Il rifugio dello scrittore

I Giorni del Gigante: Il caso della Signora P.

Parte 5

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  1. GiorgioFochettini
     
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    Qui trovate i link delle puntate precedenti




    Raimondo se ne stava seduto con un’allegra combriccola di amici occasionali al bar “El Gringo”.
    Grasse risate e alcol accompagnavano le narrazioni di imprese di dubbia verità.
    Ognuno ci teneva a raccontare la propria esperienza di cui, nel bene o nel male, era stato indiscusso protagonista. Non si taceva un secondo, si diceva di tutto purché nessuno spazio fosse lasciato vuoto.
    La parte migliore di tutti i racconti era quella che riguardava le donne. Le avventure amorose erano degne di Hollywood e narravano, dense di maschilismo, le imprese eroiche di uomini straordinari e di spezza-cuori professionisti. Si brindava alla qualsiasi, si trovavano centinaia i motivi per tracannare l’ennesimo bicchiere e l’allegria generale regnava sovrana.
    Purtroppo, per il povero Raimondo, la festa sarebbe finita a breve.
    Nel locale erano entrati due tizi che conosceva molto bene e che erano venuti a fargli una sorpresa.
    Le facce dei nuovi arrivati, però, non avevano nulla a che vedere con quelle caotiche, leggermente arrossate, con su una risata perenne che circondavano Raimondo in quella serata. Queste facce, erano facce serie e erano lì per chiedere chiarimenti. Uno dei due aveva una spaventosa cicatrice sul volto.
    Raimondo si alzò, pagò il conto e uscì dal locale.
    Pochi minuti dopo lo raggiunsero i suoi inquietanti visitatori, uno di loro fece un cenno e lui li seguì.
    Salirono in macchina, il conducente mise in moto e iniziarono a fare un giro.
    - Spero non ti dispiaccia se facciamo un paio di chiacchiere? non abbiamo interrotto nulla di particolare, no?
    - No, va tutto bene ragazzi, vi avrei chiamato io, ma…
    - Non preoccuparti caro. Il fatto è che passavamo di qui e ci siamo chiesti se tu non avessi qualche bella novità per noi. Ah! Non siamo solo noi a volerlo sapere, anche il signor N. ha chiesto di te. Vuole sapere come stai.
    - Mi dispiace molto, ovviamente niente di personale -.
    Ogni frase di Raimondo era accompagnata da un sorriso ebete, in cerca di consensi: - sono stato molto impegnato, ma ho già fatto dei progressi, dei grossi progressi!
    - Ah, che bella notizia!
    - Sì, sì.
    - Bene, sai che il tempo è quasi scaduto. Ci tengo a te, Raimondo, però non so più come aiutarti. Una promessa è una promessa e va mantenuta, tu però non l’hai ancora fatto...
    - ...ma,ma ci sto lavorando, mi serve un poco di tempo… non molto tempo… ma un po’…
    - Quanto?
    - Qualche settimana.
    I due si guardarono, quello con la cicatrice fulminò Raimondo con gli occhi.
    - Ok ok, rettifico, ci vorrà qualche giorno: riprese quest’ultimo.
    - Bravo! Questo sì che è parlare!
    - Vi ringrazio, vedete io…
    Fu interrotto, il suo interlocutore guardò l’orologio e dichiarò che si era fatto tardi. Non fece in tempo a dire nient’altro. Lo lasciarono lì, nella notte. Chiamò un taxi e si fece accompagnare a casa.

