Il rifugio dello scrittore

Posts written by Gnome74

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    Anch'io sono tra gli autori esordienti e ho riscontrato la difficoltà di farsi conoscere, di attirare nuovi lettori. Stavo pensando di postare una parte del mio libro, magari il primo capitolo, in questo forum, cosicché qualcuno, se lo ritenesse apprezzabile, di suo gusto, potrebbe poi voler leggere anche il seguito. Ma come, se non posso pubblicizzare il mio libro nei forum di lettura? Avrei anche un sito, per cui forse potrei fornire il nome del sito, su cui ho indicato anche il nome del libro. Si può fare in questo modo?
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    Le due trame che ho postato dovrebbero essere parte di una serie, che vede un gruppo di avventurieri alla ricerca di uno o più oggetti o degli ingredienti necessari per un incantesimo che consenta loro di aprire un portale dimensionale per tornare al loro mondo originario. Quindi dovrebbero esserci all'incirca i medesimi personaggi tra gli avventurieri per entrambi i racconti ed essi dovrebbero giungere in entrambi i luoghi in cui si svolgono le vicende sapendo dove si stanno recando ed avendo qualche traccia su cosa o chi cercare, o a chi domandare per la loro quest.
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    Per chi volesse sviluppare la storia, che nasce come bozza di un'avventura di D&D, in un racconto fantasy classico.

    La Vendetta del Male

    1. Prologo


    Llithoth è un rappresentante della razza degli Elfi Drow, infida specie votata al male.
    Durante la sua permanenza a Ravenloft Llthoth ha avuto la sventura di subire un attacco da parte di un pipistrello mannaro, contraendo a sua volta il morbo della licantropia. Nonostante i suoi sforzi ella non è finora riuscita a sconfiggere questo male che la trasforma in una bestia notturna assetata di sangue.
    La cosa non rappresenta un problema morale per Llithoth, che però vuole purificare il suo sangue Drow per potersi sottoporre ad un macabro rituale religioso.
    Ora, Llithoth è riuscita a trovare ed uccidere il mannaro che l’aveva contagiata, pensando così di avere debellato il male, ma la sua malattia ha continuato ugualmente a persistere.
    Lithoth pensò allora di chiedere aiuto ad uno stregone di nome Erius, che risiedeva presso una antica ed imponente torre situata ? . Questi era un mago non specialista, che però da diverse decadi si era dedicato allo studio delle creature artificiali denominate “Golem”. Egli possedeva una vasta libreria e conoscenze superiori a quelle di Llithoth. Erius decise di prendersi gioco della malvagia elfa, sicuro com’era delle sue arti magiche, e di operare su di lei un incantesimo che, con la scusa di guarirla dal suo male, le sarebbe invece stato fatale. Pensava di utilizzarne alcune parti del corpo per realizzare un golem di carne molto particolare.
    Egli aveva già catturato un altro elfo Drow di nome Thilis, un possente e fiero combattente, e già assaporava il piacere di mescolare i due corpi degli elfi in una unica aberrante creatura al suo servizio.
    Le cose andarono però diversamente da come Erius aveva pianificato: Llithoth non era una sprovveduta come aveva fatto credere al mago e riuscì ad entrare nel laboratorio di quest’ultimo eludendone le particolari difese, magiche e non, e fu qui che scoprì il guerriero Thilis imprigionato in una gabbia.
    Llthoth lo liberò dalla sua prigionia, al resto pensò la sua indescrivibile bellezza: Thilis rimase folgorato da tale splendore, e da allora le offrì il proprio cuore e la propria spada. Llithoth ebbe modo di apprezzare soprattutto i servigi di quest’ultima. Per il resto, Thilis non proferì alcuna parola di ringraziamento, essendo muto dalla nascita.
    I due Drow pensarono di unire le proprie forze per sconfiggere il nemico comune, e la mente di Llithoth elaborò un piano semplice ma che si rivelò di successo. Evocò uno sventurato goblin, con un incantesimo Metamorfosi lo trasformò in un clone di Thilis, lo “charmò” e lo riposizionò nella gabbia.
    Fatto questo fece in modo di trovare un nascondiglio sicuro per il proprio fedele compagno e gli diede un pugnale avvelenato, dopodiché abbandonò la torre, nel più assoluto silenzio.
    La notte successiva Llithoth tornò alla torre di Erius, stavolta per ricevere la miracolosa “cura” promessa dal mago. Non sospettando nulla, Erius la condusse al proprio laboratorio e, mentre si preparava a lanciare il suo letale incantesimo, con lo sguardo colmo di compiaciuta perfidia, alle sue spalle, dall’oscurità, luccicava il bagliore di una lama avvelenata. Le arcane parole dell’incantesimo si interruppero in un rantolo di morte.
    Una terribile sorpresa aspettava però i due complici omicidi: dopo avere eliminato i golem di ronda, mentre Llithoth frugava la biblioteca di Erius in cerca della formula che l’avrebbe liberata dal suo male, il cadavere del mago Erius, rianimatosi, fece irruzione nella stanza attraverso un passaggio segreto.
    Egli era diventato un “Revenant”, un non-morto intelligente votato alla distruzione del proprio assassino.
    I due riuscirono miracolosamente a scappare dalla biblioteca e la fortuna volle che, inseguendoli, Erius cadde vittima di una trappola da egli stesso preparata: il pavimento si “ritirò” sotto i suoi piedi ed egli cadde in una stretta cella senza uscita, dopodiché il soffitto stesso della cella si richiuse imprigionandolo per sempre, senza il suo libro degli incantesimi.
    I due elfi in fuga non si resero conto dell’accaduto ed abbandonarono frettolosamente la torre.
    Llithoth e Thilis non ebbero più il coraggio di tornare per cercare il libro contenente la formula in grado di guarire dalla licantropia.
    Llithoth decise allora di inviare qualcun altro alla torre al suo posto, assoldò una spia in città per individuare un gruppo di avventurieri in grado di compiere l’incursione alla torre e riportare il tomo, dopodiché avrebbe fatto in modo che uno o più di questi contraesse la licantropia, così da spingerli nella ricerca.
    In cambio, ella avrebbe guarito il/i malcapitato/i dalla malattia grazie alle sue capacità magiche. Naturalmente non esiste alcuna possibilità che Llithoth mantenga una promessa, se non ne ha da ricavare qualcosa in cambio.

    2. Epilogo

    I PG dovrebbero essere arrivati fino a questo punto in compagnia del revenant Erius, che continuerà però a mantenere celata la sua vera identità fino al confronto decisivo.
    Questa caverna, a differenza del resto del complesso, è parzialmente illuminata da due candelabri di metallo nero posti ai lati dell’ingresso.
    Una volta giunti nella caverna di Llithoth, essi noteranno le due enormi statue raffiguranti delle vedove nere nell’atto di colpire con le zampe anteriori che sono posizionate ai lati dell’entrata. La luce dei candelabri fa sì che queste vengano illuminate, ed i PG non si accorgeranno immediatamente che si tratta di statue, data la verosimile somiglianza con mostri reali, ma solo dopo pochi istanti.
    Di fronte a loro, in fondo alla stanza, vi è un rudimentale trono fatto anch’esso di metallo nero, sul quale è seduta una figura esile e scura dai lunghi capelli bianchi, che pare sorridere. Nell’oscurità i suoi occhi, denti e capelli bianchi paiono brillare.
    Alla sua destra, in piedi ed immobile come una sentinella, c’è un'altra figura, più robusta, anch’essa completamente nera con i capelli lunghi e bianchi, con una scimitarra nera sguainata, tenuta con entrambe le mani e con la punta appoggiata al suolo.
    Sulle statue dei ragni e sul trono, se venisse illuminato, si vedrebbero brulicare in perenne movimento moltissime vedove nere.
    Vi sono inoltre ragnatele che tappezzano l’intero interno della stanza, ed il rumore dei ragni fa da costante sottofondo a questa zona.
    A questo punto, dopo un attimo di attesa, Llithoth dice con voce mielosa:

    Llithoth: “Venite avanti, che ci si possa vedere meglio. Dobbiamo parlare.”

    Quando i PG si addentrano nella stanza, vedono l’oscura apertura alla loro destra.
    Thilis non toglierà neanche per un istante gli occhi da Erius, mentre Llithoth non farà quasi caso alla presenza di un nuovo elemento nel gruppo.

    Llithoth: “Raccontatemi gli ultimi avvenimenti alla torre di Erius: siete riusciti a salvare qualcosa di utilizzabile nella sua biblioteca, e soprattutto avete rintracciato la formula che porrà fine a questo maleficio?”

    Se i PG affermeranno di no, Llithoth li guarderà indispettita. Poi, riacquisendo la sua flemma, e con un sorriso dolce e perverso, dirà:

    Llithoth: “Dunque avevo mal riposto la mia fiducia, o forse non era davvero possibile recuperare la formula. E’ un vero peccato, ma… francamente vorrei accertarmi che non mi stiate mentendo.”

    Comunque, sia che i PG consegnino il libro senza storie, sia che non lo facciano:

    Llithoth: “Non vi dispiacerà ora se vi presentassi qualcuno ansioso di conoscervi, vero?”

    A questo punto i PG sentiranno distintamente un rumore provenire dall’apertura alla loro destra, come un rantolo pesante ed ansimante, e rumore di piccoli passi molto veloci.
    Dall’apertura entrerà la Drider Sacerdotessa (un centauro-vedova nera gigante, di sesso femminile), con grande orrore dei PG.
    Essa si presenta dalla cintola in su come una femmina elfa drow, completamente nuda, dalla pelle particolarmente vecchia e rugosa, con i capelli bianchi arruffati ed ispidi come setole , lo sguardo spento ed affaticato, la voce simile ad un rantolo di agonia. Dalla cintola in giù il suo corpo è quello di un’enorme vedova nera. Questa visione richiede un check sulla Paura.
    La sacerdotessa di Lloth dirà:

    Drider: “…ahhh…sono queste le creature sui cui cadaveri banchetterà la “Signora dei Ragni”?
    Llithoth: “Come ti avevo promesso, mia cara, ecco il sacrificio per la nostra “Signora”.”

    Se i PG non hanno consegnato la formula, aggiungerà:

    Llithoth: “Stai attenta, però, a non rovinare il loro prezioso equipaggiamento: devo ancora perquisirli.”

    Nel medesimo istante, la vostra attenzione ricade su Thilis, che lancia un afono grido di terrore. I suoi occhi sono sgranati e la bocca spalancata, la pelle, pur nera come la notte, appare più livida e pallida.
    Immediatamente vi accorgete che l’urlo emesso è stato l’ultimo movimento di Thilis, che sembra completamente paralizzato dal terrore.
    Poco davanti a lui vedete la causa di tutto ciò: una creatura dalle fattezze umane, ma dalla pelle cadente a brani, di un colore grigiastro, come carne morta. I capelli sul suo capo sono quasi completamente caduti, ed all’improvviso sentite nell’aria un olezzo di putrefazione.
    I suoi occhi, che fissano Thilis, ardono di un odio indescrivibile, e brillano come candele nell’oscurità.
    La cosa che la vostra mente non riesce ad accettare, è il fatto che abbia addosso i vestiti di Erius, e di lui non vi sia più traccia.
    Anche questa vista richiede ai PG una prova di Orrore.
    Il revenant a questo punto parla, con una voce forzata e cavernosa, ma comprensibile:

    Erius: “Sono tornato, creature della notte… per prendere a voi quello che voi sottraeste a me, per cercare la mia VENDETTA…Io sono morto, ma per voi, miei assassini, la fine sarà TERRIBILE…PREGATE, CON L’ULTIMO RESPIRO CHE VI CONCEDO…

    Dicendo questo, con un urlo inumano, si lancia su Thilis afferrandolo per il collo con entrambe le mani e sollevandolo da terra con estrema facilità.
    A questo punto inizierà il combattimento finale, la Drider Sacerdotessa rianimerà le due statue all’ingresso, dopodiché si lancerà con ferocia sul suo “sacrificio” ( i PG ), Lithoth, che avrà già attivato su di sé l’incantesimo “pelle di pietra”, si lancerà addosso “invisibilità” e svanirà dalla scena, soltanto per raggiungere una posizione più favorevole per poter eventualmente guadagnare l’uscita. Proverà quindi a lanciare “Suggestione” su uno dei PG, cui faranno seguito “Charme Mostri” e “Charme Persone”, finché almeno uno dei PG sarà “charmato”, poi lancerà “Blocca persone” sul gruppo o su chi vada a minacciarla fisicamente, e di seguito “Freccia infuocata” e “Freccia acida di Melf”. Terrà come ultime risorse “Tentacoli Neri di Evard” e “Teletrasporto”. Il primo lo lancerà su Erius nel caso il revenant riesca ad uccidere Thilis, o sul gruppo qualora questi dovessero uccidere la Drider, il secondo lo lancerà su sé stessa nel round successivo ad uno di questi eventi. Si teletrasporterà appena fuori dal complesso di caverne, tramuterà in pipistrello e cercherà di allontanarsi in tutta fretta.
    Thilis dovrebbe rimanere paralizzato dallo sguardo del Revenant per almeno 2 round, dopodiché si difenderà dal mostro usando la sua scimitarra. Sarà molto ferito, ma potrebbe ancora sconfiggere Erius se i PG non lo aiuteranno. Il primo colpo a segno di Thilis dovrebbe tagliare netto un braccio del Revenant, il quale perderà la presa e permetterà all’elfo di rimettere i piedi per terra. Il braccio cadrà per terra, soltanto per rianimarsi e ritornare all’attacco. A questo punto Erius farà solo la metà dei danni, ma il braccio colpirà come un “Crawling Claw”. Se Erius dovesse uccidere Thilis attaccherà immediatamente Lithoth, se presente, con il suo sguardo paralizzante, altrimenti potrebbe aiutare il gruppo se malconcio, ma preferirà rimanere in disparte se non disturbato. In ogni caso Lithoth “non deve” essere paralizzata e deve guadagnare la fuga con il teletrasporto.
    La Drider utilizzerà i suoi incantesimi ed il suo bastone in combattimento; i ragni animati sono degli Huge Spiders ed attaccheranno dal round successivo, esclusivamente su chi minaccia la loro padrona.
    Verosimilmente Erius dovrebbe essere in netto vantaggio su Thilis ed avere la meglio in pochi round e la Drider ed i suoi ragni dovrebbero impegnare i PG, soprattutto grazie al non trascurabile aiuto di Lithoth.
    La situazione alla fine dovrebbe essere questa: Erius rimane vivo, Thilis e la Drider muoiono, Lithoth fugge.












