Il rifugio dello scrittore

Prodotto del gioco creativo 'Chi vuole scrivere con me?' Parte I

Gioco lanciato dalla nostra Esterella

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    Alla fermata

    Stretta nel suo cappotto turchino, la biondina aspettava l’autobus ogni mattina.
    Gianni, dalla finestra di fronte, al primo piano, la osservava mentre sorseggiava il suo caffè.
          Un giorno la ragazza guardò verso la finestra; sembrava sorridere. Sì, sicuramente il sorriso era per lui; non c’era nessun altro nei paraggi.
    Cominciò così, puntuale alla stessa ora, un incontro di sguardi.
          Il giorno dopo, lui le fece un cenno di saluto, sollevando un poco la tazzina del caffè; lei sorrise e annuì.
    Domani, pensò Gianni, scendo in strada e chiedo il suo nome.
    Ma l’autobus passò in anticipo, e dovette rimandare al giorno dopo.
          Quella volta si preparò per tempo, trangugiò il caffè e, appena la vide comparire, fece di corsa le scale. Era quasi arrivato al portone, quando il gatto della portinaia si infilò tra le caviglie e lo fece rovinare al suolo.
    Dovette rimanere ingessato per un mese.

          Immobilizzato in casa, continuò con il rituale dei saluti alla sua bella, alla fermata, sollevando la tazzina e mostrando la stampella. Lei gli sorrideva, come sempre. Gianni faceva congetture di ogni tipo e contava i giorni che lo separavano dall’incontro con lei.
          Una mattina la vide in compagnia di un’anziana signora. La ragazza era una badante, quindi, ma questo lo aveva capito da tempo.
    Due giorni ancora, due giorni e poi sarebbe sceso in strada.
          Venerdì, lei era triste, non puntò la finestra neanche per un attimo; una grossa auto scura arrivò prima dell’autobus e lei vi salì.
          Sabato, guardò verso lui, ma non sorrise, e aspettò mogia il mezzo, stringendosi nel cappotto turchino.
    Tolto finalmente il gesso, Gianni si preparò per l’incontro; aveva tante cose da dire alla sua “Celestina”, come la chiamava lui.
          Domenica, la vide arrivare; stava per salutarla, ma notò che lei scriveva qualcosa sulla cabina della pensilina.
    Gianni si interrogò.
    Lesto, abbandonò la tazzina già svuotata, che ruzzolò sul pavimento, e si affrettò per le scale. Quando raggiunse la fermata, lei non c’era più. Sulla parete di plastica, un messaggio per lui.
    “Addio, Olha”.
    Il ragazzo si strinse con le dita la gamba appena guarita, e poi sentì gli occhi bruciargli.
          – La mia celestina si chiama Olha! – disse al bambino col gelato, che si era fermato ad osservarlo.
    Incuriosito, il piccolo girò la testa e lo guardò senza capire. Alzò le spalle; poi, avido, si concentrò sul gelato e si allontanò. Gianni si ritrovò solo.
    Prese una decisone, si diresse a grandi passi, zoppicando, verso uno stabile. Lì scoprì il centro Polacchi in città.
    Guardò rapito l'insegna e, proprio in quel momento, avvertì la necessità vitale, come aria per i polmoni, di conoscere qualche frammento di Olha. Si avviò, pertanto, verso la porta.
    Mentre stava per entrare, sentì una fitta allo stomaco...
          – Dovrò smetterla col caffè senza biscotti... –
    Entrò e si guardò attorno. Una gigantografia di papa Wojtyla imperava sulla parete frontale; sulla destra un banco, a sinistra la cassa. Sembrava la hall di un albergo, ma era un commisto tra tavolini tondi e metallici al centro della sala e divani consumati, tutti diversi, sparsi su tre lati, salvo quello della porta da cui era entrato. Dietro la tenda pesante e scostata, vicino la cassa, si scorgevano i primi gradini di una scala in legno.
          Mentre si chiedeva se ci fosse qualcuno, si appalesò una signora di mezza età, vestita alla buona; per collana un rosario.
    – Buongiorno, signore. Posso aiutare? –
    Fece un respiro ampio prima di rispondere – Sì... forse... – osservò ancora la foto gigante del papa e prese a farfugliare.