    Il signor L. aprì gli occhi, sentiva qualcosa di strano nell’aria, aveva un pessimo presentimento.
    Si lavò e rimase a guardarsi allo specchio.
    Ebbe l’impressione di avere qualche ruga in più. Disegnò con gli occhi ogni tratto del viso, i capelli scuri lasciavano spazio a una fronte spaziosa. Aveva gli occhi stanchi e quella mattina pure un filo di occhiaie. Sorrise a se stesso allo specchio, poi di colpo si fece cupo, poi rilassò il viso. Continuò con questa sorta di ginnastica facciale.
    Prese la schiuma da barba e la applicò sulla faccia.
    Uscì il rasoio dal cassetto e iniziò a radersi.
    Si tagliò.
    Nulla di grave, ma una goccia di sangue cadde nel lavandino, schiacciandosi ed espandendosi.
    Era tutto buio, i fari dell’auto ribaltata ancora accesi, una ruota non smetteva di girare e poi qualcuno piangeva, qualcuno chiedeva aiuto.
    Era successo tutto in un istante, lui era avvolto da una coperta e tutt’attorno un corri corri di persone con divise di vario colore e i lampeggianti.
    Un macabro carnevale, in cui la maschera principale era la morte, vestita di rosso e asfalto.
    La sua infanzia era finita, quel giorno.
    La diagnosi: trauma cranico e qualche costola fratturata. In realtà era solo diventato grande troppo presto.
    Suo padre lo aveva lasciato per sempre, mentre sua madre aveva subito danni irreversibili al cervello.
    Lui era lì seduto, col personale di soccorso che gli faceva delle domande e cercava in tutti i modi di parlargli.
    Non parlò per mesi. Se ne stava nel suo mondo, a vedere e rivedere vecchi film che avevano fatto la storia, attaccandosi alla vita tramite la fune della sua passione più grande, il cinema.
    Conosceva tutti i film a memoria, ogni taglio, ogni frame, ogni battuta, ogni attore, ogni regista.
    La sua collezione era sterminata. Un giorno anche lui sarebbe stato un regista, avrebbe diretto una sua creatura.
    Qualcuno bussò insistentemente alla porta del suo appartamento. Erano le sette.
    Sciacquò il lavandino e si sistemò rapidamente. Chiese di aspettare e percorse il breve corridoio fino all’ingresso.
    A metà strada però un pensiero lo congelò. Si chiese se non fosse stato meglio fingere di non essere a casa.
    Tutte le immagini e i suoni raccapriccianti di qualche giorno prima, vicino quel casale sul lago, tornarono prepotenti. Un brivido gli percorse la schiena.
    La porta risuonò con maggiore insistenza, chiunque fosse, aveva una gran fretta di parlargli. Deviò improvvisamente verso la cucina, prese un coltello e tornò verso l'ingresso. Intanto l’ assolo di percussioni continuò.
    Per ogni colpo, il cuore sussultava, ad ogni battito un’immagine, come una foto, tornava, tornavano quei graffi e le urla.
    Qualcuno lo aveva visto, forse lui aveva visto troppo…la signora P. aveva furbescamente fatto finta di niente. No. La signora P. voleva che lui vedesse. Forse si trovava in pericolo e voleva farglielo sapere, per questo lo ha lasciato girovagare. Forse dietro la gentilezza del fratello, si nascondeva un terribile Mr. Hyde. Doveva essere così. Aveva capito sin dal loro primo incontro che in quell’uomo c’era qualcosa di strano.
    Un passo alla volta procedeva verso la porta, l’aria sempre più rarefatta, sempre più buia e in sottofondo un continuo battere che rimbombava nelle sue orecchie.
    Aprì lo spioncino, le mani erano sudate. Quella che reggeva il coltello tremava leggermente.
    Sentì il suo stesso respiro quando si avvicinò alla porta per guardarvi attraverso.
    La luce proveniente dallo spioncino invase l’iride e quando l’occhio fu pronta ad accoglierla, il signor L. scoprì chi era l’ospite molesto di quella mattina.
    Lì di fronte a sé, dall’altra parte della porta, agitato e preso dal panico, c’era Raimondo.