    3. Scena finale

    Quando Lithoth scappa, Erius crolla sulle ginocchia , urlando di angoscia per la fuga della sua preda, e rimane immobile a lungo.
    Si scuoterà solo se un PG gli chiederà di intervenire per aiutare il gruppo, lanciando “Dispel Magic” sui PG “charmati” e lanciando “Ingrandire” sui guerrieri o sui PG più in salute. Se possibile non dovrà interferire nel combattimento.
    Quando il tutto finirà, ritornerà al suo stato di silenziosa disperazione, dicendo solamente:

    Erius: “Quella dannata strega mi è sfuggita, ed io non troverò pace finché non sarà stata distrutta. Prendete queste pergamene, quale premio per il vostro aiuto. Nella prima sono scritte delle preghiere che, recitate nell’ordine, guariranno (nome del personaggio) dalla licantropia. La formula magica non è mai esistita, la magia ordinaria non è in grado di curare questo morbo, ma la preghiera lo può fare.”
    A questo punto Erius spiega come deve avvenire il rituale ( pag.41 della Guida di Van Richten ai Licantropi ).
    Erius:“Nella seconda pergamena vi sono Incantesimi di stregoneria. Ora andatevene da questo luogo di morte. Desidero essere lasciato solo, con il mio dolore.”

    La pergamena contiene gli incantesimi clericali “Espiazione”, “Cura malattie” e “Scaccia maledizione”, utili per curare la licantropia, due incantesimi “Ristorazione” e due “Guarigione”.
    Solitamente questo rituale prevede la riuscita di un tiro salvezza contro Morte, ma in questo caso, siccome uno dei requisiti dell’avventura è che almeno uno dei PG sia un licantropo, il rituale si considera riuscito con successo qualora il chierico riesca a lanciare le 3 preghiere in sequenza senza errori.
    Nella seconda pergamena vi sono 12 incantesimi degli stregoni a caso dal 1° al 6° livello di potere, suddivisi in questo modo: 3 del 1°, 3 del 2°, 2 del 3°, 2 del 4°, 1 del 5° ed 1 del 6°.
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    Idolo di pietra

    Esiste un'antica profezia, tramandata oralmente attraverso i millenni, che parla di una sciagura terribile che sancirà la scomparsa del popolo ?.
    Questa profezia dice che millenni fa gli antenati del popolo ? vennero avvisati dagli Dei Antichi di una entità invisibile che chiamarono semplicemente “Il nemico degli Dei”, che avrebbe sterminato i figli degli ?, corrompendo gli sciamani e la stessa terra ai suoi blasfemi voleri.
    Nel timore di questo terribile nemico mandato contro di loro dal destino, il Re Hotu-Mota, circa 600 anni fa, preparò la sua gente ad una migrazione collettiva verso altre isole lontane ed isolate, nella speranza di poter sfuggire alla propria estinzione. Fu così che gli ? intrapresero un lungo ed estenuante viaggio, a bordo di lunghe canoe di legno, attraverso l’oceano, e così giunsero a ?. L’isola sembrava ideale: aveva vegetazione rigogliosa, cacciagione in abbondanza e mare pescoso; inoltre, era talmente distante da qualsiasi altro posto del mondo conosciuto dai ? da essere chiamata ?, ossia “Il Centro del Mondo”.
    La vita poteva riprendere felicemente per gli ?, quando il vulcano dell’isola si risvegliò e seminò morte tra i ? . La gente era in preda al terrore, temendo fosse opera del “Nemico degli Dei”; apparve allora un uomo, di nome ?, che si disse portatore di un nuovo Dio, “?”, più potente di tutti gli altri antichi Dei, che non temeva neanche il “Nemico degli Dei”. Dapprima furono in pochi a prestar fede al nuovo sciamano, ma il vero sciamano volle rassicurare il proprio popolo della forza degli antichi Dei, e fece scolpire la prima statua protettrice dell’Isola. Questa era una statua raffigurante un volto dalle fattezze vagamente umane, dalle dimensioni enormi (circa 10 m di altezza), che veniva piantata profondamente nel terreno lungo la costa, in modo da essere rivolta verso il mare, e coperta da una grande pietra rossa raffigurante un cappello. Dopo la costruzione della prima statua, lo sciamano del nuovo Dio scomparve, improvvisamente e misteriosamente. Da allora la gente non dovette più temere le ire del vulcano, e tanto fu l’entusiasmo per le ciclopiche statue, chiamate Tikki, che la loro creazione divenne presto l’attività principale di tutti gli ?. Alla morte di un uomo importante del villaggio, il rituale funebre voleva che a lui venisse dedicata una statua, e che lo spirito dei morti riempisse la pietra per proteggere i vivi. I resti di queste persone venivano sepolti sottoterra, ai piedi della statua stessa. Alla morte dello sciamano, a lui fu dedicata la prima e più imponente statua.
    Passarono i secoli, e la gente di ?, lentamente, perse di vista tanto lo scopo della realizzazione delle statue, quanto gli incantesimi protettivi che venivano lanciati sulle stesse dagli antichi sciamani. Si formarono due distinte classi sociali, quella dei “Lunghi-orecchi”, i nobili, e quella dei “Corti-orecchi”, i popolani. I Lunghi-orecchi non partecipavano alla costruzione delle statue né alle attività atte a procacciare il cibo per il villaggio, e nonostante fossero molti meno dei Corti-orecchi, tenevano per sé più della metà del cibo e di quanto di prezioso esistesse. Quando i Corti-orecchi si ribellarono, i Lunghi-orecchi, che avevano i guerrieri ai loro ordini, ricacciarono la ribellione nel sangue e resero i Corti-orecchi loro schiavi. Gli animi non furono però sedati, e l’odio dei Corti-orecchi non fece che aumentare. Inoltre, i frutti della natura divennero velenosi e anche gli animali della jungla che dagli alberi traevano nutrimento perirono. La fame si diffuse tra la popolazione, ma i Lunghi-orecchi non si curarono delle richieste dei Corti-orecchi di distribuire il cibo ed interrompere la fabbricazione di statue, non rendendosi conto del grande pericolo cui tutti andavano incontro.
    La situazione sfociò in una sanguinosa guerra civile, che vide il massacro di centinaia di uomini, ed il rapido diffondersi del cannibalismo.
    Il capo dei Corti-orecchi incitava la gente alla lotta al grido: “Se non c’è più carne di cui nutrirci sull’isola, loro (i Lunghi-orecchi) saranno la nostra carne!”
    Questa è la storia del popolo dell'isola, e la situazione nel momento in cui gli avventurieri vi giungono.

    Nel caso in cui qualcuno voglia sviluppare un racconto basandosi su questo prologo abbozzato. L'idea era di farne un'avventura per D&D in un'ambientazione horror-gotica, ma anche esotica, per cui l'ambientazione si colloca su un'isola misteriosa popolata da selvaggi, che da vari elementi si capisce sia l'Isola di Pasqua. Gli elementi horror sono rappresentati, ad esempio, dal cannibalismo, e i cannibali potrebbero essere diventati ghoul o altri mostruosi umani degenerati come da tradizione dei rpg fantasy, oppure potrebbe esserci dei cultisti degli antichi dei e del "Nemico degli Dei", che potrebbe riallacciarsi al ciclo di Chtulhu, e quindi con invocazioni a qualche Grande Antico, o cose del genere, ecc.
    Per chi avesse idee più originali di queste, o volesse comunque cimentarsi con l'intreccio, la creazione degli ambienti e dei personaggi e quant'altro, non esiti a fare proposte, nonché a trasformare questa trama, anzi questo prologo, in un racconto vero e proprio.
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    Ciao,
    "posto" in allegato un numero di rivista che ho redatto, ma non pubblicato, ove raccolgo un po' di miei scritti ma che ha principalmente l'obbiettivo di mostrare i miei dipinti, che descrivo approfondendo l'argomento e il soggetto cui si ispirano. Di alcuni di questi argomenti, penso di poterne trarre un articolo o trattatello, da scrivere a parte rispetto alla presentazione delle opere.
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    Trama

    La vicenda si svolge a ****, una cittadina situata in un'isola del Pacifico; nell'isola in questione c'è un altro centro abitato, alquanto distante da ****, e l'unica via di comunicazione tra queste cittadine è costituita da una strada asfaltata che percorre l'intera lunghezza dell'isola. **** è un rinomato centro di villeggiatura molto frequentato durante la bella stagione, allorché le strade cittadine si animano di gente e di insegne luminose e si diffonde un allettante profumo di cucina di mare proveniente dai ristoranti sparsi per le vie; ma sono principalmente le spiagge, caratterizzate da sabbia fine e da uno splendido mare dai riflessi turchesi, a costituire il motivo per il quale molte persone vi si recano per trascorrere un periodo di svago e relax. Per il resto dell'anno la vita su **** prosegue tranquillamente: pochi sono i turisti ancora presenti sull'isola al termine dell'estate, scoraggiati dal relativo isolamento e dal clima, che diventa presto ventoso e sovente disturbato da violente precipitazioni. Per lo più chi rimane sull'isola sono i pescatori e quei pochi abitanti stabili, spesso discendenti dei primi abitanti che, secoli addietro, occuparono l'isola per farne un rifugio sicuro, un luogo di sosta durante le peregrinazioni attraverso i mari, o per meglio dire tra una scorreria e l'altra, trattandosi quasi esclusivamente di pirati. Si erge tuttora, non molto distante dal porto, una costruzione fortificata risalente al suddetto periodo, al cui interno è stato allestito l'unico museo esistente a ****.
    Accade che, in seguito ad un inatteso quanto violento nubifragio, proprio al termine dell'estate, la strada risulti impraticabile e le vie marine piuttosto pericolose per la navigazione a causa del mare burrascoso, isolando temporaneamente **** dalla terraferma e dall'altro centro abitato. Il panico si diffonde sull'isola, in quanto i canali radio, solitamente utilizzati per le comunicazioni in casi del genere, sono fortemente disturbati; la popolazione locale si trova in seria difficoltà, non riuscendo a contattare le stazioni di soccorso, dovendo perciò far fronte all'emergenza con mezzi di fortuna.
    Quando, però, gli organismi locali sembrano aver trovato il bandolo della matassa e la situazione sembra essersi rasserenata, avviene l'imprevisto, costituito dal sopraggiungere di una squadriglia di uomini con un abbigliamento di tipo militare ma decisamente differente da quello utilizzato da qualsiasi forza armata terrestre. Inizialmente pare che questi individui poco raccomandabili vogliano prestare soccorso, ma ben presto appare chiaro che lo scopo della loro missione è di soggiogare gli abitanti di **** e di condurli con sé in un luogo sconosciuto. Essi, pur essendo ridotti in numero, avvalendosi di armi molto efficaci riescono con facilità ad avere la meglio sui cittadini, una cinquantina di persone in tutto, che sono stipati all'interno del forte-museo e sorvegliati costantemente, nonché sottoposti a loschi trattamenti che sembrano volerne testare le condizioni fisiche e le attitudini. Al termine del suddetto periodo di test, gli stranieri applicano ad alcuni, presumibilmente basandosi sui risultati del test stesso, un ulteriore trattamento di carattere, potremmo dire, medico, somministrando loro delle sostanze sconosciute, così come si farebbe nei confronti di capi di bestiame.
    Evidentemente ????, il protagonista della vicenda, essendo ancora abbastanza giovane è ritenuto idoneo a ricevere questa profilassi, gli effetti della quale non tardano molto a presentarsi, inizialmente sottoforma di leggeri malesseri fisici, ma successivamente, in alcuni casi, di dolori lancinanti al punto che, per questi soggetti, si ricorre a metodi di immobilizzazione; è chiaro, inoltre, che costoro stiano anche perdendo il lume della ragione, forse come conseguenza indiretta dei dolori indotti, ma più probabilmente come esito desiderato. ???? è uno di coloro che reagiscono meglio: arriva anch'egli quasi sul punto di impazzire, ma, con sua grande meraviglia, si rimette in sesto ottimamente ed in breve tempo, sentendo anzi che in lui è avvenuto un qualche inspiegabile cambiamento, quasi che quel supplizio gli abbia, in realtà, giovato.
    Questi stranieri, così simili ad umani normali, sono in realtà appartenenti ad una razza aliena che ha fatto della Terra, da tempo immemorabile, la propria fonte di reclutamento di nuove creature allo scopo di utilizzarle come schiavi, almeno inizialmente, ma anche per rinfoltire le proprie fila, trattandosi di creature non in grado di riprodursi autonomamente. Il che sembrerebbe alquanto strano: come avrebbe potuto una razza proliferare fino a raggiungere un alto livello tecnologico, certo superiore a quello degli abitanti della Terra, senza avere la capacità di riprodursi, dovendo anzi cercare creature adatte in altri mondi e sottoponendole a quei trattamenti necessari per permettergli di sopravvivere in ambienti diversi da quello terrestre, per renderle simili agli alieni stessi, o forse addirittura uguali ad essi?
    Questi alieni portano un primo gruppo di terrestri "modificati" all'interno di una strana macchina, simile ad una stanza dalle pareti tondeggianti che, una volta azionata, produce un'energia multicolore, una sorta di aura dall'aspetto vagamente gelatinoso, per poi essere nuovamente riassorbita all'interno del macchinario con un lampo di colore scuro. Si tratta di un mezzo per il trasferimento degli esseri dalla Terra al mondo di provenienza degli alieni, ovunque esso si trovi.
    ????, insieme ad una sua amica e ad un ex professore, riesce ad avere la meglio su una delle guardie e, dopo averla interrogata, a sfuggire nell'unico modo che sembra possibile, ossia attraverso la macchina stessa, che è in realtà un mezzo adibito al trasferimento spazio-temporale; il gruppetto in questione riesce ad azionare la diabolica macchina-stanza e si ritrova, al termine del viaggio spazio-temporale, in una terra pressoché disabitata e priva di presenza umanoide, che però l'alieno riconosce come la propria terra, probabilmente in un'epoca antecedente alla formazione della propria progredita civiltà. La cosa più sorprendente è, però, che il gruppetto di esploratori non trova altri abitanti, nemmeno ad uno stadio di civiltà meno evoluto. Non rimane loro che cercare di adattarsi a quel nuovo mondo, e poco alla volta, dopo alcuni periodi di nomadismo, riescono a creare un avamposto stabile, a riconoscere le creature pericolose e come difendersi da esse, a catturare animali e raccogliere i vegetali ed i frutti commestibili; arrivano fino al punto di allevare un animale, delle dimensioni di un grosso lupo ma con un aspetto tarchiato e lunghe zanne suine, per utilizzarlo come aiutante nella caccia e per la difesa personale, nonché a coltivare alcune piante simili a tuberi. Non li abbandona mai, però, la nostalgia della Terra, ed all'alieno similmente manca la propria patria così come la ricorda; dopo vari tentativi infruttuosi, alcuni anni dopo l'arrivo su quel pianeta primordiale, tentano nuovamente di utilizzare la macchina-stanza, che ha anche capacità semoventi ed è perciò divenuta la loro "casa" mobile, per viaggiare nello spazio-tempo. Riescono, pur non avendo padronanza sugli strumenti di navigazione, più o meno casualmente a raggiungere nuovamente la Terra, ma non nel periodo e nel luogo che avrebbero desiderato; inoltre, gli umani si accorgono che la loro fisiologia, nel frattempo completamente mutata in quella aliena, non gli consente più di sostare per lunghi periodi nell'atmosfera terrestre, né di nutrirsi dei cibi terrestri se non in seguito a particolari accorgimenti dei quali, fortunatamente, l'alieno, divenuto nel frattempo loro compagno, è piuttosto esperto. E' così che, una volta riusciti a comprendere, con l'aiuto del loro compagno alieno, in che maniera far uso di quelle medesime sostanze con le quali, un tempo, furono a loro volta trasformati in ciò che sono adesso, e delle quali la dispensa della macchina-stanza semovente è ancora molto ben fornita, cominciano a pensare di utilizzarle per acquisire nuovi "compagni" da portare con sé per aumentare le proprie probabilità di sopravvivenza nell'unico habitat nel quale, ormai, sono in grado di vivere, ossia nel nuovo mondo, ancora per lo più sconosciuto e denso di misteri.
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    La città perduta