          – Eh... quella ragazza col cappotto turchino... così bella... biondina... alla fermata dell'autobus tutte le mattine... la vedevo dalla mia finestra... Non più ora... Sulla parete della pensilina c'era scritto Olha. Dov'è? Chi è? –
    Si fermò lì, pensando che le informazioni potessero bastare.
    – Chi è chi? Dov'è chi? Mi scusa, signore, ma non ho capito. Puoi essere più chiaro? – rispose un po' infastidita la signora.
    Gianni si rese conto che l'emozione lo aveva trasformato in un pasticcione, più di quanto lo fosse di solito.
    Se soltanto avessi pensato di farle una foto... - pensò Gianni - adesso potrei mostrarla a questa signora. Ma il suo bellissimo aspetto è stampato nella mia mente in ogni piccolo particolare.
          Chiuse gli occhi, per concentrarsi e non trascurare i dettagli. Un'altra scorta d'aria, e ritentò.
    Descrisse alla donna che gli stava di fronte incuriosita, l'aspetto e il modo di fare di quella giovane, aggiungendo che, probabilmente, si chiamava Olha.
          – Voglio... devo ritrovarla! Mi aiuti, la prego! –
    L'espressione dell'anziana signora passò dalla curiosità, alla sorpresa, al sospetto. Puntandogli l'indice contro il petto e guardandolo fisso negli occhi pronunciò: – Cosa vuoi tu, dalla piccola Olha?! –
          – Allora, signora, per favore, mi ascolti fino alla fine. –
    Le raccontò della fermata, della ragazza dal cappottino turchino, come i suoi occhi, di lui immobilizzato, degli sguardi scambiati, del messaggio sulla pensilina.
    – Mmm... E chi mi dice che tu non ha inventato storia? –
          – Signora, la prego... –
    La donna si toccò il collo e abbassò gli occhi. Ripartì con l'espressione ridimensionata.
          – Olha no è di Polonia... è di... Russia. – E sembrò non volersi sbottonare oltre.
    Nella sala, fredda, la donna non sembrava soffrire affatto per la temperatura gelida; doveva essere abituata a ben altro. Accanto alla foto di Wojtyla una stampa, raffigurante un paesaggio montano innevato, abbelliva la parete.
    – Ma non avete il riscaldamento qui? – disse Gianni, che rabbrividendo si strinse nel giubbotto.
          – No, amico, qui c'è due stufe a legna, a pallet e a pellet, ma accendo solo di sera, perché consuma troppo – rispose la donna, guardandolo dritto negli occhi.
    Con quella semplice domanda, il giovane aveva conquistato la fiducia della straniera.
          – Signora, mi chiamo Gianni. Mi chiami per nome. Ora vado via... la mia asma... sa...? –
    – Signor Gianni, tu fa quel che vuoi. Torna, vai... Io devo lavorare. –
          – Sì, perché devo andare in ospedale. Ma penso di poterla aiutare con il suo centro, se me lo permette. Senza farmi pagare, s'intende. Arrivederci. –
    – Ciao, signore. –
          Il fiato corto, accorciato ancora di più dall'emozione, aveva fatto cambiare programmi a Gianni. Doveva rimediare assolutamente l'inalatore per l'asma. L'ospedale era troppo lontano, e decise di recarsi dalla guardia medica, che doveva essere nei paraggi. Non essendone sicuro, chiese conferma alla signora.
          – No, signora, non vado più in ospedale, è troppo distante. La guardia medica è da queste parti, vero?
    – Jeden trovi subito uscito di qua, in angolo di strada... - Poi rifletté e aggiunse di scatto - ... O mój Boże, mia testa come sculabrodo! Ricordato a ora che io deve fare ricetta! Andiamo tutti due. –
          Rozalia chiamò Józef, il primogenito, che comparve sulla scala di legno; confabulò qualcosa e, afferrata la borsetta, ne estrasse uno scialle leggero. Se lo accomodò davanti allo specchietto del banco. I due uscirono in strada.
    La straniera col mento alto e il passo lesto; lui che non sapeva se mantenersi al fianco, o se starle un tanto indietro. Trenta centimetri più alto della signora, si muoveva come se avesse un filo corto e invisibile che lo legava a lei. La seguì fino all'ambulatorio.