    Per un attimo trasse un sospiro di sollievo e rispose che stava per aprire.
    Poi, togliendo il chiavistello, si chiese che diavolo ci facesse Raimondo a casa sua alle sette del mattino.
    Finalmente aprì la porta.
    Raimondo prese a urlare: - Dico io! Ti sembra il modo questo di farmi aspettare? Sono secoli che busso alla porta e…
    Si fermò, guardò il signor L. : - Ehi amico, stai bene? Potresti gentilmente posare quell’affare? -
    Il signor L. stava ancora brandendo il coltello. Non si era ripreso del tutto.
    - Raimondo, voglio ricordarti che sono le sette del mattino e che sei piombato a casa mia senza alcuna discrezione, né ritegno.
    - E allora? Non mi sembra un buon motivo per accogliermi con un coltello, non ti sembra di esagerare?
    Il signor L. lo guardò torvo.
    - Non mi fai accomodare? Restiamo qui tutto il tempo? Suvvia, devo parlarti, posa quel maledetto affare.
    - Ok, siediti.
    Entrarono in cucina, il signor L. ripose il grosso coltello e prese dell’acqua. Mentre Raimondo, molto civilmente, aprì il frigorifero e cominciò ad uscir fuori la qualsiasi.
    Il signor L. fece finta di nulla. Evidentemente il suo ospite aveva una gran fame.
    Sedettero a tavola.
    - Allora? Che succede? Iniziò il signor L.
    Raimondo sollevò lo sguardo dal suo abnorme toast e guardò il suo interlocutore come se si fosse accorto solo in quel momento che il signor L. era nella stanza con lui.
    Esordì con una gran risata, che lasciava intravedere il cibo che popolava la sua bocca.
    Il signor L. non capiva.
    Raimondo aveva quasi buttato giù la porta. E ora se ne stava seduto a ridere e ingozzarsi.
    L’ospite ingoiò ancora un pezzo di toast, poi prese un respiro e chiese: - Quindi? A che punto sei con il lavoro? Come va?
    - Raimondo, il lavoro va bene, ma non dirmi che sei venuto qui per chiedermi come sto.
    - E perché no? Io mi preoccupo della tua salute!
    - Se ti preoccupassi della mia salute, non tenteresti di uccidermi con un infarto mattutino.
    - Beh, tu hai tentato di accoltellarmi!
    Silenzio eloquente.
    - Il fatto è che sono un poco preoccupato… ti ho spiegato delle dicerie che circondano quella famiglia e…
    Il signor L. non credeva a una parola tra quelle che gli violentavano le orecchie, non riusciva a credere a un Raimondo così premuroso. Perché tanta apprensione da parte sua?
    Tuttavia lo confortava tornare a parlare di quell’argomento. Voleva saperne di più e stavolta avrebbe ascoltato con orecchie diverse.
    Non era intenzionato ad ammettere di aver avuto torto, che forse qualcosa di strano in realtà ci fosse.
    Però sperava che Raimondo sapesse qualcosa in più, qualcosa che potesse aiutarlo a capire.
    Aveva bisogno di capire di chi poteva fidarsi e di chi no. Voleva sapere se accettare definitivamente l’invito al pranzo della domenica o sparire per un po’.
    Parlare con Raimondo lo avrebbe aiutato, per questo gli perdonò il suo blitz mattutino degno di un’irruzione dei Seal.
    Sedette a tavola e bevve ancora un bicchiere d’acqua. Nel frattempo Raimondo spalmava un poco di marmellata su un altro toast.
    - Continuo a ripeterti che la signora… i signori P. sono perbene. Non ho notato nulla di particolare e penso dovrai impegnarti un poco di più che non raccontandomi di storie di fantasmi e urla.
    Il cellulare di Raimondo prese a squillare, lui rispose e si agitò. Disse al signor L. che aveva fretta e scappò via.