    “Questa isola era più grande della Libia e dell'Asia insieme; da lì il passaggio verso le altre isole era possibile ai navigatori di allora, e da queste all'intero continente di fronte che circonda questo mare remoto, mare autentico (…) Dunque, in questa isola Atlantide, si formò una potente e meravigliosa stirpe di re; essa dominò l'isola intera e molte altre isole e parti del continente; inoltre, da questo punto dello stretto, essa regnò sulla Libia quasi fino all'Egitto, e sull'Europa fino al Tirreno”. Platone, Timeo

    Prologo

    La luce lo infastidiva; entrava da quelle fessure tra le persiane, filtrava tra le vecchie tende e lo riportava crudamente al mondo della coscienza. Lui si rigirava, cercando di assaporare il tempo del riposo, ancora insoddisfatto. Quel fastidio lo rendeva, istante dopo istante, più nervoso, e mentre i pensieri cominciavano a concretizzarsi e ad abbandonare lo stato onirico, per allinearsi agli schemi consueti della realtà, i suoi movimenti si ribellavano, combattevano quella situazione. Come fosse un accidente imprevisto, una sconvolgente violenza verso la sua persona, una tortura ingiusta e imposta con prepotenza. Alla fine, come una forma di reazione estrema, i suoi occhi si aprirono del tutto, e nel farlo cedevano al proprio avversario, cadendo nella trappola. Testa e occhi sembravano sostenere il peso di molte notti di veglia, ma non era così. Il primo pensiero fu di restare ancora nel letto, di cercare sollievo per il suo malessere, ma il sonno aveva già perso le sue proprietà rigeneranti. Qualche minuto ancora, e con un movimento rapido abbandonò il suo proposito e si sollevò.
    Qualche passo nella stanza, una rapida occhiata intorno a sé come a inquadrare la situazione, e si diresse verso il bagno. Il rumore incostante della doccia scosse per qualche minuto il silenzio di quel mattino d'estate. Poi uscì dal bagno, aprì un cassetto in basso nell'unico armadio e prese un paio di mutande pulite. Preparò una caffettiera e mangiò una fetta di crostata, in attesa del caffè. Accese la Tv e si sintonizzò su un Tg. Le notizie le conosceva già, niente di nuovo.
    Fece colazione, dopodiché accese il Pc per controllare la posta. Un messaggio di ****. Aprì lievemente le labbra, fissò per un istante lo schermo, fece un respiro profondo e cliccò sul messaggio.
    Lesse: «Ho meditato sul tuo quesito. La tua attesa sarà presto ripagata. Troverai la tua risposta. Ascolta le mie parole: non indugiare, segui il cammino che è scritto per te, e la tua mente diverrà lucida, il tuo pensiero chiaro. Il tuo spirito diverrà vasto e forte; il cuore, pago delle cose del mondo, sarà una fortezza inespugnabile. Ma ogni percorso deve essere guidato, segnalato, e tu ancora non sai cosa fare, dove andare, né da dove cominciare questo viaggio meraviglioso. Ebbene, esso comincia adesso. Te ne renderai conto, caro amico, dal profumo dell'aria, dall'infinita forma della bellezza, che ti sconvolgerà».
    E allora? Cosa voleva dire? Cos'è che doveva fare? Non capiva, aveva immaginato rivelazioni, consigli, indicazioni precise, aveva atteso settimane questa mail, e ora ne era profondamente deluso. Possibile che non ci fosse altro? Un momento: forse che lui, nella sua pochezza e superficialità, non si rendesse conto di quanto in realtà si celava dietro queste poche, all'apparenza insignificanti, parole?
    Rilesse quel breve scritto, lo rilesse di nuovo, cercando di concentrarsi; ma no, questo cammino "scritto per lui", che avrebbe dovuto dargli lucidità e chiarezza, non si capiva quale avrebbe dovuto essere, che strada avrebbe dovuto prendere, che cosa avrebbe dovuto fare. Il viaggio cominciava adesso, diceva ****, ma come, se lui non ne sapeva niente di più di quando si era alzato, quella mattina?
    Un momento, un'indicazione c'era, forse. Diceva: «te ne renderai conto dal profumo dell'aria, dall'infinita forma della bellezza, che ti sconvolgerà».
    Allora sarebbe accaduto qualcosa di nuovo, di infinitamente bello e sconvolgente, per segnalargli la nuova via da seguire. Certo, doveva aspettare un segnale, e allora forse tutto gli sarebbe apparso più chiaro. Ok, un segnale. Di che tipo non lo sapeva, non riusciva nemmeno a immaginarlo, ma sarebbe stato certo evidente, inconfondibile, perché così diceva il messaggio avrebbe dovuto sconvolgerlo con la sua bellezza. Infinita, per giunta.
    «Va bene, allora si tratta solo di attendere, e infine farò la mia scoperta» disse, parlando tra sé e sé, come spesso faceva quando, in solitudine, voleva darsi un ordine.
    Nel frattempo doveva andare avanti normalmente, senza forzare la situazione. Eh, già! Ché se avesse fatto qualcosa di insolito o affrettato, chissà perché, immaginava che quel fatto straordinario non si sarebbe verificato. Doveva assolutamente essere paziente e restare concentrato, stare molto attento ai particolari. «Perché» disse con parole di **** «la verità ama essere scoperta, non si palesa mai a chi non osserva nel modo giusto».
    Quindi, con questa convinzione, si mise al lavoro, di buona lena; doveva ultimare la revisione della biografia di quel famoso attore: il suo editore gli sollecitava la consegna già da martedì.
    Il cellulare si mise a squillare. Lo prese e lesse il nome che compariva sul display: era proprio Giacomo, il suo editore.
    «Ciao! » disse Paolo «Sono alla fine, aguzzino. Te lo consegno entro stasera».
    «Ah, ok! Alla buon'ora! Guarda che il cliente ha già chiamato e pretende di leggerlo in prima persona. Mi sono negato, per ora, ma non posso rimandare oltre domani, se no quello è capace anche di bloccarci il pagamento. Hai fatto un buon lavoro?».
    «Così, così! Mi conosci, non do il massimo quando sono costretto a scrivere cose in cui non credo, e in questo caso la richiesta, converrai, era a dir poco di cattivo gusto. Quel tipo è una "primadonna", tutto fumo e niente arrosto. E ha preteso che descrivessi la sua vita come una favola, e lui come un "principe azzurro". Da voltar di stomaco. Ma adesso è fatta, e spero di non doverci rimettere mano. Lavori come questo fanno male alla mia carriera. Ho più volte pensato di cambiar mestiere, mentre ci lavoravo, sai?».
    «Ah, questa l'ho sentita già troppe volte per temere che tu faccia sul serio, Paolo. Ti capisco, se ti può essere di qualche conforto, ma sai bene che non si lavora per la gloria, quando si fa il Ghost Writer. E poi, guarda il lato positivo: qualsiasi cosa tu abbia scritto, il tuo nome non comparirà mai da nessuna parte. La tua carriera è salva anche stavolta».
    «Ma come mi sento meglio, grazie davvero!».
    «Senti, intanto volevo dirti di tenerti caldo, perché ho un altro lavoro tra le mani che sembra fatto su misura per te. C'è questa tizia che ci ha chiesto di mettere “in bella” il diario personale di suo padre, per farne un libro di memorie».
    «Ma allora andiamo di bene in meglio!” disse, eufemisticamente, Paolo “E dimmi un po', quando mi toccherà scrivere la biografia di un ****, con rispetto parlando?».
    «Ma dai, che non è così strano, in fondo: il tizio si chiama Steiner ed è stato a lungo Ordinario dell'Università di Praga; poi, in età avanzata, ha deciso di girare il mondo alla ricerca di tesori del passato. Ha inseguito i suoi sogni, in pratica. Un po' matto, forse, ma a me è simpatico. O meglio, era, visto che è morto in Giamaica circa tre anni fa».
    «Giamaica, eh? Hai capito il vecchietto? Adesso che me l'hai detto, sta simpatico pure a me, guarda. Ci sarà da divertirsi, allora».
    «Va beh, senti, sia come sia ti lascio in pace, se no il lavoro per domani non lo finisci più. Quando hai finito, mandami il materiale, e poi passa al più presto in sede, ché ti consegno il manoscritto. Se dovessi aver bisogno di interloquire con la figlia del professore, farò in modo di organizzarti un incontro. Alla prossima, ciao».
    «Ciao, Giacomo». 

    Capitolo I

    Valeva la pena di visitare il mercato di Bahia, pensava euforico Sandro, mentre passava, lentamente, tra le bancarelle affollate, girandosi a ogni voce, ascoltando pezzi di frasi nello svolgersi dei traffici di tutti i giorni. Era contento di essere lì in mezzo, in quel groviglio di esseri belli e veri, che parlano a voce alta del prezzo dei **** , della ricetta migliore da fare con ****, di questo tizio che dice questo e quello e di quello che ha fatto un gran gol e deve giocare nella Seleçao al posto di quell’altro, quello grasso che non corre. Movimenti, gesti, voci e facce, profumi e odori, rumori e colori. Quella era la gente del Brasile, della “Roma Nera”, quella gente che lui voleva incontrare, il nuovo mondo che voleva scoprire, dalla cui energia e vitalità voleva farsi contagiare. Si voleva immergere in quella città di santi, per farsi battezzare a nuova vita. Stanco della vecchia, evidentemente, tra uffici, conti, elettronica e pubblicità, inquinamento e falsità. Sandro aveva idealizzato la cultura brasiliana, e vedeva quel paese come la terra promessa, e quel viaggio come un sogno a occhi aperti. Forse il giovane aveva, senza nulla togliere alla bellezza vera e incomparabile del Brasile, lavorato un po’ troppo di fantasia, ma poco importa, perché adesso era lì, in carne e ossa, e avrebbe avuto modo di verificare le sue aspettative nella realtà. C’era una gran luce, sul suo volto.
    Anche agli occhi del più distratto degli osservatori, Sandro appariva diverso dai locali, nonostante la sua pelle nera, ed era evidente il suo stato di straniero e di turista. Per quello, comunque, non era il solo. I turisti sono una minoranza di entità non trascurabile, all’interno della comunità bahiana.
    All’improvviso, e nonostante il marasma dei suoni e delle voci, si accorse di un suono distinto e particolare, secco e metallico, ritmato, proveniente da dietro alcune bancarelle di frutta esotica. La curiosità, la voglia di scoprire tutto ciò che il posto avesse da offrire, ma forse anche un qualche desiderio istintivo, lo portarono in direzione di quel suono, che aveva un sapore antico e sembrava tintinnargli direttamente nella testa, e dalla testa passargli nelle gambe con un fremito. Quando ebbe superato la folla che gli si frapponeva, e le bancarelle, si accorse con sorpresa che quel suono, e con esso quella strana sensazione, si erano interrotti, erano finiti, e le voci e i rumori del mercato avevano assorbito quella breve esperienza. Di fronte a lui, a pochi passi, c’era un vecchio nago, che dormiva come un bambino su una stuoia, come se il caos intorno fosse solo un suono fievole e rasserenante. Vicino al vecchio, per terra, uno strano oggetto, costituito da un’asta di legno curvata ad arco, con un filo metallico fissato a mo' di corda, e una zucca bucata, legata in prossimità di una delle estremità dell’asta. Intuì la natura musicale dell’oggetto. Ne rimase talmente affascinato da volerlo sentire all’opera. Chiamò il vecchio, a bassa voce, ma questi non si mosse. Allora alzò la voce e gli si avvicinò, ma niente da fare nemmeno così. Il vecchio russava forte, e aveva bisogno di un bagno. L’alito da cachaçeiro lo convinse che sarebbe stato inutile insistere. Un po’ contrariato e stupito per quel sonno così pesante, Sandro volle assolutamente far suo lo strumento: in un attimo prese diverse banconote, non fu avaro, le mise tra le mani molli del vecchio, che strinse sul denaro, e con l’oggetto in pugno si girò e se ne andò deciso.
    Con lo strumento in mano si allontanò dal mercato, a passo spedito. Era stato improvvisamente colto da un senso di inquietudine, e un paio di volte gli balenò il pensiero di ritornare sui propri passi e di restituire l’oggetto sottratto. Si trattenne dal farlo, e anche se razionalmente si ripeteva di aver ripagato il vecchio profumatamente, di aver acquistato alla fine abbastanza “onestamente” lo strumento, il pensiero di non aver fatto un bel gesto, di essere stato in sostanza qualcosa di simile a un ladro, non lo abbandonava del tutto. Se solo il vecchio mendicante, perché alla fine di quello si trattava, si fosse svegliato, se avesse bevuto meno pinga, avrebbe concluso la trattativa nel modo consueto. Ma lui, no, se ne stava lì, semi-svenuto per i fumi dell’alcol. Alla fine non avrebbe certo rifiutato tutti quei soldi, no? E dunque andava bene così, è andata bene anche al vecchio, via! Anzi, adesso Sandro immaginava di aver compiuto un gesto caritatevole, e chissà che bella sorpresa per quel povero nago, trovarsi tutto quel denaro in mano, al risveglio? Gli sembrerà di sognare! Ma... e se poi li spendesse tutti in pinga? O peggio, se lo derubassero, mentre ancora dorme? Beh, adesso chi fa una buona azione non può certo pensare a tutte le disgrazie che possono capitare e che rovinerebbero il suo bel gesto. Alla fine le intenzioni erano buone, non si può certo prevedere il futuro. Pensando così, si rincuorò e prese la strada che lo avrebbe riportato all’albergo in cui alloggiava.
    Giunto all'albergo, il portiere meticcio gli sorrise cordialmente, notando lo strumento che teneva in mano, e lo apostrofò in questo modo:
    «Signore, se avessi saputo che le interessavano i berimbau, gliene avrei trovato io uno dipinto, molto più bello di quello lì. E' talmente malmesso che sembra già un miracolo che possa ancora suonare.» «Ah, si chiama berimbau, questo strumento?” domandò Sandro “Si figuri che neanche lo sapevo, l'ho comprato perché mi incuriosiva. E come si suona?».
    «Lasci fare a me» disse il portiere: prese lo strumento, l'archetto o baqueta e il caxixi, li impugnò e cominciò a tocar con evidente maestria. A un certo punto si fermò, di colpo, e si mise a rigirare tra le dita il dobrao, la pietra utilizzata per tendere la corda del berimbau, con fare meditabondo. Sollevò lo sguardo fino a incrociare quello di Sandro. Si era fatto serio e inespressivo. Dopo un breve istante di esitazione, il meticcio gli restituì tutta la strumentazione, senza proferire ulteriori parole.
    Sandro non comprese un simile cambiamento di atteggiamento nei suoi confronti; pensò di aver fatto qualcosa di sconveniente, senza essersene reso conto. Si allontanò, continuando a fissare il portiere, ed entrò nella Hall. Giunto nell'intimità della sua stanza, appoggiò tutti gli oggetti sul letto, per osservarli con maggior attenzione. «Il portiere si è fermato di colpo,» pensava «perché qualcosa ha attratto la sua attenzione.» Forse aveva compreso che lui, quello strumento, l'aveva “prelevato” in maniera non proprio ortodossa? E come avrebbe potuto saperlo? Osservò allora il dobrao, e vide che in effetti presentava, inciso sopra una delle due facce, un disegno alquanto singolare: un cerchio con ramificazioni interne molto complesse, dei simboli strani intorno al cerchio, altri tratti che lo spezzavano in due punti diversi. Lo osservò a lungo, cercando di trovare una somiglianza con qualcosa di conosciuto, e ne dedusse che il cerchio, con tutti quegli intricati percorsi interni, si avvicinava molto alla forma di un labirinto. I due tratti che spezzavano il perimetro del cerchio, avrebbero potuto benissimo essere aperture. Passaggi. Già, se veramente si fosse trattato di un labirinto, ma in fondo, via, era una conclusione poco verosimile, visto che non aveva mai sentito parlare di labirinti, né a Bahia, né nell'intero Brasile. Non gli tornava proprio. Doveva invece trattarsi di una semplice immagine astratta, e niente di più. Dimenticò le proprie elucubrazioni, e si accinse ad armeggiare con la macchina fotografica.