          La piccola sala d'aspetto era affollata. Seduta in un angolo, una mamma consolava il suo bambino che non voleva saperne di farsi visitare. Una coppia di anziani aspettava il vaccino antinfluenzale. Una bella signora ingioiellata attendeva il suo turno controllando dal cellulare il profilo facebook mentre un giovanotto muoveva la testa a ritmo di una musica rap malcelata dagli auricolari. Gianni non riuscì a trattenere un sospiro: ci sarebbero volute ore, prima di entrare dal medico e farsi fare la ricetta che gli serviva.
          – Forse è meglio l'ospedale. – Disse sconsolato, rivolgendosi alla sua nuova amica.
    – Tu no preoccupato! Dimmi nome di tua medicina e io farò ricetta per te, va bene? –
          – Lei è molto gentile. Ma perché fa tutto questo per me? Fino a pochi minuti fa neppure mi conosceva. E neanche adesso... a dire il vero... –
    – Non mi hai ancora detto cosa vuoi da Olha... – Alzò gli occhi su di lui con malizia, curiosità e sospetto.
    – ... E appena il tuo respiro sarà tornato regolare, voglio sapere di più, della cosa che mi hai detto a mio centro. –
    Si girò verso il bancone dove si trovava la segretaria del medico.
    – Mi scusa, secretaria, qui c'è uomo che no respira, - indicando Gianni - tiene il sibillo di l'aria! Serva subito ricetta di medicina! – disse Rozalia con tono alto e perentorio.
          La segretaria, pensando a uno stratagemma della donna per saltare la fila, senza accertarsi dello stato di Gianni, rispose che dovevano attendere il loro turno.
    La straniera balzò come un saltamartino – Se medico no fa ricetta a questo momento io chiama polizia!
    L'altra, stupita da quel tono, alzò le sopracciglia e si avvicinò al ragazzo. Il sibilo c'era, e ormai lo avevano notato anche gli altri pazienti vicino a Gianni, che puntarono gli occhi sulla segretaria.
          – Dammi un documento, ragazzo; il dottore ti farà la prescrizione subito. Troverai la farmacia di turno tre isolati più avanti. –
    Lui le porse la carta d'identità e aggiunse che conosceva quella farmacia.
    Rozalia, impetuosa d'intenti, azzardò: – Signora bella, puoi dare anche mia identità al dottore? Sa, sono molto malata... –
    L'impiegata alzò gli occhi al divino, poi mise a scandaglio le facce dei presenti che, in maggioranza, sorrisero annuendo.
          – Signora... non funziona così: il ragazzo è asmatico, ma il dottore non conosce la malattia che ha lei. –
    Pronta come un proiettile nella canna del lanciasiluri, la polacca giocò il suo asso.
    – Signora gentile, io ho qui anche carta di amnesia! –
    Rozalia sguainò una cartella dalla borsetta, e la segretaria, come ipnotizzata, diede un'occhiata al primo foglio. Poi precisò:
          – Ah... l'anamnesi! – Trattenne una risata, afferrò i documenti e bussò alla porta del medico; entrando senza attendere risposta, scomparve oltre l'uscio.
          Tre minuti dopo, i due avevano ottenuto le rispettive prescrizioni, e uscirono dall'ambulatorio mentre un signore stravaccato faceva un applauso lento, ironico. Gli altri presenti lo guardarono male.
    Era nata una complicità.
    La strana coppia camminava verso la farmacia.
          – Signore Gianni, io mi chiamo Rozalia. –

    Finalmente, il salvavita fu nelle mani di Gianni e, in un nanosecondo, si sparò due spruzzate, che gli fecero tornare il colorito e l'ottimismo.
          – Grazie mille, Rozalia, con la sua fermezza e intraprendenza ha salvato la mia vita. Non saprei proprio come altro sdebitarmi. L'ausilio offerto prima per il centro mi sembra esiguo... – proferì più che riconoscente.
    – Nic! No era momento di te! Tu deve ancora spiegare bene perché chiede di Olha! – replicò l'ardita signora – Basta aiuto di quistioni di centro. Andiamo! – continuò, dandogli una pacca sulle spalle.
          Gianni sorrise alla donna e insieme intrapresero la strada del ritorno.