    Domenica arrivò presto e il signor L. decise di accettare l’invito.
    Alla villa lo accolse il signor P.
    Il signor L. provò una strana sensazione, quella che provava sempre quando era accanto al signor P., ovvero l’istinto di fuggire. L’uomo aveva sempre un’aria tenebrosa e per questo il signor L. non sopportava l’ipocrisia dei suoi modi, specialmente dopo averlo visto per quello che realmente era.
    Si scambiarono ancora un sorriso cortese.
    Il signor P. lo scortò in sala da pranzo, non si dissero niente.
    La signora P. era già a tavola, anche lei gli rivolse un sorriso cordiale, ma il signor L. percepì una certa ansia.
    Il signor P. si allontanò e rimasero soli a parlare del più e del meno. La signora era in ansia crescente e non faceva che guardare l’orologio. Il signor L. intuì il motivo della sua ansia: gli altri ospiti erano in ritardo.
    - Pensavo ci fossero stati altri ospiti: asserì indagatore.
    - E così è.
    Non aggiunse altro e il signor L. non indagò oltre.
    Dopo qualche minuto, si unì a loro anche il signor P.
    Dalla cucina giunsero degli odori deliziosi e il signor L. cominciò a avere l’acquolina in bocca.
    Il campanello suonò presto. Il signor P. si alzò e andò alla porta.
    Lo sentì parlare e poi sentì che si avvicinavano. Deglutì e si sistemò il colletto della camicia.
    La signora P. aveva ora un’aria serena.
    Fu un attimo, un flash.
    Il signor L. fu pervaso da una vampata di calore.
    Di fronte a lui un paio di occhi neri profondissimi in cui perdersi e lunghi capelli scuri.
    Il passato e il presente si confusero.
    Si trovò improvvisamente a migliaia di chilometri.
    Si alzò e le strinse la mano. Non sentì il nome, non sentì nulla, solo un moto allo stomaco.
    Quando tornò cosciente guardò i commensali negli occhi temendo che avessero capito qualcosa.
    La donna gli aveva parlato: - E lei? di cosa si occupa?
    Visto che perse l’attimo, fu la signora P. a rispondere in sua vece. - Lui è un regista. Ha deciso di parlare della situazione della nostra amata isola nel ’74 e, informato sulla mia storia, mi ha chiesto il permesso di usarla come soggetto. Io ho accettato, così di tanto in tanto viene ad intervistarmi.
    La ragazza sembrò colpita, sua zia aveva scelto di aprirsi nei confronti di un estraneo.
    - Deve essere meraviglioso poter dare vita a dei film, pensarli, dirigere gli attori… lei è un artista dunque - : fece la donna.
    - Per tutta la vita ho inseguito un sogno, realizzato piccole pellicole, vinto dei premi, ma dentro di me si faceva sempre più grande la necessità di informare, tramite i miei film, su fatti magari poco noti ma allo stesso tempo tragici e pieni di pathos.
    Beatrice, così si chiamava la giovane donna, era attenta ad ogni parola del signor L. Lo ascoltava guardandolo fisso negli occhi. Da parte sua il giovane regista si sentì imprigionato in un senso di benessere che non provava da tempo, improvvisamente era tornato vivo.
    - E lei invece?
    - Perché non ci diamo del tu? Se non le dispiace…
    - No no, va benissimo… quindi… tu di cosa ti occupi?
    - Io sono un medico.
    Certo, non poteva essere altrimenti. Un tale angelo non poteva che occuparsi degli altri.
    Il pranzo proseguì piacevolmente. Il signor L. dimenticò completamente tutte le vicende, i fatti, le parole e i pensieri che gli avevano attanagliato la mente in quei giorni.
    Quella villa aveva improvvisamente preso colore.
    Dopo il pranzo fecero una piccola passeggiata in giardino.
    A un certo punto però il signor P. si allontanò dal gruppo, lasciando al suo posto alcune domande nella mente del signor L.
    Sapeva dove stava andando, ma non capiva cosa stesse succedendo. Nonostante la piacevole compagnia di Beatrice, moriva dal desiderio di seguirlo, di scoprire cosa nascondeva in quel grosso capanno sul lago.
    Tutte le volte che usciva di casa per recarsi alla villa P., non faceva che promettere a se stesso che avrebbe dato delle risposte alle sue domande, che avrebbe scoperto altro.
    Ma le domande si accumulavano, il ritratto, la vera natura del signor P, le stranezze giù al lago, le parole di Raimondo.
    Tutto continuava a complicarsi e le domande crescevano sempre più.
    Dopo aver salutato e ringraziato, andò via con una scusa. Aveva paura che il suo desiderio di scoperta potesse rovinare quel meraviglioso pomeriggio.
    Poi c’era Beatrice, avrebbe voluto conoscerla meglio, ma decise che per il momento era meglio prendersi un poco di tempo per riflettere, per osservare la sua vita da una distanza di sicurezza.

    Edited by GiorgioFochettini - 26/6/2018, 13:59
     
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    Mi permetto di segnalarti solo una cosa che ho notato in tutte le parti: vai a capo troppo spesso.
     