    Capitolo II

    La lettura del diario del Prof. Steiner era stata, alla fin fine, meno ostica e penosa del previsto e Paolo, ritenendo di averne compreso a sufficienza i contenuti, pensava di poter svolgere abbastanza tranquillamente il compito assegnatogli. Certo, parecchi passaggi erano alquanto vaneggianti e contorti, come doveva essere, all'epoca in cui erano stati concepiti, il modo di ragionare del Professore. L'idea che si era fatto di lui era di un uomo di scienza d'altri tempi, indagatore dell'ignoto e vero pioniere, più che di un accademico tout court. Quasi un Ulisse o un Dr. Livingstone moderno, cui i limiti del conoscibile andavano piuttosto stretti, ardente e pieno di entusiasmo come un giovane esploratore. Un po' sfortunato, giudicò Paolo, per aver vissuto in un'epoca in cui figure come la sua non sono più così popolari e il cui valore non è più universalmente riconosciuto come avveniva fino a circa uno o due secoli fa. In ogni caso, a causa della sua età non più verde, molti dei fatti narrati erano in realtà elaborazioni successive basate sui rapporti ricevuti dagli uomini del suo team. Steiner, infatti, non prendeva direttamente parte alle azioni più audaci, come ad esempio scalare montagne alla ricerca del tempio Maya di turno, attraversare intricatissimi tratti di foresta vergine o ancora esplorare le profondità marine in cerca di qualche segno del passaggio dell'uomo.
    Forse, chissà, proprio questa sua difficoltà a partecipare alle azioni più importanti, quando si era ormai prossimi ad eventi determinanti, fu la causa della sua notevole collezione di insuccessi. Poche, infatti, furono le ricompense ottenute rispetto agli sforzi profusi: i resti di una statuetta di bronzo raffigurante presumibilmente una figura umana, trovata nei pressi della costa di una piccola isola caraibica, praticamente uno scoglio, e i probabili resti di una fortificazione rinvenuti in un terrapieno su un'altra isola sperduta e dimenticata dalle carte di navigazione, questa volta al largo del Pacifico.
    Scoperte che però, a dire di Steiner, avrebbero avuto un'importanza enorme per avvalorare la tesi di partenza di tutte le sue ricerche: l'esistenza di antichissime ed evolute civiltà, diffuse sia nell'Oceano Atlantico, che nell'Oceano Pacifico, già sviluppate e affermate in un'epoca in cui l'Egitto stesso muoveva ancora i primi passi per uscire dalla preistoria.
    Teoria affascinante, senza dubbio, ma indubbiamente la teoria di un visionario, agli occhi di Paolo. Il Professore cercava prove dell'esistenza di Atlantide, nientemeno. Fu infatti screditato in tutti gli ambienti scientifici che contavano, e anche le associazioni e gli studiosi che, invece, condividevano le medesime utopie di Steiner, alla fine, lo isolarono. Tanto più che neanche quelle uniche, ma importanti, scoperte poterono essere fornite a riprova delle sue tesi, in quanto il bronzetto sparì giorni dopo la scoperta, insieme a un suo stretto collaboratore, e dell'isola nel Pacifico in cui venne rinvenuta la costruzione fortificata non fu trovata traccia. Grande fu lo scherno e la perdita di credibilità che dovette subire il Professore, ma egli, non domo, cercò ancora di organizzare una spedizione per battere nuovamente le medesime piste, quando un infarto fulminante lo colse in una bettola giamaicana, interrompendo recisamente i suoi piani di rivalsa.
    Questi erano, grossomodo, i fatti narrati nel manoscritto.
    Comunque, pioniere e scienziato illustre oppure matto e truffatore che fosse il povero Steiner, rifletteva Paolo, il lavoro pareva più interessante del previsto: avrebbe potuto dar sfogo alla sua vena creativa, infarcendo la trama di episodi romanzeschi. Sì, finalmente Giacomo gli aveva assegnato un lavoro cui era possibile appassionarsi, dopotutto.
    Ah, ma perché non procurarsi anche gli articoli pubblicati in seguito, dal Professore e dai suoi detrattori, per trarne spunto e descrivere più in dettaglio le teorie dell'uno e le confutazioni degli altri? Più che sulle azioni vere e proprie, avrebbe potuto incentrare l'attenzione dei lettori sul dibattito scientifico, su quell'appassionante contesa all'ultimo articolo. Ne avrebbe parlato con Giacomo e con la cliente.
    “Il Prof. Steiner, mio padre o alla ricerca di Mu, il 'Mondo Perduto'”, scritto, ma non firmato, da Paolo, come vuole la deontologia della sua professione, era già diventato il suo lavoro di maggior successo editoriale. Non che le vendite gli avessero procurato alcun beneficio economico aggiuntivo, perché percepiva dal suo editore solo il compenso pattuito contrattualmente, ma la cosa non lo lasciava comunque indifferente. Gli dava una certa soddisfazione e gli riaccendeva il desiderio di lavorare a un romanzo proprio, di fare il grande salto. Magari Giacomo l'avrebbe appoggiato in questo progetto, ora che le cose stavano andando bene. Ma no, a pensarci bene, era inutile illudersi: a Giacomo non serviva un altro scrittore vero, era assai più contento di poter contare su lui e sul suo lavoro per far soldi senza tanti problemi, senza dovergli per forza ritoccare il contratto, né dividere i ricavi. E poi, a lui i Ghost Writer bravi servivano come il pane, per cui non poteva contare sul suo aiuto. Pazienza, avrebbe prima o poi trovato il modo di realizzare il suo desiderio, l'importante era continuare a lavorare bene e farsi un nome tra gli addetti ai lavori. E, ovviamente, produrre un'opera prima degna di quel nome.
    Erano poi saltati fuori altri documenti interessanti, fotografie che mostravano uno Steiner raggiante vicino alle sue scoperte: la statuetta, che peraltro ricordava molto un bronzetto sardo, e i resti di quelle mura affioranti dal suolo, che Steiner diceva si trovassero su un'isola del Pacifico, mai più rintracciata.
    Perfino quelle foto, però, non rappresentavano prove concrete e tangibili circa la veridicità delle sue affermazioni e imprese, in quanto poteva benissimo trattarsi di falsi; ciononostante, il libro di Paolo, una vera e propria apologia del Professore, descriveva tutti quegli elementi come degni di piena rilevanza scientifica.
    A ben pensarci, ragionò Paolo, perché non sfruttare la curiosità derivata da quel lavoro anche per scopi personali, cavalcandone l'onda con un romanzo incentrato proprio su quella perduta civiltà? Avrebbe potuto essere quello, l'argomento della sua opera prima. Aveva adesso acquisito una certa competenza sull'argomento, che avrebbe potuto facilmente ampliare leggendo altri trattati storici e scientifici, o presunti tali. La letteratura inerente la materia, da cui trarre spunto, non mancava, e al resto avrebbe provveduto la sua vena creativa. Sì, non era davvero una malvagia idea: un romanzo fantasy basato su dati e ipotesi storiche reali.
    Il problema era però di trovare il tempo da dedicare a quel progetto, perché il lavoro per la casa editrice non conosceva soste. Paolo era altresì un uomo dotato di spirito creativo, passionale benché riservato, e tutte le volte che la Musa gli aveva concesso il privilegio di donargli la giusta ispirazione, l'aveva sempre accolta con smodato entusiasmo, lanciandosi a capofitto nell'"impresa" che, di volta in volta, l'aveva coinvolto. Non era stato mai molto fortunato, però: vuoi perché troppo timoroso oppure per la congenita disorganizzazione che toccava tutti gli aspetti della sua vita, tutte le volte in cui si era lanciato in qualcosa, che si trattasse di un progetto di lavoro o di natura privata, a un certo punto gli era sempre venuto a mancare lo slancio finale, la determinazione necessaria per raggiungere lo scopo.
    Ad ogni modo, anche questa volta cominciò con fervore a immaginare vicende, personaggi, ambientazioni, a procurarsi e divorare libri su libri, ad appuntarsi spunti e idee; ma anche questa volta l'inconveniente era dietro l'angolo, a tarpare le sue ali di albatro letterario, nella forma infida di un altro lavoro urgente e potenzialmente molto remunerativo: la biografia di un famoso calciatore.
    Possibile che per lui non dovesse arrivare mai l'occasione di diventare un vero scrittore, uno che firma quel che scrive e decide autonomamente di cosa scrivere? Proprio ora che pensava davvero di potercela fare, di essere vicino alla tanto agognata "svolta". Questa volta, però, voleva riuscire a tutti i costi; avrebbe forse rischiato di fare un lavoro mediocre per l'editore, ma alla fine il suo libro, con la sua firma, avrebbe avuto un posto sugli scaffali delle librerie!
    Non fu così; o meglio, il libro fu sì pubblicato, ma a puntate su una rivista mensile. Niente di nuovo, quindi: la strada era ancora lunga e in salita.
    Una sera, controllando la posta elettronica, Paolo trovò un messaggio da parte di una certa Elena di Roma che gli esprimeva il proprio apprezzamento per le idee originali introdotte nel romanzo. Anch'essa interessata all'argomento, su cui stava redigendo una tesi di laurea, gli chiedeva un incontro per discutere insieme delle sue fonti d'ispirazione, all'origine di un lavoro di ricostruzione del mondo atlantico tanto fantasioso e accurato, a suo dire, da poterne trarre una nuova ipotesi, non meno valida delle altre già circolanti tra gli addetti ai lavori.
    A Paolo, ovviamente, la cosa fece molto piacere, tanto che iniziò una corrispondenza giornaliera con la ragazza e, visto che aveva da tempo deciso di concedersi una breve vacanza, pensò di cogliere l'occasione per rivedere la "Città Eterna" e andarla a conoscere personalmente.
    Un paio di settimane dopo l'aereo di Paolo atterrava a Fiumicino; Elena lo stava aspettando con un cartello in mano su cui era scritto "Elena, donna di Atlantide". Era una giovane donna tra i venti e i trenta, con capelli fluenti e ondulati di color quercia chiaro, figura sottile, altezza nella media. Un sorriso lieto scintillava sul suo bel viso, al contempo gioviale e ammiccante. «Beh... davvero notevole!» pensò candidamente Paolo, rispondendo a quel richiamo sensuale con la sua inconfondibile espressione stolida.
  8. .
    K. M.