    Quella Rozalia aveva un caratterino alquanto autoritario, però a lui era simpatica e stava volentieri con lei, non soltanto per avere notizie di Olha, ma anche perché non vedeva l’ora di potersi rendere utile al centro di raccolta e assistenza, dove sicuramente c’era tanto da fare.
    Appena entrati nell’ampia sala, trovarono il figlio di Rozalia che stava selezionando del vestiario da alcuni scatoloni con la scritta Caritas.
          – Jòzef, questo è Gianni, lui vuole dare aiuto per nostro centro –
    – Bene! Prima cosa: tu hai macchina grande? – chiese il ragazzo, guardando con attenzione il nuovo venuto.
    Gianni però non rispose.
          Una ragazza bionda, seduta su uno dei divani in pelle, aveva catalizzato la sua attenzione; non era Olha, ma indossava un cappotto turchino identico a quello della sua “Celestina”.
    Rozalia, che aveva seguito il suo sguardo, capì che quell’indumento dal colore insolito aveva risvegliato nel giovane il ricordo della ragazza ucraina, allora si avvicinò a lui e toccandolo per un braccio gli parlò con aria materna.
          – Tu devi avere pazienza signore Gianni, presto saprai cose che io so di Olha. Ma prima devo fare telefonata! –
    Trasformando il tocco sulla spalla in una pacca da scaricatore di porto, Rozalia si rifugiò dietro la scrivania e sollevò la cornetta di un vecchio telefono.
          Gianni rimase ancora una volta senza fiato, il colpo ricevuto dalla signora gli aveva fatto fuoriuscire la poca aria che era riuscito a incamerare con tanta fatica. Strabuzzando gli occhi e cercando di darsi un tono, addrizzò le spalle e si diresse con grandi falcate verso la signorina bionda.
    – Buongiorno! Scusi se le sembro indiscreto, ma potrebbe dirmi dove ha preso questo cappotto? – La signora e suo figlio gli sembrarono ancora troppo reticenti; avrebbe dovuto indagare da solo. Sarebbe andato al negozio che vendeva quel genere di capi e da lì sarebbe partito alla ricerca della sua Olha. Doveva trovarla!
          – Capotto no rubato io! Dato me signora Rozalia! – rispose risentita la ragazza.
    Gianni si sentì in colpa per la domanda, anche se il risultato era stato il frutto di un malinteso...
    Non solo in colpa, si sentì anche in trappola! La sua smania di sapere era condizionata dal fare vago dell'operatore portuale al femminile!
          – Cosa ho detto io? Pazienzare! Tu non cerca da solo! Tu non fida di me? Ho detto che io aiuto te! – lo ammonì Rozalia, posando la cornetta.
    – L’una! È ora di pranzo. I miei mi staranno cercando, mi hanno visto uscire stamattina. Non mi sono fatto sentire proprio. Rozalia, devo andare. –
    In quel momento – Mamma vieni, è ora. –
          – A dopo, signor Gianni. –
    Dalla cucina si era diffuso nella sala del centro un odore di patate.
    – Dopo mi dirà del cappotto che indossa la ragazza... Vero, Rozalia? – azzardò Gianni prima di uscire. – Ah, complimenti al cuoco, il profumo che viene dalla cucina è ottimo! – seguitò con l'acquolina in bocca.
          Allungando il braccio, afferrò il telefono e lo avvicinò al giovane, poi propose – Signor Gianni, fermati con noi a pranzo, se voj. Avvisa alla tua casa. Parleremo dello aiuto al centro. –
    – Anche di Olha, mi parlerai anche di lei, vero? – prese l’apparecchio e compose velocissimo il numero.
    Rivolta al figlio – Bene, aggiungi un posto a tavola. Un ospite, un bravo signore. –
    Gianni improvvisò una conversazione con un interlocutore immaginario all'altro capo del filo.
    – Sì, ciao, io mi fermo fuori a pranzo. No, no, nessun problema, ho solo fatto tardi. Questa sera ceniamo tutti insieme, ho detto anche a Carlo e Maria di venire. Sì, compro io una torta, grande. Ok, ciao, a più tardi. –
          Appoggiò la cornetta del telefono, sicuro di non essere stato scoperto, sicuro che nessuno poteva essersi accorto della solitudine che nascondeva come una vergogna. Un enorme spazio vuoto, grigio e piatto, e sul fondo un piccolo, brillante cappottino turchese.
          La piece di Gianni, però, non era sfuggita a Rozalia. Benché si mostrasse come un portuale rude, aveva una sensibilità umana spiccata.
    Del resto, non avrebbe potuto dedicarsi a un'attività, come quella del centro, rivolta al prossimo bisognoso di aiuto e accoglienza, senza alcune caratteristiche imprescindibili: risolutezza, bontà d'animo, solidarietà.
          A tavola, ammorbidita da ciò che aveva ulteriormente realizzato sul ragazzo, si slacciò non poco sul cappotto turchino... su Olha...
    – Vedi, signor Gianni... –

    Continua in Parte II

    Edited by Axum - 12/6/2018, 14:17
     
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