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    CITAZIONE (GiorgioFochettini @ 25/6/2018, 15:59) 
    Raimondo se ne stava seduto con un’allegra combriccola di amici occasionali al bar “El Gringo”.
    Grasse risate e alcol accompagnavano le narrazioni di imprese di dubbia verità.
    Ognuno ci teneva a raccontare la propria esperienza di cui, nel bene o nel male, era stato indiscusso protagonista.
    Non si taceva un secondo, si diceva di tutto purché nessuno spazio fosse lasciato vuoto.
    La parte migliore di tutti i racconti era quella che riguardava le donne.
    Le avventure amorose erano degne di Hollywood e narravano, dense di maschilismo, le imprese eroiche di uomini straordinari e di spezza-cuori professionisti.
    Si brindava alla qualsiasi, si trovavano centinaia i motivi per tracannare l’ennesimo bicchiere e l’allegria generale regnava sovrana.
    Purtroppo, per il povero Raimondo, la festa sarebbe finita a breve.
    Nel locale erano entrati due tizi che conosceva molto bene e che erano venuti a fargli una sorpresa.
    Le facce dei nuovi arrivati, però, non avevano nulla a che vedere con quelle caotiche, leggermente arrossate, con su una risata perenne che circondavano Raimondo in quella serata.
    Queste facce, erano facce serie e erano (qui la d ci vuole perché le vocali sono uguali) lì per chiedere chiarimenti. Uno dei due aveva una spaventosa cicatrice sul volto.
    Raimondo si alzò, pagò il conto e uscì dal locale.
    Pochi minuti dopo lo raggiunsero i suoi inquietanti visitatori, uno di loro fece un cenno e lui li seguì.
    Salirono in macchina, il conducente mise in moto e iniziarono a fare un giro.
    Spero non ti dispiaccia se facciamo un paio di chiacchiere? non abbiamo interrotto nulla di particolare, no?
    No, va tutto bene ragazzi, vi avrei chiamato io, ma…
    Non preoccuparti caro. Il fatto è che passavamo di qui e ci siamo chiesti se tu non avessi qualche bella novità per noi. Ah! Non siamo solo noi a volerlo sapere, anche il signor N. ha chiesto di te. Vuole sapere come stai.
    Mi dispiace molto, ovviamente niente di personale - ogni frase di Raimondo era accompagnata da un sorriso ebete, in cerca di consensi: - sono stato molto impegnato, ma ho già fatto dei progressi, dei grossi progressi!
    Ah, che bella notizia!
    Sì sì. (metti virgola tra si e si)
    Bene, sai che il tempo è quasi scaduto. Ci tengo a te, Raimondo, però non so più come aiutarti. Una promessa è una promessa e va mantenuta, tu però non l’hai ancora fatto.
    Ma ci sto lavorando, mi serve un poco di tempo…non molto tempo…ma un po’… (staccare "non molto tempo" e "ma un po'" dai puntini)
    Quanto?
    Qualche settimana.
    I due si guardarono, quello con la cicatrice fulminò Raimondo con gli occhi.
    Ok ok, <arettifico, ci vorrà qualche giorno: riprese quest’ultimo.
    Bravo! Questo sì che è parlare!
    Vi ringrazio, vedete io…
    Raimondo fu interrotto, il suo interlocutore guardò l’orologio e dichiarò che si era fatto tardi.
    Raimondo non fece in tempo a dire nient’altro. Lo lasciarono lì, nella notte.
    Chiamò un taxi e si fece accompagnare a casa.