    Trovai il racconto di K. M. nella casella di posta del concorso per scrittori emergenti “New Sun Writers”.
    Mi chiamo Jeff e all'epoca ero da poco entrato nella redazione della “New Sun Edizioni”; per quel concorso ricevetti l'incarico di occuparmi di semplici attività preliminari, di primo livello, che consistevano nella raccolta e catalogazione del materiale, nella verifica dell'aderenza alle norme di partecipazione e nella scrematura delle opere di narrativa evidentemente “inadeguate”. Che non si pensi, però, che il mio giudizio contasse, allora, qualcosa, perché tutto ciò che mi era richiesto a proposito di quest'ultimo punto era semplicemente di leggere le prime righe del testo e stabilire che fossero scritte in modo abbastanza corretto e comprensibile, giusto per evitare, per quanto possibile, alla giuria di esperti d'inorridire di fronte a troppi strafalcioni, ma soprattutto di perdere tempo, che voleva poi dire anche denaro, dato che la loro consulenza era ben remunerata. Niente di esaltante, perciò, anzi, si trattava di una routine piuttosto noiosa, ma il caso volle che proprio a quel lavoro poco qualificante io debba la mia fortuna attuale. Ciò che sto per raccontare, ciò che mi è successo, è infatti qualcosa di stupefacente, e io stesso non potrei crederci, se non fosse capitato proprio a me, se non sapessi che è reale. Ma passiamo ai fatti, senza troppi indugi.
    Si era ormai vicini alle fasi finali del concorso e il mio caporedattore mi chiese di contattare gli scrittori vincitori per dar loro la lieta notizia; così feci, ma quando si trattò di dare comunicazione al vincitore del primo premio, mi trovai parecchio spiazzato: l'e-mail e il recapito telefonico risultavano, infatti, inesistenti; lo dissi al caporedattore, convinto che non fosse poi un grande problema e che il primo premio sarebbe stato tranquillamente assegnato al secondo classificato. Non fu così: il caporedattore si agitò e mi disse che era invece importante rintracciare proprio quello scrittore, a tutti i costi, perché il suo racconto era piaciuto a tal punto da convincere la direzione a commissionargli un intero romanzo. E sarebbe toccato a me, quest'arduo compito! Non restò altro da fare che verificare l'indirizzo civico e recarmi in loco personalmente. Controllai, e vidi che si trattava nientemeno che di una villa del settecento, situata in mezzo a un bosco nei dintorni di Princesboro. La cosa si faceva sempre più curiosa.
    Due giorni dopo ero di fronte al cancello della villa, dopo aver percorso centinaia di chilometri in auto, desideroso di concludere quella faccenda al più presto, in un modo o nell'altro. Nonostante fosse ancora pieno giorno, erano infatti le 15:30, non potei non notare come, uscendo da quel bosco fitto e scuro, la luce del sole sembrasse stranamente fievole, offuscata, rispetto a quanto sarebbe stato lecito aspettarsi. Il cielo era plumbeo e forse il tempo stava per mettersi sul brutto. Ci sarebbe voluto solo più un bel temporale, per concludere in bellezza la giornata. Fermai l'auto di fronte al cancello principale, scesi e mi avvicinai al cancello di ferro battuto. La vernice bianca era scrostata quasi completamente e la ruggine era diffusa pressoché dovunque, sulle parti di ferro scoperte. Si vedeva poi, anche da una certa distanza, che la facciata della villa, che pure era maestosa per dimensioni, era alquanto usurata dal tempo e avrebbe richiesto un serio e accurato restauro. Nel complesso, l'impressione era di un luogo lasciato a se stesso, trascurato, ma certamente di grande valore per l'età e il pregio delle decorazioni in stile Rococò; all'epoca del suo splendore, doveva essere appartenuta a qualche famiglia nobile.
    La sensazione che emanava da quel luogo era alquanto deprimente, e trovai molto strano che in un posto del genere potesse vivere un geniale scrittore in erba. Mi decisi a suonare al citofono, unico segno di modernità in quella costruzione vetusta. Mi fu aperto. «Mah?!» pensai «Non mi hanno neanche chiesto chi sono». Non riuscivo a disfarmi di quella strana sensazione che mi aveva colto all'arrivo, e ogni piccolo particolare alimentava i miei dubbi e la mia curiosità. Percorsi i venti metri del viottolo che attraversava il giardino, anch'esso bisognoso di cure e, giunto di fronte al pesante portone, solamente accostato, entrai.
    L'interno era decisamente più luminoso di quanto mi attendessi e ciò mi causò un attimo di disorientamento; la luce era però totalmente artificiale, poiché le finestre erano tutte chiuse e coperte da tende scure, e proveniva da un grande lampadario, al centro della stanza, e da diverse lampade elettriche appoggiate alle pareti, che per foggia e posizionamento ricordavano molto le fiaccole di un antico maniero. Non mi stupii, invece, del resto dell'arredamento, poiché già avevo intuito che mi sarei ritrovato in una stanza dall'aspetto “gattopardesco”, sennonché tutto dava l'impressione di essere, a differenza dell'aspetto esteriore della villa, molto ben tenuto.
    Ad accogliermi c'era, in piedi a pochi passi da me, una donna sui trent'anni, vestita con un tailleur grigio scuro, molto elegante; aveva lineamenti decisi, ma perfetti, zigomi alti e labbra accese dal colore di un rossetto davvero poco consono al ruolo di donna di servizio, o di maggiordomo. I capelli, lunghi e castani, erano raccolti sulla sommità del capo in un modo che, lì per lì, trovai alquanto “originale”. Era piacevole di aspetto, ma abbastanza inespressiva, quasi glaciale.
    «Il signore desidera unirsi ai festeggiamenti?» mi apostrofò la donna, mantenendo quell'aria distaccata.
    «Ma... no... non saprei... che festeggiamenti? Io sono un dipendente della “New Sun Edizioni”, e in realtà sono venuto fin qui per parlare con il signor K. M., che ha partecipato con un racconto al concorso per scrittori emergenti indetto dalla nostra società e ha vinto il primo premio! Sono dovuto venire di persona perché il telefono e la mail che ci erano stati indicati non erano attivi; inoltre devo parlare con il signor K. M. di un'altra questione, ben più importante, in quanto la mia società intende mettersi in trattative con lui per un nuovo lavoro, che sarà sicuramente una grossa opportunità, per lui».
    «Capisco.» disse la donna, dopo un istante di riflessione, non sembrando però né stupita, né entusiasta della notizia di cui ero latore «Vogliate allora attendere un istante nel salone che si trova alla vostra destra, mentre vado a dire al signore della vostra presenza». Così dicendo mi indicò una porta aperta e si allontanò da un'altra porta alle sue spalle, richiudendola subito. Mi lasciò lì, solo, in quell'enorme stanza che, tra l'altro, era piena di oggetti antichi e di valore, senza preoccuparsene affatto. Non avevo nemmeno il coraggio di sedermi, visto che intorno a me c'erano soltanto poltrone e divani d'epoca. Sembrava proprio la sala di un museo.
    Dopo un quarto d'ora circa la donna tornò e al suo fianco camminava un ragazzo, un aitante ventenne in jeans e t-shirt. «Il... signor K. M.?» chiesi, porgendo la mano per salutare. «Ah.... Ah! Ah! Ah!!! No, per niente! Io sono Robert, esperto di informatica e suo più stretto collaboratore. Annika mi ha già detto chi è lei. Allora abbiamo vinto? Ah! Ah! Ah!!! Lo sapevo, il vecchio non sbaglia mai un colpo! Qua la mano!» disse, agitandomi la mano nella sua con veemenza.
    «Mi scusi, » dissi «ma io avrei bisogno di parlare della questione direttamente con il signor K. M., se fosse possibile. Ma... ha detto vecchio?».
    «Eh, già! Vecchio, decrepito e pure tetraplegico, peraltro, ma assolutamente geniale. Solo che, nel suo stato, non è in grado di svolgere nessuna attività che non sia strettamente concettuale o, per meglio dire, cerebrale».
    «Non capisco proprio... mi sta dicendo che un anziano tetraplegico ha scritto il racconto vincitore del concorso? Sta scherzando?».
    «No, davvero. E' proprio così! Il vecchio è davvero geniale, ma ha bisogno di altri per fare qualsiasi attività manuale o fisica. Gli altri sono il braccio, lui è la mente».
    «Capisco, quindi lui detta e qualcun altro scrive, giusto?».
    «Ehm... non proprio. In realtà non può dettare niente, perché non riesce neanche a parlare. Sa, le sue condizioni sono proprio misere».
    «Allora mi sta prendendo in giro! Guardi che io ho fatto duecento chilometri per venire fin qua, e se lei è il signor K. M. e si diverte a scherzare in questo modo, le dico che io non mi sto affatto divertendo!» sbottai. «Adesso mi stia a sentire: la mia società vuole commissionarle la scrittura di un romanzo, metterla sotto contratto. Si tratta di un'opportunità da non sottovalutare, potrebbe essere il suo trampolino di lancio». Pensai: «E' incredibile che a un simile bamboccio sia capitata questa fortuna e a me, che ho una laurea in lettere moderne, non venga data nemmeno l'opportunità di scrivere una mail importante. Il mondo è folle».
    «Oookay, non si scaldi tanto» fece Robert «Le ho detto la verità, e visto che ormai siamo entrati nel vivo, le dico che ho anch'io una comunicazione da farle, e che anche a lei sta per essere fatta una proposta che non potrà rifiutare, se è sano di mente. Come anch'io non l'ho rifiutata, tempo fa».
    «Come sarebbe? Che proposta?» domandai, interdetto e stupito.
    «Si sieda e ascolti bene: il vecchio non è un uomo come gli altri, le sue facoltà mentali lo rendono unico. Che lei ci creda o no, K. M. è dotato di poteri mentali che gli permettono di fare cose strabilianti. Può realizzare opere di genio come quel racconto, può far fare alle persone quel che desidera con la sola forza del pensiero, può influenzare i sensi degli altri facendo loro vedere, sentire o toccare cose che non esistono, illusioni, può prendere possesso della mente degli altri e amplificarne le facoltà intellettive, può... ».
    «Aspetti, aspetti... ma... che sta dicendo? Sarà anche un “genio” come scrittore, ma a me sembra che lei abbia davvero lasciato correre un po' troppo la fantasia. A questo punto direi che, se non vuole parlare seriamente di lavoro, io qui non ho più nulla da fare. Addio!».
    «Ah, giustamente lei è scettico, ma lo sarà ancora, dopo che le avrò presentato... il signor K. M.?».
    Detto ciò, Robert si voltò verso Annika e allora mi accorsi che la figura della donna diventava sempre più indefinita, quasi fosse avvolta dalla nebbia, finché non si dissolse completamente, lasciando al suo posto un povero vecchio su una sedia a rotelle, dall'aria triste e stanca: quello era il signor K. M..
    Rimasi di sasso, non riuscendo più a proferire una parola, e con aria ebete, occhi e bocca spalancati, mi voltai verso Robert.
    «Ma... allora... è tutto vero?!» sussurrai, la mia voce sovrastata dalle risate del giovane.
    «Già, è tutto verissimo! Come le dicevo» riprese Robert «il signor K. M. ha intenzione di proporle di lavorare per lui, in quanto egli necessita dell'aiuto di persone valide in grado di svolgere attività di qualsiasi tipo, manuali principalmente, ma anche di concetto. Servono sempre muratori, elettricisti, informatici e quant'altro, perché K. M., come le dicevo, non può svolgere attività manuali, ma anche persone esperte di tecnologia, perché è un uomo all'antica che non vuole occuparsi di queste faccende. E' però in grado di amplificare le sue capacità; per farle un esempio, grazie a lui, io adesso vado e vengo dai server della sicurezza nazionale a mio piacimento e giusto l'altro giorno, insieme, abbiamo mandato a monte un piano terroristico di Al Qaeda. Facciamo del bene al mondo, spostiamo soldi dai conti correnti dei ricchi verso quelli dei poveri, aiutiamo il mondo esterno a risolvere casi di polizia e ogni tanto ci dilettiamo in vario modo, con l'arte come nel caso del racconto che a lei è capitato di vedere, o partecipando a feste come non ne ha mai viste in vita sua. Ah, ecco, se lei fosse stato un restauratore, un imbianchino o un giardiniere, per noi sarebbe stata la manna dal cielo, visto che è da un po' che non ne disponiamo. Adesso, ci dica: lei cosa sa fare?».
    «Io... beh, non saprei... la scrittura, in un certo senso, è il mio mestiere ma ritengo di non poter mai arrivare a competere con il signor K. M.... potrei farvi da autista!».
    «Ah, abbiamo già un pilota di rally, per quello. Lo conoscerà. Nient'altro?».
    «Davvero... non saprei... lei cosa mi suggerirebbe?».
    «Sì, sì! Allora, K. M. pensa che lei sarebbe perfetto per le attività che lui definisce... ludiche. Deve sapere che con noi ci sono anche un certo numero di donne procaci, che hanno principalmente il compito di dare piacere a K. M., parlandoci chiaramente. Infatti il vecchio ha un notevole appetito sessuale, che può soddisfare solamente per via cerebrale, prendendo possesso mentalmente del corpo di un uomo, compiendo tramite questo atti libidinosi che danno soddisfazione a lui, ma anche al possessore del corpo. E' un ruolo che, se lo accetterà, le invidieranno tutti, mi creda».
    «Incredibile!» esclamai «Dice sul serio? Potrei fare questo lavoro per K. M.? E... sarei pagato?».
    «Profumatamente! » rispose Robert «Con le facoltà di K. M., procurarsi milioni è davvero un gioco da ragazzi. Potrebbe farlo anche... per sempre... ».
    «Per sempre? In tal caso... accetto! Quando comincio?».
    «Benissimo, K. M. è molto soddisfatto. Glielo farà sapere lui stesso, intanto può andare di sopra a conoscere il resto della nostra piccola comunità. Lei è un uomo fortunato, non c'è che dire!».
    E così, accettai questo “lavoro” da uomo-oggetto, e adesso sono al massimo della felicità: chi se frega di mutui, orari, impegni. Adesso passo il tempo a bighellonare, rilassarmi, spendere soldi a destra e a manca e divertirmi. Quando K. M. desidera che lavori per lui, me lo comunica telepaticamente e io allora torno all'ovile, come d'accordo. Beh, tutto è davvero perfetto, anche se non si tratta di un lavoro facile, perché K. M. ha delle pretese mica da ridere. Siamo solo al “rodaggio”, mi dice, e già mi impegna per diverse ore, tutti i giorni. Comunque io non mi lamento, anche se un po' di stanchezza fisica comincio ad avvertirla. Ma posso farcela; non sono certo, ancora, debilitato. Però, mi sorge un dubbio: se ha tutti questi appetiti, perché nessun altro si fa avanti per darmi una mano? Mah?! In questo momento preferisco non pensarci: tutto va per il meglio, ho il lavoro migliore del mondo e potrò farlo... per... sempre... oh, *ӧ¥™±≠≤*?!

