamo rimasti a casa e siamo stati, per così dire i primi a ritrovarla. La polizia bussò alla porta, era da poco passata la mezzanotte.
    Mia sorella era in ospedale. Era ferita gravemente.
    Vittima di un aggressione, stuprata e abbandonata per le campagne, era stata ritrovata da un cane da pastore. Il suo padrone avvisò poi la polizia.
    Non c’erano testimoni e nessuno riuscì mai a trovare il colpevole. 
Mia sorella era stata la prima, la prima di molte. Io sapevo chi era stato, ma sapevo anche che se l’avessi detto, mio padre non avrebbe esitato a farsi giustizia da solo. Non potevo permetterlo e tenni il segreto per me.
    Mia sorella rimase gravida e morì di parto.
    Il suo aggressore, lo conoscevo bene, lo vidi morire qualche anno dopo in una guerriglia. Il cadavere era in una fossa comune.
    Lei crede in Dio signor L.?
    - Io? Sì, sono credente.
    - Io continuo a chiedermi, da mezzo secolo, se qualcuno lassù ci sia davvero. Se e come possa permettere che qui si scateni un tale inferno.
    Il suo sguardo mutò all’improvviso, gli occhi della signora P. erano sporgenti e persi nel vuoto, la voce si abbassò: - Quali orrori può permettere un Dio tanto grande? Quali orrori gettati in questa terra? Io non avrei mai creduto che fosse possibile, che nell’uomo si nascondesse una tale bestia. Quanta efferata scelleratezza. Follia forse? Si tocchi il cuore signor L., io non voglio più immaginare cosa ci possa essere dentro il cuore degli esseri umani.
    Silenzio.
    Un leggero venticello si alzò, iniziarono a muoversi le foglie.
    La signora P. invitò il signor L. a tornare la prossima domenica. Lo invitò a pranzo, dicendogli che sarebbero giunti degli invitati.


    La parentesi della chiacchierata con la signora P. avevano fatto dimenticare al signor L. l’accaduto del capanno in riva al lago.
    Ma varcato il cancello si precipitò a casa senza voltarsi.
    Pensava e ripensava a quello che aveva visto e sentito e tutto continuava a vorticare sempre più velocemente nella sua mente, nei suoi ricordi.
    - Chiamerò la signora P. - pianificò - le dirò che domenica dovrò partire. Vado lontano, rimanderemo gli incontri al mio ritorno.
    Voleva prendere tempo per indagare, per capire, poi forse sarebbe tornato lì.
    Però no, forse è meglio tornare. Cosa succede in quella villa? Siamo sicuri che l’incontro si è tenuto in giardino perché era una giornata di sole? Cosa mi sfugge…E quelle urla? E i rumore? I vestiti strappati. Cosa faceva il signor P. in quel capanno? perché la signora P. ha lasciato che me ne andassi in giro allora? se nasconde qualcosa, perché l’ha fatto? e se volessero intimorirmi? ma perché?
    Migliaia di domande lo strinsero in una morsa distruttiva, lo stancarono, lo mortificarono.
    Andò a letto.