    Il signor L. aprì gli occhi, sentiva qualcosa di strano nell’aria, aveva un pessimo presentimento.
    Si lavò e rimase a guardarsi allo specchio.
    Ebbe l’impressione di avere qualche ruga in più. Disegnò con gli occhi ogni tratto del viso, i capelli scuri lasciavano spazio ad (no d) una fronte spaziosa. Aveva gli occhi stanchi e quella mattina pure un filo di occhiaie. Sorrise a se stesso allo specchio, poi di colpo si fece cupo, poi rilassò il viso. Continuò con questa sorta di ginnastica facciale.
    Prese la schiuma da barba e la applicò sulla faccia.
    Uscì il rasoio dal cassetto e iniziò a radersi.
    Si tagliò.
    Nulla di grave, ma una goccia di sangue cadde nel lavandino, schiacciandosi ed espandendosi.
    Era tutto buio, i fari dell’auto ribaltata ancora accesi, una ruota non smetteva di girare e poi qualcuno piangeva, qualcuno chiedeva aiuto.
    Era successo tutto in un istante, lui era avvolto da una coperta e tutt’attorno un corri corri di persone con divise di vario colore e i lampeggianti.
    Un macabro carnevale, in cui la maschera principale era la morte, vestita di rosso e asfalto.
    La sua infanzia era finita, quel giorno.
    La diagnosi: trauma cranico e qualche costola fratturata. In realtà era solo diventato grande troppo presto.
    Suo padre lo aveva lasciato per sempre, mentre sua madre aveva subito danni irreversibili al cervello.
    Lui era lì seduto, col personale di soccorso che gli faceva delle domande e cercava in tutti i modi di parlargli.
    Non parlò per mesi. Se ne stava nel suo mondo, a vedere e rivedere vecchi film che avevano fatto la storia, attaccandosi alla vita tramite la fune della sua passione più grande, il cinema.
    Conosceva tutti i film a memoria, ogni taglio, ogni frame, ogni battuta, ogni attore,ogni regista. (stacca "ogni" dalla virgola)
    La sua collezione era sterminata. Un giorno anche lui sarebbe stato un regista, avrebbe diretto una sua creatura.
    Qualcuno bussò insistentemente alla porta del suo appartamento. Erano le sette.
    Sciacquò il lavandino e si sistemò rapidamente. Chiese di aspettare e percorse il breve corridoio fino all’ingresso.
    A metà strada però un pensiero lo congelò. Si chiese se non fosse stato meglio fingere di non essere a casa.
    Tutte le immagini e i suoni raccapriccianti di qualche giorno prima, vicino quel casale sul lago, tornarono prepotenti. Un brivido gli percorse la schiena.
    La porta risuonò con maggiore insistenza, chiunque fosse, aveva una gran fretta di parlargli.
    Deviò improvvisamente verso la cucina, prese un coltello e tornò verso l’ingresso.
    Intanto l’assolo di percussioni continuò.
    Per ogni colpo, il cuore sussultava, ad (no d) ogni battito un’immagine, come una foto, tornava, tornavano quei graffi e le urla.
    Qualcuno lo aveva visto, forse lui aveva visto troppo…la signora P. (staccare la signora P. dai puntini) aveva furbescamente fatto finta di niente. No. La signora P. voleva che lui vedesse. Forse si trovava in pericolo e voleva farglielo sapere, per questo lo ha lasciato girovagare. Forse dietro la gentilezza del fratello, si nascondeva un terribile Mr. Hyde. Doveva essere così. Aveva capito sin dal loro primo incontro che in quell’uomo c’era qualcosa di strano.
    (Non sarebbe meglio: Con un passo alla volta...?) Un passo alla volta procedeva verso la porta, l’aria sempre più rarefatta, sempre più buia e in sottofondo un continuo battere che rimbombava nelle sue orecchie.
    Aprì lo spioncino, le mani erano sudate. Quella che reggeva il coltello tremava leggermente.
    Sentì il suo stesso respiro quando si avvicinò alla porta per guardarvi attraverso.
    La luce proveniente dallo spioncino invase l’iride e quando l’occhio fu pronta (pronto) ad accoglierla, il signor L. scoprì chi era l’ospite molesto di quella mattina.
    Lì di fronte a sé, dall’altra parte della porta, agitato e preso dal panico, c’era Raimondo.

    Per un attimo trasse un sospiro di sollievo e rispose che stava per aprire.
    Poi, togliendo il chiavistello, si chiese che diavolo ci facesse Raimondo a casa sua alle sette del mattino.
    Finalmente aprì la porta.
    Raimondo prese a urlare: - Dico io! Ti sembra il modo questo di farmi aspettare? Sono secoli che busso alla porta e…
    Si fermò, guardò il signor L. : (avvicina i due punti) - Ehi amico, stai bene? Potresti gentilmente posare quell’affare? -
    Il signor L. stava ancora brandendo il coltello. Non si era ripreso del tutto.
    Raimondo, voglio ricordarti che sono le sette del mattino e che sei piombato a casa mia senza alcuna discrezione, né ritegno.
    E allora? Non mi sembra un buon motivo per accogliermi con un coltello, non ti sembra di esagerare?
    Il signor L. lo guardò torvo.
    Non mi fai accomodare? Restiamo qui tutto il tempo? Suvvia, devo parlarti, posa quel maledetto affare.
    Ok, siediti.
    Entrarono in cucina, il signor L. ripose il grosso coltello e prese dell’acqua. Mentre Raimondo, molto civilmente, aprì il frigorifero e cominciò ad (no d) uscir fuori la qualsiasi.
    Il signor L. fece finta di nulla. Evidentemente il suo ospite aveva una gran fame.
    Sedettero a tavola.
    Allora? Che succede? Iniziò il signor L.
    Raimondo sollevò lo sguardo dal suo abnorme toast e guardò il suo interlocutore come se si fosse accorto solo in quel momento che il signor L. era nella stanza con lui.
    Esordì con una gran risata, che lasciava intravedere il cibo che popolava la sua bocca.
    Il signor L. non capiva.
    Raimondo aveva quasi buttato giù la porta. E ora se ne stava seduto a ridere e ingozzarsi.
    L’ospite ingoiò ancora un pezzo di toast, poi prese un respiro e chiese: - Quindi? A che punto sei con il lavoro? Come va?
    Raimondo, il lavoro va bene, ma non dirmi che sei venuto qui per chiedermi come sto.
    E perché no? Io mi preoccupo della tua salute!
    Se ti preoccupassi della mia salute, non tenteresti di uccidermi con un infarto mattutino.
    Beh, tu hai tentato di accoltellarmi!
    Silenzio eloquente.
    Il fatto è che sono un poco preoccupato…ti ho (stacca "ti ho" dai puntini) spiegato delle dicerie che circondano quella famiglia e…
    Il signor L. non credeva a una parola tra quelle che gli violentavano le orecchie, non riusciva a credere a un Raimondo così premuroso. Perché tanta apprensione da parte sua?
    Tuttavia lo confortava tornare a parlare di quell’argomento. Voleva saperne di più e stavolta avrebbe ascoltato con orecchie diverse.
    Non era intenzionato ad ammettere di aver avuto torto, che forse qualcosa di strano in realtà ci fosse.
    Però sperava che Raimondo sapesse qualcosa in più, qualcosa che potesse aiutarlo a capire.
    Aveva bisogno di capire di chi poteva fidarsi e di chi no. Voleva sapere se accettare definitivamente l’invito al pranzo della domenica o sparire per un po’.
    Parlare con Raimondo lo avrebbe aiutato, per questo gli perdonò il suo blitz mattutino degno di un’irruzione dei Seal.
    Sedette a tavola e bevve ancora un bicchiere d’acqua. Nel frattempo Raimondo spalmava un poco di marmellata su un altro toast.
    Continuo a ripeterti che la signora…i signori P. (stacca dai puntini) sono perbene. Non ho notato nulla di particolare e penso dovrai impegnarti un poco di più che non raccontandomi di storie di fantasmi e urla.
Personalmente non ho notato niente di particolare.
    Il cellulare di Raimondo prese a squillare, lui rispose e si agitò. Disse al signor L. che aveva fretta e scappò via.