    K. M.
    Episodio II

    Malgrado, all'inizio, il compito affidatomi sembrasse l'esaudirsi di uno dei desideri reconditi di ciascun uomo con nelle vene qualcosa di più di acqua rossastra, per lo meno a livello subcosciente, con il passare dei giorni venne gradatamente a scemare l'euforia e subentrò un senso di svogliatezza, di ripetitività, di stressante meccanicismo che ben presto sfociò nella consuetudine e, di lì a poco, nella monotonia.
    A poco a poco mi accorsi che i momenti in cui riacquisivo il senso della mia personalità e del mio equilibrio psichico coincidevano sempre più con i periodi di interruzione tra una performance e l'altra, che occupavo per lo più ritemprando corpo e spirito con attività fisiche, usufruendo di una biblioteca o delle sale adibite all'ascolto della musica e al cinema ̶ ciascuna delle quali era, tra l'altro, particolarmente rifornita ̶ , oppure ancora rifocillandomi con lauti pasti e libagioni. Eppure, nonostante l'evidente piacevolezza di queste occupazioni, i rapporti umani, che fin dall'inizio non erano assidui ̶ pochi erano, infatti, i frequentatori delle suddette sale e né loro, né le persone con cui condividevo gli oneri per adempiere ai quali ero stato accolto in quella misteriosa comunità, spiccavano per socievolezza ed eloquenza ̶ , cominciarono, giorno dopo giorno, a difettare decisamente.
    Cominciai ad insospettirmi circa le condizioni della mia permanenza, per la quale non avevo ancora un accordo ben definito con il signor K. M., che non ebbi più occasione di incontrare per diverso tempo; discutere della mia situazione, esprimere qualche dubbio con quanti condividevano la mia medesima "sorte" sembrava non portasse a chiarimenti, siccome pareva fossi il solo a porsi questioni di quel genere e a lamentarsi quando tutto ciò che mi era richiesto era di dedicarmi al piacere, per interposta persona, del mio sfuggente anfitrione e di trascorrere il resto delle mie giornate come meglio mi aggradava. Trascorse alcune settimane dal mio ingresso alla magione notai l'assenza prolungata di uno degli archivisti operanti presso la biblioteca, un individuo vispo e simpatico dall'età indefinibile di nome ???? con il quale ero solito conversare del più e del meno e che rispondeva alle mie tante curiosità in modo assai meno deludente in confronto al resto dei miei interlocutori. Né i suoi colleghi, né i frequentatori della biblioteca ne avevano avuto notizia all'incirca dal giorno in cui mi ero accorto di quell'assenza inconsueta; lo cercai per alcuni giorni nelle aree dove pensavo che avrebbe potuto recarsi in base alla sua indole ed alle sue abitudini ̶ era un gran chiacchierone che aveva certamente dedicato ai libri una cospicua "fetta" della sua vita, ma non riuscii a rintracciarlo. Provai perfino nelle sale mediche, ma invano. In seguito a questo episodio, analogamente a quanto feci con ????, approfondii la conoscenza con altri inquilini al soldo di K. M., pur tuttavia senza fugare appieno le mie perplessità circa lo stile di vita che conducevamo, isolati dal mondo e apparentemente felici di esserlo, né tantomeno sui motivi stessi che giustificavano l'esistenza stessa di una tale associazione, che aveva chiaramente le caratteristiche di una setta ma le cui finalità e i cui dogmi, se ce n'era qualcuno, erano ancora avvolti nel mistero.

    Il signor K.M.: nella "cintura" della cittadina di Princesboro (e quindi, essendo la stessa immaginaria ambientazione del primo racconto di Emma, dovrebbe trovarsi in Irlanda) c'è una villa che è la sede delle attività del suo entourage. Questo personaggio è dotato di poteri mentali sovrumani, ma la sua natura è alquanto ambigua e moralmente deprecabile. In realtà si tratta di un alieno, proveniente da un pianeta la cui popolazione è dotata, similmente a lui, di abilità particolari a seconda del proprio codice genetico: ci sono infatti coloro che hanno le proprie facoltà mentali accelerate, come lo stesso K.M., che costituiscono la classe dirigente della società, mentre altri rappresentanti della sua razza sono dotati di abilità fisiche, ecc. E' fuggito dal suo pianeta? E' in esilio? E' in missione? Cosa è venuto a fare sulla Terra e quali sono i suoi obiettivi? Il malcapitato Jeff è un terrestre che, come tanti altri, è venuto a contatto con questo alieno ed è rimasto irretito dal suo potere e dalle sue promesse, menzognere. Cercando di sfuggire al giogo che lo costringe ad assoggettarsi alla volontà di K.M., Jeff vivrà delle avventure mirabolanti che lo porteranno a scoprire molti misteri sulla figura del suo "padrone" e sulla sua razza aliena e forse, involontariamente, a sventare una minaccia alla stessa sopravvivenza dell'umanità, o quantomeno alla sua libertà.
  9. .
    Tom e Alice

    Alice, tutto sommato, aveva avuto una buona notte. A volte le capitava di essere particolarmente serena, a quell'ora del mattino, e di buon'umore. Non era felice, non era gioia quella che provava nel recarsi, con quel suo modo di camminare indolente e flessuoso, verso il fiume. Fin dal giorno del suo arrivo in città, non appena ebbe finito di lavorare, aveva imboccato la strada che costeggia il fiume, diretta verso la sua nuova casa. Era un grande fiume, il più importante della regione, e nell'udire il tumulto delle sue acque scure ad Alice parve subito di aver fatto una piacevole scoperta. L'aria intorno le sembrò d'improvviso fresca e sentì che quello era un luogo che l'accoglieva semplicemente, che la distoglieva dal pensare alla sua vecchia casa, lontana, raccontandole, con il sapore di quella sua voce, uno ad uno, i giorni della sua vita nomade.
    Tom era già lì seduto e sembrava non averla vista, intento a controllare lo stato di pulizia dei suoi stivali; canticchiava con la voce graffiata una canzone in inglese, un motivo sconosciuto, forse inventato sul momento. Infine si videro. Gli occhi di lui erano quasi più sottili del solito, socchiusi.
    Lei sorrise e si sedette. Prese una sigaretta e l'accese. Parlarono un po', lui riprese a cantare più deciso. Dovevano essere entrambi stanchi, ma sembravano trovare a ogni minuto nuova energia, donata loro dal luogo o forse solo dalla compagnia che si facevano.
    Era da poco passata l'una; la musica era alta, nel locale in cui lavorava Alice, le urla e i fischi degli uomini erano lì con lei, dentro il suo camerino. Indossava già il suo gilet di pelle e i jeans tagliati ad arte, le morbide curve rosa del seno spuntavano, si gonfiavano e si celavano nuovamente a ogni suo movimento. Non aveva avuto bisogno di artifici, come avevano fatto altre ragazze, per lavorare, né per provocare negli uomini una frenesia incredula, i loro sensi completamente assorbiti, sospesi come fumo in attesa del divampare di un incendio.
    Tra poco sarebbe toccato a lei esibirsi, per cui terminò rapidamente i preparativi: si sistemò i peli del pube, raccolse i due dildo che era solita adoperare e li infilò nelle fondine del cinturone; prese il cappello da cowgirl, il lazo ed ecco apparire nuovamente, riflessa nello specchio illuminato, Jenny Geronimo. Jenny, la donna che “mette in riga tutti i cowboys”. Pronta per la scena!
    Uscendo, incrociò Nadine, il suo numero appena terminato, che rientrava nel camerino a lunghi passi. Si fermò di fronte a lei e gli sguardi si incrociarono: a Nadine, Alice piaceva molto.
    Proseguirono entrambe, passando oltre. Nadine si voltò, il tempo rallentò mentre la guardava, soffermandosi ora sulle onde bionde descritte dai lunghi capelli, ora sulla schiena sinuosa e la vita sottile, ora sui fianchi mobili e le natiche sontuose. Sorrise, mordendosi lievemente la lingua, a lato delle labbra. Rimasta sola, le sue dita presero a cullarle i capezzoli e il sesso.
    Alice era sul palco, la sua musica in sottofondo, il pubblico in delirio. Al solito posto, Tom applaudiva e sorrideva, senza schiamazzi, nel modo che usava per dirle che era una persona speciale. Alice era felice e lo spettacolo più intenso e provocante che mai; tutti erano più soddisfatti, quando Tom riusciva a essere presente. Il motivo, però, lo conoscevano soltanto Tom e Alice.
    Non poteva smettere, o forse non voleva farlo veramente. Farlo, smettere, significava cambiare vita, e questo pensiero, e le paure e i dubbi che seguivano quel pensiero, la atterriva. Le sembrava allora che ciò che aveva, un attimo prima, ritenuto una condizione infelice, non fosse realmente tanto disprezzabile. In fondo aveva avuto una gran fortuna, a sfondare in quel mestiere, ad aver ricevuto dalla vita, senza merito, quelle doti che sole le potranno garantire, un giorno, una vita agiata, libera e senza preoccupazioni. Il pensiero del domani era per lei lo sprone ad andare avanti, a contare il denaro che andava accumulandosi nel conto, a immaginare una bella casa, un ristorante o una pizzeria, un'agenzia di viaggi, qualcosa di proprio.
    Non parlava mai del passato: il passato, semplicemente, non esisteva più, era offuscato, sepolto da quel giorno in cui aveva deciso di seguire la sua amica d'infanzia, Mellory, nella sua avventura fuori dai confini del proprio paese, per fuggire dalla morte, dalle botte, dall'alcol e dalla prigione. Cose che per Mel erano la quotidianità familiare. Per Alice no, le cose stavano diversamente, allora, ma anche lei era stata, a suo modo, una ragazza in fuga, irrequieta, soffocata. Nessuno l'aveva, fisicamente, maltrattata, né la sua incolumità era mai stata messa a repentaglio, ma c'era stato qualcosa, qualche fatto indefinibile, che l'aveva spinta a cercare una condizione diversa. A ricercarsi. Era stato a causa dell'orizzonte, che sembrava avvicinarsi minaccioso, inquietante, man mano che l'età avanzava, e lei diveniva, rapidamente, adulta. L'orizzonte, che vedeva ovunque, vietato, celato da un muro di gomma. Quell'orizzonte che era sempre lì, di fronte ai suoi occhi grandi, primaverili. La coglieva, come uno sguardo sprezzante, quando fissava le pareti grigie della sua piccola casa, con i soliti mobili che chi lo sa da dove, poi, provenissero. Era sempre lì, nel silenzio e nello sguardo spento del padre, nella vita misera che conducevano, nelle parole della madre, irritata dal lamento del fratello più piccolo, nel senso di sconfitta che aleggiava ovunque. Gelo, che le si insinuava nel cuore. Paragonati ai ragazzi che aveva conosciuto quando ancora viveva nel paese natio, poi, gli astanti del locale in cui, adesso, lavorava, sembravano cadetti di Oxford. Laggiù, al suo paese, tutto pareva dirle: questo è quello che c'è, per te come per tutti. Non c'è niente, e tu non sei niente!
    E invece qui, nella sua nuova vita, cosa aveva trovato? Era “qualcosa”, oppure era ancora “niente”? Aveva perso Mel, aveva perso molto altro, ma poteva permettersi di fare un viaggio, aveva di che pagare una casa vera, era anche apprezzata. Forse sentiva, profondamente, di esserlo per ragioni che non riteneva importanti, di avere molto più di quanto gli altri vedevano in lei, ma anche così, era sempre meglio di “niente”.
    Aveva conosciuto Tom, e davvero non sperava che potesse esserci qualcuno che riuscisse a vedere oltre la facciata, e che rispettasse a tal punto la sua vita da non volerla forzare a cambiare, se non per propria volontà. Certo, Tom le aveva più volte proposto delle alternative, alcune anche davvero interessanti. Se non l'avesse mai fatto, chissà, Alice avrebbe potuto pensare che lui non si preoccupasse abbastanza per lei, che il loro fosse un rapporto superficiale, basato su cose effimere, che il tempo avrebbe spazzato via. Invece si intendevano a meraviglia, lei adorava il rispetto che Tom le portava, in qualunque aspetto della propria esistenza. Con lui, i patti erano chiari e tutto nasceva e fluiva spontaneo, senza forzature. Tom era libertà, e Alice era certa del fatto che si fosse legato a lei per affinità, non per capriccio.
    Gli occhi verdi, primaverili, erano ancora rivolti verso l'orizzonte, quel grande fiume dalle acque calme e scure. Si asciugò gli occhi, inumiditi, sorridendo lievemente. L'aria odorava di pioggia. Si alzò dalla panchina, si voltò e s'incamminò, a passi lenti, indolente e flessuosa, verso casa. Il grande fiume restò immoto, solitario e silenzioso, a guardarla, mentre si allontanava. Lasciato alle spalle.
  10. .
    La bibliotecaria
    Episodio II
    [La vicenda si svolge nella campagna irlandese nell'arco di una settimana: una giovane donna si reca nella sua abitazione di campagna per trascorrervi qualche giorno, alla ricerca della solitudine e della concentrazione necessaria per occuparsi di ?????, ignara di quanto sta per accaderle. La casa è infatti infestata da uno spiritello dei boschi invisibile ad occhio umano, che ne ha preso possesso durante il periodo in cui era disabitata e che inizialmente difende la propria, almeno dal suo punto di vista, proprietà, combinando scherzi alla giovane allo scopo di spaventarla e allontanarla, ma successivamente...]