    Le tende lasciavano scorgere il paesaggio cittadino fuori dalla finestra, era il crepuscolo e l’aria era densa.
    La porta socchiusa e le lenzuola coprivano le sue gambe. 
Di là qualcuno chiuse la porta del bagno. Poi si spense la luce del corridoio.
    Una figura tremenda entrò nella semioscurità della stanza, gli auto-reggenti e quel profumo inconfondibile, il profumo della perdizione.
    Maria fece qualche passo, si abbassò lasciando cadere i capelli e si rialzò ricacciandoli indietro.
    Il corpo iniziò a muoversi in un danza, un’abile sapera, onde sinuose di pelle lucida, forme e colori come le colline di Sagbayan, o come le strade nel massiccio del Pasubio.
    Gli occhi del signor L. seguivano ogni movimento inesorabilmente attratti da quella figura spietata.
    Poi Maria sollevò le coperte e entrò nel letto.
    Si fece sera e le nuvole, arrossate dagli ultimi raggi del sole, spinte dal vento, scesero a valle. Accarezzarono dolcemente la terra e circondarono gli alberi. Cominciò a formarsi uno strato di rugiada, cielo e terra si fusero e tutto iniziò a ruotare, il paesaggio si confuse e tutto si perse nella notte, ogni piacere, ogni pensiero.
    Il signor L. si svegliò. Aprì il braccio destro, e carezzò il letto. Cercò per qualche secondo, poi un bruciore improvviso al petto. Una terribile sensazione di vuoto lo colse, lo ingabbiò, lo asservì.
    La tirannia del vuoto, l’angheria della mancanza di quei profumi, di quelle sensazioni, come l’alba in una tenda sul lago a Kruchowo o in una fattoria a Dukla.
    Per un attimo, disteso a braccia aperte, ripensò a uno dei pomeriggi più belli della sua vita.
    Era affacciato dal terrazzino della Alte Brücke, guardava fisso le acque scorrervi sotto. Era così attento che ai passanti sembrò che contasse le increspature del Meno. In realtà era impegnato a scrutare lo scorrere dei suoi pensieri, in una giornata importante, quella del suo esordio.
    Niente riuscì a distrarlo, se non una figura che giunse sul terrazzino, con la sua macchina fotografica. Aveva dei lunghi capelli neri, portava un abito scuro con una gonna a campana tagliata male, tutta fiorata e sullo sfondo la notte.
    Un occhio era chiuso, l’altro guardava dentro l’obiettivo. Sembrava sorridere mentre metteva a fuoco, invece stava solo mostrando i denti alla sua preda.
    Scattò delle foto, poi chiese all’allora ancora troppo giovane signor L. se sapeva dove fosse la Kino-Haus. Questi sentì improvvisamente un calore inaspettato, lei aveva dei meravigliosi occhi neri, parlava un discreto tedesco, con un inconfondibile accento polacco.
    Sapeva benissimo dov’era la Kinohaus, era un mega-tendone che lui stesso aveva contribuito a costruire, dove giovani registi potessero esibire le proprie opere, dove potevano confrontarsi sulle idee per le nuove reazioni alle politiche sociali e dove la gioventù potesse superare le differenze e le scorie di un’Europa moderna ancora troppo giovane.
    Balbettando gli diede delle indicazioni e non ebbe la forza di fare o dire altro mentre lei si allontanava.
    L’immagine di lei rimase impressa, indelebile nella sua mente.
    Quella sera temette seriamente per la sua salute, l’adrenalina ormai era padrona di ogni cellula, il cuore a ritmo di rullante e non riusciva a respirare bene.
    Aveva pensato tanto al suo debutto, aveva messo tanto lavoro, un intero semestre e tutta la borsa di studio in quel corto.
    Ma ora tutto questo non contava e, come preso da un incantesimo, da una maledizione, voleva solo rivederla, stare con lei.
    Si preparò e uscì in strada, l’aria era fresca, prese la sua bici e si diresse alla Kino-Haus.
    Giunto lì cercò in ogni ombra il profilo di lei, tutto il mondo si offuscò e davanti gli passavano solo maschere, gli facevano i complimenti, poi passarono delle ore, qualcuno gli disse che aveva vinto il primo premio, che sarebbe andato a Berlino, Venezia e chissà forse in America, che tutti i suoi sogni, forse, si sarebbero realizzati.
    Non riusciva più a sentire, il veleno era entrato in circolo, aveva inibito le sinapsi e paralizzato gli arti superiori. Sintomi chiari: febbre alta, tremori, vista offuscata, sensibilità ridotta, secchezza delle fauci. Presto il veleno lo avrebbe reso ceco, poi paralizzato e infine gli avrebbe spezzato il cuore.
    Alla fine della serata, il padiglione si svuotò, la folla andò via, portando con sé il suo ronzio.
    Rimase solo, ogni rumore minuscolo lo infastidiva, finì la sigaretta e buttò ciò che rimaneva lì vicino.
    Trattenne il fumo nei polmoni e pensò ancora una volta a quella visione, pensò a lei.
    Non era venuta. Era sicuro che sarebbe venuta. Non era lì. Si chiedeva se non fosse stata solo una visione, un’allucinazione, un semplice miraggio.
    Il fumo uscì nella notte gelida, si condensò di fronte al suo viso.
    Diradatosi, mostrò due profondi occhi neri di fronte a lui, lunghissimi capelli e un vestito fiorato, con il fondo scuro come la notte.
    Ecco, adesso si sentiva appagato, i sensi tornarono a funzionare e il cuore a battere, ogni cosa brillava di una luce nuova e lui era schiavo di ogni respiro.
    Lei fece un ampio sorriso.
    - Posso farti una foto?: chiese lei subito.
    - Vuoi farmi una foto?
    - Si, grazie. Io ho visto il film e penso che il tuo film è bello, mi piace.
    - Sono felice che ti sia piaciuto, io, voglio fare il regista e… -
    E avrebbe voluto dirle quanto era bella, quanto gli sarebbe piaciuto passeggiare con lei, conoscerla, stringerla a sé, magari rapirla, portarla in un viaggio eterno tra le meraviglie del mondo, per mostrare loro quanto fossero lontane da tanta perfezione.
    -…oh scusa, non ho sentito il tuo nome.
    - Non ti ho ancora detto mio nome, io sono Maria, Maria Alina Wozniak, vengo da Poland.
    - Maria, è un bellissimo nome.
    - Grazie, tu è gentile.
    La stanza ed il letto vuoto erano tristi, ma ora il Signor L. non provava nulla di tutto quello che aveva provato. Forse amava così tanto Maria da non riuscire a soffrire per una decisione presa da lei. Accettò tutto da subito, senza proteste, senza se e senza ma, ognuno è andato per la sua strada e ognuno a percorso il suo cammino.
    Si alzò e chiuse la finestra, poi uscì.
    Girovagò un poco, gli piaceva passeggiare all’aria aperta, fumare la sua sigaretta era una forma di meditazione. Lo aiutava a definire lo scorrere del tempo, a vedere passo dopo passo come ogni cosa inesorabilmente passi e vada oltre. Vada oltre il tempo, oltre la memoria, si trasformi e si sbricioli nel vento dopo aver bruciato incandescente, dopo essere stata una flebile luce nell’oscurità
    Meditava su se stesso. Sapeva che lui non era quello delle passeggiate notturne e della sigaretta. Sapeva che stava attraversando solo un momento, era solo un passaggio verso il suo Nirvana, verso l’illuminazione che lo avrebbe presto raggiunto e che avrebbe fatto di lui una stella.
    Era fiducioso del fatto che fosse solo nel punto centrale del guado e che una volta dall’altro lato, avrebbe rivisto quanta strada aveva percorso, senza vedere le singole orme che vi aveva lasciato, ma solo i campi e i monti che le circondavano.
    Raimondo aveva torto, la sua vita non era questa, la sua vita era dopo. Come l’araba fenice sarebbe risorto, si sarebbe mostrato al mondo.
    Un giorno il mondo si sarebbe accorto di lui.