    Domenica arrivò presto e il signor L. decise di accettare l’invito.
    Alla villa lo accolse il signor P.
    Il signor L. provò una strana sensazione, da quando aveva visto quella scena sentiva, quando (quando ripetuto) era accanto al signor P. (virgola qui) continuamente l’istinto di fuggire. L’uomo aveva sempre un’aria tenebrosa e per questo il signor L. non sopportava l’ipocrisia dei suoi modi, specialmente dopo averlo visto per quello che realmente era.
    Si scambiarono ancora un sorriso cortese.
    Il signor P. lo scortò in sala da pranzo, non si dissero niente.
    La signora P. era già a tavola, anche lei gli rivolse un sorriso cordiale, ma il signor L. percepì una certa ansia.
    Il signor P. si allontanò e rimasero soli a parlare del più e del meno. La signora era in ansia crescente e non faceva che guardare l’orologio. Il signor L. intuì il motivo della sua ansia: gli altri ospiti erano in ritardo.
    Pensavo ci fossero stati altri ospiti: asserì indagatore.
    E così è.
    Non aggiunse altro e il signor L. non indagò oltre.
    Dopo qualche minuto, si unì a loro anche il signor P.
    Dalla cucina giunsero degli odori deliziosi e il signor L. cominciò a avere (metti d) l’acquolina in bocca.
    Il campanello suonò presto. Il signor P. si alzò e andò alla porta.
    Lo sentì parlare e poi sentì che si avvicinavano. Deglutì e si sistemò il colletto della camicia.
    La signora P. aveva ora un’aria serena.
    Fu un attimo, un flash.
    Il signor L. fu pervaso da una vampata di calore.
    Di fronte a lui un paio di occhi neri profondissimi in cui perdersi e lunghi capelli scuri.
    Il passato e il presente si confusero.
    Si trovò improvvisamente a migliaia di chilometri.
    Si alzò e le strinse la mano. Non sentì il nome, non sentì nulla, solo un moto allo stomaco.
    Quando tornò cosciente guardò i commensali negli occhi temendo che avessero capito qualcosa.
    La donna gli aveva parlato: - E lei? di cosa si occupa?
    Visto che perse l’attimo, fu la signora P. a rispondere in sua vece. - Lui è un regista. Ha deciso di parlare della situazione della nostra amata isola nel ’74 e, informato sulla mia storia, mi ha chiesto il permesso di usarla come soggetto. Io ho accettato, così di tanto in tanto viene ad (no d) intervistarmi.
    La ragazza sembrò colpita, sua zia aveva scelto di aprirsi nei confronti di un estraneo.
    - Deve essere meraviglioso poter dare vita a dei film, pensarli, dirigere gli attori… lei è un artista dunque - : fece la donna.
    Per tutta la vita ho inseguito un sogno, realizzato piccole pellicole, vinto dei premi, ma dentro di me si faceva sempre più grande la necessità di informare, tramite i miei film, su fatti magari poco noti (qui virgola) ma allo stesso tempo tragici e pieni di pathos.
    Beatrice, così si chiamava la giovane donna, era attenta ad (no d) ogni parola del signor L. Lo ascoltava guardandolo fisso negli occhi. Da parte sua il giovane regista si sentì imprigionato in un senso di benessere che non provava da tempo, improvvisamente era tornato vivo.
    E lei invece?
    Perché non ci diamo del tu? Se non le dispiace…
    No no, va benissimo…quindi…tu di cosa ti occupi? (stacca dai puntini)
    Io sono un medico.
    Certo, non poteva essere altrimenti. Un tale angelo non poteva che occuparsi degli altri.
    Il pranzo proseguì piacevolmente. Il signor L. dimenticò completamente tutte le vicende, i fatti, le parole e i pensieri che gli avevano attanagliato la mente in quei giorni.
    Quella villa aveva improvvisamente preso colore.
    Dopo il pranzo fecero una piccola passeggiata in giardino.
    A un certo punto però il signor P. si allontanò dal gruppo, lasciando al suo posto alcune domande nella mente del signor L.
    Sapeva dove stava andando, ma non capiva cosa stesse succedendo. Nonostante la piacevole compagnia di Beatrice, moriva dal desiderio di seguirlo, di scoprire cosa nascondeva in quel grosso capanno sul lago.
    Tutte le volte che usciva di casa per recarsi alla villa P., non faceva che promettere a se stesso che avrebbe dato delle risposte alle sue domande, che avrebbe scoperto altro.
    Ma le domande si accumulavano, il ritratto, la vera natura del signor P, le stranezze giù al lago, le parole di Raimondo.
    Tutto continuava a complicarsi e le domande crescevano sempre più.
    Dopo aver salutato e ringraziato, andò via con una scusa. Aveva paura che il suo desiderio di scoperta potesse rovinare quel meraviglioso pomeriggio.
    Poi c’era Beatrice, avrebbe voluto conoscerla meglio, ma decise che per il momento era meglio prendersi un poco di tempo per riflettere, per osservare la sua vita da una distanza di sicurezza.