    La pioggia scendeva copiosa dal cielo plumbeo; Emma si sforzava di reggere il piccolo ombrello variopinto, scosso dalle sferzate del vento. Piccole gocce si infrangevano sul leggero cappotto autunnale e sulla gonna, mentre risuonava liquido il rumore dei suoi passi sul terreno rossastro e fangoso antistante all'ancestrale cascina che da generazioni apparteneva alla sua famiglia. Giunta di fronte all'uscio, si soffermò a frugare nella borsetta tentando al contempo di sorreggere l'ombrello, in modo da evitare di inzupparsi completamente. Un tuono improvviso la raggelò per un attimo, dopodiché aprì la porta e si precipitò all'interno, al riparo da quel diluvio.
    Accese la luce nell'ingresso e si diresse, affannata, verso il soggiorno; appoggiò l'ombrello gocciolante ad un armadio e la borsetta e la valigia sul tavolino. Si sedette su una poltrona beige, impolverata, e si soffermò per qualche minuto, guardandosi attorno: era da almeno un anno che la casetta di campagna era priva di occupanti, da quando si era trasferita in una cittadina più grande per questioni di lavoro, ad alcune ore di treno di distanza. Neppure suo fratello e sua sorella erano più tornati a passarvi un po' di tempo, nei periodi estivi, com'erano soliti fare in gioventù: entrambi molto impegnati, avevano adesso un reddito sufficiente per permettersi viaggi in paesi esotici e affascinanti. Quando si incontravano, spesso durante le feste comandate, le raccontavano di quei luoghi mirabolanti che, per natura e cultura, erano così lontani dalla realtà della loro isola natia, mostrandole foto e souvenirs vari. A lei, però, l'opportunità di viaggi all'estero era capitata solo occasionalmente, quando le sue magre finanze gliel'avevano consentito, e per brevi periodi. Era comunque fiduciosa del fatto che, una volta sistematasi come desiderava e raggiunta una certa stabilità economica, anche lei avrebbe potuto concedersi lussi di quel genere. Non era però dispiaciuta di ciò, perché a lei tornare alla vecchia casetta, piena di ricordi di gioventù, faceva ancora molto piacere. Certo, ogni volta doveva occuparsi di dare un po' di lustro a quell'avita abitazione, ripulirla e rassettarla per benino, ma quelle fatiche erano poi ripagate dalla serenità che le dava l'immersione in quell'ambiente naturale, le passeggiate per i boschi di conifere alla ricerca di funghi, castagne, frutti di bosco e quant'altro o anche solamente per assaporare i suoni emessi da insetti e uccelli, i profumi umidi del sottobosco ancora impregnato di pioggia. Solitamente, però, quel genere di svago le andava bene per qualche giorno al massimo, dopodiché la sua indole cittadina tornava a farsi sentire prepotentemente e ciò che l'aveva rilassata fino al giorno precedente, senza apparente motivo, diveniva allora causa di irrequietezza. Atteggiamento tipico di chi ha vissuto per lunghi periodi in modi e luoghi completamente differenti e deve sovente affrontare i propri burrascosi stati emotivi, indotti da quella natura migrante che li contraddistingue irrimediabilmente, fatta di opposizioni tali per cui sembra che siano perennemente insoddisfatti, perennemente duplici e in bilico, sembra che vogliano fuggire quando si trovano in un luogo o situazione, e tornarvi quando se ne sono allontanati.
    Se ne stava là, seduta, assorta nei propri pensieri, mentre si percepiva appena il rumore della pioggia battente sui vetri delle finestre, quando improvvisamente si udì un tonfo: borsetta e valigia erano cascate per terra! Eppure... sembravano entrambe ben disposte sul tavolino...
    Immediatamente Emma, all'udire quel frastuono che aveva recisamente spezzato l'atmosfera di serena calma in cui si era immersa, si destò e, quasi senza muovere i muscoli del corpo, girò lo sguardo verso gli oggetti che giacevano sul pavimento, rimanendo a fissarli per alcuni lunghissimi istanti, stupita ed esitante, dopodiché si sollevò a raccoglierli.
    Pur non comprendendo come potessero essere caduti, Emma decise che, inavvertitamente, doveva essere stata lei a disporli in malo modo, e non si pose ulteriormente la questione. Cominciò comunque le proprie attività: per prima cosa attaccò le due stufe elettriche presenti su ciascuno dei due piani dell'abitazione, dopodiché si mise a ripulire la casa, spolverando i mobili e il pavimento, sistemò lenzuola pulite sul letto su cui avrebbe dormito quella notte, accese il frigorifero e vi mise dentro alcune cibarie pronte che aveva portato con sé. L'indomani sarebbe poi andata al paese a comperare il necessario per il sostentamento dei giorni successivi. Aveva considerato di poter restare, salvo imprevisti, per cinque giorni, durante i quali doveva però occuparsi di redigere una relazione su ????? che le sarebbe servita al lavoro per la settimana seguente.
    Impiegò l'intera giornata per sbrigare le faccende domestiche; era ormai sera quando poté finalmente rilassarsi al tepore del caminetto. Aveva cenato frugalmente e adesso poteva concedersi la lettura di un romanzo del suo autore preferito. Dopo una mezz'ora circa, però, dovette interrompere il suo svago in quanto si accorse che l'ambiente circostante diveniva ad ogni minuto più freddo e oscuro, al punto che leggere con quella luce fioca le risultava sempre più difficoltoso. C'era qualche inconveniente con il camino, la cui fiamma si andava progressivamente affievolendo, perdeva di intensità e sembrava dovesse spegnersi da un momento all'altro. Contrariata, si alzò dalla sua comoda postazione di lettura sul divano e si accinse a riattizzare le braci; occorreva altra legna, per cui uscì dalla stanza per recuperarne qualche ceppo nella ?????.
    Ne prese alcuni, ma la riserva si stava esaurendo e l'indomani avrebbe dovuto chiedere un piccolo prestito a qualche vicino oppure recarsi nel bosco alla ricerca di rami adatti: benché avesse spesso svolto quell'incombenza, in passato, tra le tante mansioni che si rendevano necessarie vivendo in campagna si trattava forse di quella che le dispiaceva maggiormente. Eventualmente, se non fosse riuscita a cavarsela come supponeva, si sarebbe accontentata del calore emanato dalle stufe e della luce di una piccola lampada. Certo che in quel caso l'atmosfera sarebbe stata molto meno suggestiva, ma ad ogni modo non riteneva fosse fondamentale ai fini di trascorrere qualche ora piacevole durante le sere che l'attendevano nei giorni a venire. Insomma, non avrebbe patito particolarmente a causa di quel contrattempo.
    Rincasata, in breve tempo riuscì a rivitalizzare il camino e a riassaporare l'aroma delle sue amate pagine, sennonché... il suo libro non era lì dove ricordava di averlo appoggiato! Non sul divano, nemmeno sul pavimento circostante. Si chinò per controllare meglio, se per caso non fosse finito inavvertitamente sotto qualche mobile, ma là attorno non ce n'era traccia, pareva si fosse volatilizzato. Si sollevò da terra; stavolta, l'espressione sul suo volto tradiva effettivamente un certo sconforto: la sua piacevole e rilassante seratina immersa nell'armonia dell'ambiente rurale si stava rivelando stressante tanto quanto le serate che trascorreva, in città, davanti alla Tv, con gli strepiti dei vicini che litigano o chiacchierano ad alta voce e il rumore del traffico proveniente dalla strada sottostante (abitava infatti in una zona parecchio caotica perfino nelle ore serali).
    Quand'ecco che il suo sguardo, casualmente, si indirizzò verso il camino accesso, e lì lo vide. Ma come poteva esserci finito? Senza indugi, si tuffò letteralmente al salvataggio del suo "tesoro"; lo strappò alle fiamme, incurante della possibilità di scottarsi, e fu talmente lesta nel coniugare l'intenzione e l'azione da riuscire a compiere un recupero quasi miracoloso: le pagine si erano appena un po' annerite in alcuni punti, ma sostanzialmente il libro era intatto.
    Si risdraiò sul divano e si rimise a leggere, anche se tutti quegli inconvenienti l'avevano alquanto scombussolata; cercò comunque di recuperare la padronanza di sé affinché quel primo giorno di villeggiatura potesse donarle ancora un minimo di benessere: in fin dei conti si era recata lì sperando di riuscire a dimenticare, almeno per qualche giorno, le consuete occupazioni, gli impegni e le difficoltà che la vita le poneva di fronte giornalmente.
    Si era fatta una certa ora ed Emma incominciò ad accusare un po' di stanchezza. Si appisolò dov'era, ma dopo un po' si ridestò e, ancora nel dormiveglia, si diresse verso il bagno per le varie abluzioni prima di andare a riposarsi. Si spogliò, prese il necessario e fece una doccia corroborante. Tuttavia le sorprese, per quella prima serata, non erano ancora terminate: mentre era intenta a ciò, le parve di udire delle voci provenienti dal salotto. Eh, già! Era come se ci fossero delle persone che dialogavano animatamente. Forse era rimasta la radio accesa, o la Tv? Ma no, aveva appositamente evitato di accenderle, quella sera, lo ricordava abbastanza chiaramente, anche se doveva ammettere di non essere nelle migliori condizioni psico-fisiche, quel giorno, e ogni piccola novità inaspettata le fomentava nuovi dubbi: siccome si era addormentata, non era più così certa di cosa avesse fatto nel mentre, e non avrebbe saputo dire cosa fosse avvenuto realmente e cosa invece avesse solo immaginato di fare, per cui poteva anche essersi nel frattempo risvegliata accendendo uno di quegli apparecchi, ricadendo poi nel sonno e non ricordandosene più. «Ok, » disse tra sé «cerca di restare calma, Emma: potrebbero essere dei ladri, ma è talmente strano che qualcuno si possa interessare a una casetta come questa, dove non c'è granché da prelevare e che tra l'altro era rimasta, fino a ieri, disabitata per un lungo periodo. Se davvero avessero voluto introdursi furtivamente, avrebbero potuto farlo in precedenza oppure attendere che me ne sia andata.» Insomma, nessuna di quelle ipotesi le sembrava plausibile, allorché si fece coraggio, si asciugò e, dopo aver indossato l'accappatoio, ritornò nella stanza attigua allo scopo di chiarire quell'inghippo. Un po' titubante, aprì lievemente la porta del bagno per sbirciare: non notò niente di strano, e sicuramente non c'erano dispositivi accesi. Girò rapidamente per la sala, ma la prima impressione risultò confermata, dunque non riuscì a capire che cosa avesse udito in precedenza, se fossero state davvero voci di persone oppure chissà che altro. Pensò di essere forse un tantino stressata per via del tragitto percorso per giungere fin là e per tutto ciò che già le era accaduto quella sera, dunque era assai probabile che stesse lavorando un po' troppo con la fantasia.
    Si preparò un the per rasserenarsi e andò nella camera da letto, al piano superiore. Indossò una vestaglia di un colore celeste molto chiaro, prese delle lenzuola, una federa e una coperta pulite, le sistemò sul letto e ci si infilò. Accese la luce della piccola lampada (????) e si accinse a leggere ancora qualche pagina del suo libro, visto che l'agitazione non le era ancora del tutto passata e sperava, così facendo, di stancarsi fino ad assopirsi. Stava quasi per addormentarsi, infatti, quando improvvisamente si accorse che la temperatura nella stanza era parecchio calata, al punto di costringerla ad accucciarsi sempre più, fino a che dovette alzarsi per cercare un modo per riscaldarsi; controllò la stufa, ma sembrava funzionasse egregiamente, allorché si decise a prendere altre coperte dall'armadio, da aggiungere a quella che già aveva. Non riusciva a spiegarsi il motivo di quella repentina escursione termica, ma non si meravigliava più di tanto: in fondo non si trovava in città e in ambienti a più stretto contatto con la natura c'era da aspettarsi che si verificassero imprevisti del genere, specie in quella stagione. Giunse infine ad addormentarsi.
    La notte trascorse e al mattino fu svegliata da un sottile, ma intenso, raggio di luce che filtrava dalle tende fino a illuminarle parte del volto; si stropicciò gli occhi ed emise un lungo sbadiglio, stirando le braccia, dopodiché guardò un po' intorno a sé, nella stanza, ancora intontita; infine si alzò e si diresse verso la cucina per la colazione, ciondolando leggermente.
    Seduta al tavolo, stava assaporando una fetta biscottata cosparsa di confettura accompagnata da una tazza di caffelatte fumante; probabilmente si rammentò di qualcosa che la scosse per un istante, quanto bastò per farle commettere una lieve disattenzione e rovesciare il contenuto della tazza sulla tovaglietta. Fu in quel preciso istante che nella stanza echeggiò un urlo, che si protrasse per alcuni interminabili secondi. Proveniva all'incirca da un punto del tavolo vicino a dove si era versata la bevanda, e pareva il lamento di un animale ferito. Ad Emma si raggelò il sangue nelle vene.

    [da completare]

    Emma: la protagonista di una serie di racconti che hanno a che fare col mondo dell'arcano e del soprannaturale. Nel primo racconto si descrive Emma come una giovane, amante della letteratura e che svolge lavori che hanno a che fare con i libri. Lavora come assistente bibliotecaria presso un piccolo centro di provincia, Princesboro, dove ha un'abitazione lasciatale in uso da uno zio. Fa la conoscenza con un fantasma, o forse una proiezione del subconscio, trattandosi di un personaggio di un romanzo.
    Nel secondo racconto si scopre che il paese in cui vive e in cui sono ambientate le sue vicende è l'Irlanda e che ha un fratello e una sorella che vivono in città diverse dalla sua. Si è trasferita in una città più grande per lavoro, non fa più l'assistente bibliotecaria ma sembra lavori per una qualche redazione o per un'azienda. Anche questa scena si svolge in aperta campagna, in una casa di proprietà della famiglia di lei dove, questa volta, ha a che fare con uno spirito dei boschi.
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    Infatti sono opere d'arte.
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    Be', per quanto riguarda lo spavento, penso che un incontro con un personaggio strano - che però non dice di essere un fantasma e in realtà nel racconto non si menziona affatto che lo sia - più che spaventare, come farebbe un fantasma, renda inquieti, poiché non si presenta né volando né, come una voce proveniente dal nulla, in forma eterea e nemmeno in forma traslucida; non fa cioè ricorso a tutte le abilità che si ritiene, nell'immaginazione, che una creatura di quel tipo possegga. Dunque la ragazza sembra conservare in sé abbastanza "sangue freddo" da dialogare con il funzionario e assecondarlo, ma solamente perché non immagina di star vivendo una vicenda ai confini della realtà.
    Il racconto, che io definisco gotico in primo luogo perché Cicikov è un fantasma - anche se nel testo non lo si afferma chiaramente -, che con i vampiri e altre simili entità abbonda in quel genere letterario, inoltre perché è un uomo del XIX° secolo e la sua "parte" nell'intreccio si riferisce a un testo di quel periodo storico.
    Solamente in conclusione si chiarisce che c'è qualcosa di soprannaturale, di inspiegabile, ma restano ancora dei dubbi sulla vera fonte di quell'arcano: e se fosse il libro, ad avere poteri magici di qualche tipo, spazio-temporali, oppure l'intera biblioteca? Questo potrebbe essere uno spunto per il proseguimento della narrazione, in altri racconti.
    Concordo sul fatto che, se il funzionario Cicikov avesse mostrato in qualche modo di non essere umano, per esempio apparendo e sparendo, oppure divenendo in parte invisibile, oppure ancora se la sua voce avesse echeggiato come all'interno di una caverna, il "goticismo" sarebbe stato palesato in maniera più evidente, aumentando la suspence.
    Però uno degli elementi peculiari della letteratura gotica mancherebbe comunque: mi riferisco alla "romance", agli amori struggenti e impossibili che fecero il successo del genere, anche e particolarmente tra le donne della fine dell''800.
    Alla fin, fine direi che, per come è adesso, il racconto è solo parzialmente definibile come gotico.