    Questa parte mi ha coinvolto di più, la trovo più viscerale. La storia si intreccia ulteriormente e intriga molto. Interessante. :)
    Ti ho segnato sotto spoiler, in arancio, alcune cose: refusi, tempi verbali, d eufoniche, etc.

    Edited by BitFrau - 14/6/2018, 09:01
     
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  3. GiorgioFochettini
     
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    Ciao,

    in questi giorni sono molto impegnato e quindi non ho trovato tempo per bazzicare qui sul forum.
    Ti ringrazio per la lettura e per avermi dedicato del tempo.
    Ho sistemato tutte le cose che mi hai segnalato.

    Sono contento che ti sia piaciuta questa parte. In effetti la storia è lunga e quindi il fatto che tu sia arrivata alla quarta parte è molto gratificante per me.
    A breve pubblicherò la quinta, che è pronta da un bel po', vorrei solo rileggerla almeno una volta prima!

    A presto.
     
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  4. BitFrau
     
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    CITAZIONE (GiorgioFochettini @ 25/6/2018, 15:23) 
    Ciao,

    in questi giorni sono molto impegnato e quindi non ho trovato tempo per bazzicare qui sul forum.
    Ti ringrazio per la lettura e per avermi dedicato del tempo.
    Ho sistemato tutte le cose che mi hai segnalato.

    Sono contento che ti sia piaciuta questa parte. In effetti la storia è lunga e quindi il fatto che tu sia arrivata alla quarta parte è molto gratificante per me.
    A breve pubblicherò la quinta, che è pronta da un bel po', vorrei solo rileggerla almeno una volta prima!

    A presto.

    Bene! ;)
     
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3 replies since 6/6/2018, 20:28   74 views
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