    Devo dire che mi piace sempre più la storia, anche perché mano mano sta perdendo quel senso di affettato che avevo percepito nelle prime parti. Sarà pure perché ora l'intento risulta più chiaro. Bravo, mi prende!
    Ti ho segnato sotto spoiler delle quisquilie...
    Buona continuazione!
     
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  4. GiorgioFochettini
     
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    Ci sono dei problemi di formattazione, quando copio dal software che uso per scrivere al forum. Mi sono accorto che oltre agli "a capo" innumerevoli, che mi avete segnalato, e oltre agli spazi mancanti e/o in più, c'è il problema dei discorsi diretti. Dove mancano tutti i trattini. Sistemerò tutto a poco a poco.

    Comunque, vi ringrazio per la lettura, mi fa piacere che via abbia coinvolto.
     
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  5. Liborio
     
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    Ciao,
    confesso di non aver letto gli episodi precedenti, mi sono concentrato solo su questo.
    "si trovavano centinaia i motivi per tracannare", suppongo fosse "di": digitazione.
    "Uscì il rasoio dal cassetto e iniziò a radersi", pugliese?
    C'è un motivo per andar a capo spesso?
    Il racconto mi piace, si presenta bene. Devo leggere i precedenti, rendermi conto.
     
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  6. GiorgioFochettini
     
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    Ciao Liborio,

    ero convinto di averti già risposto. Ho gia scritto che gli "a capo" sono probabilmente un effetto della differente formattazione tra Pages e l'editor del forum. (Che tra l'altro mi ha cancellato le lineette del discorso diretto)
    Sono contento che, al di là di questo, il racconto ti sia piaciuto!

    Grazie per avere letto, a presto.


    P.S. Non sono pugliese.
     
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5 replies since 25/6/2018, 14:59   74 views
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