    Edited by Gnome74 - 26/8/2018, 14:00
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    Grazie per gli apprezzamenti!
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    Ciò che dovrebbe inquietare il lettore non è tanto il dialogo tra i due personaggi, quanto la scoperta da parte della bibliotecaria, nella conclusione, che la vicenda che ha appena vissuto, cioè l'incontro con quell'uomo che sembra provenire da un'altra epoca - e che le parla di compravendita di anime, per la precisione di "anime morte" - è misteriosamente collegata al libro che la ragazza ha appena preso in prestito dalla Biblioteca, intitolato "Le anime morte", per l'appunto. E' sul finale che si evidenzia l'aspetto sovrannaturale della storia, benché l'incontro con un siffatto storico personaggio, a bordo di un calesse e in una strada di campagna, già dovrebbe introdurre nell'atmosfera irreale che intendevo creare.
    Per quanto riguarda il libro da cui ho tratto ispirazione, in effetti devo molto all'opera originale, poiché i dialoghi sono parafrasi di parti del testo.
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    La bibliotecaria

    La giovane donna era seduta di fronte a un Pc, immersa nei propri impegni lavorativi; era intenta a occuparsi delle richieste di prestito giunte negli ultimi giorni da parte di altre biblioteche della Regione, tra le quali ve n'erano alcune particolarmente urgenti, che dovevano necessariamente essere smaltite, compresa la spedizione del materiale richiesto, entro la mattinata. Di ciò si stava occupando la giovane, che chiameremo Emma. Senza indugio, onde evitare di essere strigliata a dovere dal proprio responsabile per la propria, presunta, negligenza. In suo favore specifichiamo subito che, in realtà, Emma aveva avuto molte altre attività impellenti, in quei giorni, e davvero non c'era stato tempo di occuparsi anche di quelle pratiche. Aveva infatti preso servizio presso la biblioteca di Princesboro, come assistente bibliotecaria, da un mesetto circa, e si era ritrovata, come regalo per l'assunzione, una valanga di lavoro arretrato gravante sulle sue minute spalle, tanto da farle nascere il sospetto che gli altri bibliotecari suoi colleghi, informati per tempo della sua imminente rentrée, fossero stati tanto gentili da omaggiarla di questo gradevole e generoso dono, tanto per farle capire da subito come funzionassero le cose in quel luogo oppure, senza attribuir loro, nel bene e nel male, tanta malizia, semplicemente per profittare di quella ghiotta occasione per starsene un po' in panciolle, spensieratamente, a godersi il clima fresco e piacevole di cui erano prodighi i locali della biblioteca, dandosi così all'ozio o, a esser politicamente corretti, ad altri compiti di maggior concetto.
    La giovane Emma non aveva però fatto, di questo suo faticoso e a tratti stentato, esordio, una questione di stato, né si era lasciata pervadere da pensieri negativi: era già preparata a tutto ciò, e contava di giocare le proprie carte fino in fondo, senza piangersi addosso, con la speranza di poter davvero conservare quel posto, che rappresentava quanto di meglio le fosse capitato da parecchio tempo a questa parte.
    Le sue fatiche giornaliere stavano infine giungendo al termine, ed Emma, che amava la letteratura, prima di congedarsi, volle prendere a sua volta qualche libro in prestito; le serate, perlopiù, le trascorreva così: leggendo, scrivendo qualche proprio pensiero o piccolo componimento, e sognando.
    Abitava temporaneamente in una casetta indipendente, fuori città, lasciatale in uso da uno zio, e per percorrere il tratto di strada dal lavoro a casa era solita prendere inizialmente un mezzo pubblico, per poi procedere a piedi per un breve tragitto, su una strada sterrata circondata da campi incolti. La sera quella sua camminata non era davvero così piacevole come al mattino, in quanto l'area era pressoché priva di illuminazione ed era perciò costretta a procedere, nel crepuscolo, con l'ausilio di una torcia elettrica. In compenso, la zona era molto tranquilla e non si erano, a memoria d'uomo, mai verificati avvenimenti spiacevoli. Ciò la confortava, ma a breve avrebbe comunque cercato una soluzione alternativa, più comoda.
    Quella sera, al rincasare, mentre stava percorrendo la strada buia di cui abbiamo detto poc'anzi, sentì per la prima volta dei rumori provenire dalla direzione opposta alla propria; pur senza poter vedere, ancora, la fonte di quei rumori, intuì che dovesse trattarsi di suoni di zoccoli, presumibilmente di cavalli a un piccolo trotto. Sorpresa, fece per allontanarsi dalla carreggiata portandosi sul limitare della stradina, fermandosi là, in attesa del passaggio degli animali o meglio, a essere sinceri, mezzo paralizzata dalla propria agitazione e incuriosita per via dell'incontro imminente, inconsueto per lei che non aveva molta esperienza di strade di campagna e che pensava non esistessero più persone che girano per le strade a cavallo, che queste cose appartenessero ormai a un mondo antico, dimenticato, se non in occasione di rievocazioni della vita e degli avvenimenti di epoche passate. Oppure, ̶ e questa le sembrava l'ipotesi lì per lì più plausibile; ̶ nei dintorni vi era un maneggio di cui non era a conoscenza, i cui proprietari o clienti si erano attardati e stavano rientrando solamente a quell'ora, in pieno crepuscolo.
    L'attesa, in ogni caso, fu breve, e dopo pochi istanti Emma si ritrovò di fronte nientemeno che un calesse, dal sapore antico, trainato da tre cavalli. Il calesse, illuminato dalla torcia elettrica di Emma, si stava fermando; l'uomo seduto in serpa mostrava un'espressione ben più che stupita, oseremmo dire addirittura sconcertata, come se stesse vedendo un fantasma. Emma era stupita quanto lui e non ebbe certo, in quel momento, la lucidità di notare particolari della scena come il volto grossolano, rubizzo, del cocchiere, il suo portamento sgraziato o il suo abbigliamento, che definire anomalo era veramente il minimo che si potesse, vuoi per la particolare foggia dei vestiti, vuoi per l'evidente cattiva condizione degli stessi. La giovane era già rimasta attonita solamente alla vista del calesse, che era quanto di meno si aspettasse di trovare sul proprio cammino, eccetto forse una nave spaziale o una locomotiva.
    Il momento di impasse fu presto rotto, visto che la portiera del calesse si stava aprendo e da essa stava uscendo un uomo dell'età apparente di circa quarant'anni, vestito in maniera ancor più inverosimile del cocchiere. In questo caso, però, la figura risultava decisamente più piacevole: il volto chiaro e ben rasato, l'espressione serena e acuta, i movimenti studiati, gli abiti di buona fattura nonostante la polvere che vi si era depositata durante il viaggio, che evidentemente era stato lungo e poco confortevole. Per nulla scomposto, almeno in apparenza, il nuovo arrivato apostrofò così la giovane bibliotecaria:
    «Le mie più sincere e sentite scuse, mademoiselle, per l'ardire di aver fermato i miei cavalli al vostro cospetto, causandovi forse un immotivato spavento, e per avervi rivolto la parola in questo modo brusco, ma purtroppo mi trovo, a causa della negligenza dei miei infidi servi, in una situazione particolarmente imbarazzante: sono forestiero e mi sono perso. Debbo recarmi nelle terre di proprietà del Colonnello Koskarev e non ho la più pallida idea di quale sia la strada giusta per arrivare a destinazione. Se foste così gentile da indicarmi la strada, ve ne sarei profondamente grato. Purtroppo, da diverse ore siamo in viaggio senza incontrare anima viva, e perciò non abbiamo avuto modo di rivolgerci ad altri che a voi, in quanto pare che la zona sia completamente abbandonata a se stessa e di contadini, in giro, non ne abbiamo visti» (Nikolaj Gogol', Le anime morte) .
    L'uomo parlava irlandese, correttamente, a parte quell'unica locuzione francese, ma... l'accento era chiaramente e inequivocabilmente russo.
    Emma era ancor più frastornata di prima: «Colonnello Koskarev… servi... ma... che significa? E' uno scherzo?».
    «Ah, che Dio perdoni la mia stoltezza, non mi sono neanche presentato e non vi ho ancora dato motivo di confidare nelle mie buone intenzioni. Comprendo il vostro disappunto. Bene: il mio nome, cognome e patronimico è Pavel Ivanovic Cicikov, funzionario amministrativo,» disse egli inchinandosi con un'agilità quasi militare e rimbalzando all'indietro con la leggerezza di una palla di gomma «quinto livello,» disse ancora con un certo, malcelato, orgoglio «o meglio, lo fui finché la sete di giustizia non mise un freno alla mia carriera e a repentaglio la mia stessa vita. La mia vita si può davvero paragonare a una navicella tra i flutti. Viaggio infatti da parecchio tempo per le terre della nostra sconfinata Madrepatria» (Nikolaj Gogol', Le anime morte).
    Emma non fu certa di aver capito bene, ma intuì che dovesse trattarsi di un tipo eccentrico che, oltre ad essere un viaggiatore, a quanto affermava egli stesso, doveva anche aver perso qualche rotella per strada. Lo squadrò con aria dubbiosa.
    Intanto lo strano tizio pensava, tra sé e sé: «Costei dev'essere matta, una subnormale oppure una ritardata. Mi guarda come se non avesse mai visto un signore in vita sua, o forse è soltanto molto timida. Certo, una contadina non è, perché la sua pelle è chiara e non la potrei credere mai capace di qualunque lavoro manuale; d'altronde, le stoffe dei suoi vestiti sono scadenti, dozzinali, anche se certamente non ho mai veduto un siffatto taglio degli abiti. Forse si tratta di una straniera: la moda in Russia non può essere giunta fino a un tal livello d'ineleganza. Certo che la Russia e lo spirito russo non hanno davvero più speranza di sopravvivenza, se continuiamo ad assorbire come spugne tutte le mode che l'Europa ci manda, considerandole migliori delle nostre soltanto perché così si usa a Parigi o a Londra» (Nikolaj Gogol', Le anime morte).
    La incalzò ancora, nella speranza di scuoterla, di ottenere qualche risposta che gli permettesse di schiodarsi da quella spiacevole situazione e arrivare alla propria destinazione, o da qualsiasi parte dove trovar case o izbe in cui passare la notte, e persone cui poter chiedere indicazioni più affidabili per il prosieguo del viaggio:
    «Dovete sapere, cara e timida signorina, di cui ancor mi è sconosciuto il nome, che per me il viaggio è utile e proficuo già di per sé, permettendo a un gentiluomo di mondo di conoscere cose e persone che altrimenti resterebbero per lui sempre sconosciute; il viaggio ha in sé il valore di un ottimo libro ed è foriero di cultura e conoscenza. In questo momento, però, non viaggio per il mio solo piacere, ma per assolvere un incarico ricevuto dal Generale Betrišèev, per il quale debbo recarmi dal Colonnello Koskarev, suo parente, a trattare una delicata questione di compravendita di anime» (Nikolaj Gogol', Le anime morte).
    Al che la nostra povera Emma si scosse sul serio. Era davvero troppo curioso, tutto ciò:
    «Compravendita di... anime?! Allora,» disse, spazientita, pensando di essere vittima di uno scherzo di cattivo gusto «ammesso che sappia qualcosa di ciò che mi ha chiesto, di dove si trovi questo Colonnello e chi sia questo suo amico Generale e ognuna delle stranezze di cui mi ha parlato, non direi una parola a qualcuno che mi parli, con simile nonchalance, di compravendita di anime! Ma, dico, si rende o no conto di cosa dice? E' pazzo? Guardi che, se non mi lascia in pace, chiamo la polizia! E certo a uno come lei non dirò mai il mio nome, figuriamoci!».
    A questo punto, Cicikov stesso perse la pazienza, e ribatté alle parole di quella piccola insolente:
    «Eh, no, mia cara! Ora sono io che mi devo lamentare della vostra condotta incomprensibile. Non solo fate la tonta, e non mi volete dire nemmeno il vostro nome, pur sapendo già il mio, quando è più che palese che d'altro non ho bisogno che di un'indicazione stradale, e non cerco certamente di farvi del male in quanto, se così fosse, non avrei assolutamente perso tempo con tutte queste chiacchiere, ma in più minacciate di chiamare questa vostra "polizia", in vostro soccorso. Insomma, vi è chiaro o no che nessuno vi sta minacciando di alcunché e che l'unica cosa che voglio è trovare la strada per un posto dove poter, quantomeno, passare la notte al caldo? E poi, cosa dite mai?! Vi sconcertate perché intendo acquistare un certo numero di anime? Ma che idee sono, queste? Va bene che non siete russa, ma queste idee stravaganti fatemi il piacere di tenervele per voi stessa, che qui in Russia le cose si fanno in questo modo da sempre: io compro la terra, e con la terra mi compro i contadini! E che diavolo! Se no, chi ci dovrei mettere a lavorare la terra, secondo voi? I gentiluomini o le signorine come voi, forse? Questa è peggiore di quell'altra che ho sentito, di dare un'istruzione ai contadini. Ma bravi, fateli diventare sapienti e inutili come tutti i possidenti o i burocrati che infestano questa nostra derelitta Madrepatria. Il contadino deve lavorare, e non studiare; deve lavorare bene per sé e per il Padrone; diventare ricco lui e ricco il Padrone. Poi, se vorrà, potrà diventare inutile come quei padroni che non han che debiti, ma mai che manchino di dare un pranzo o un ballo in società, o che fanno studiare ai figli musica e danza mentre la loro gente muore di fame!» (Nikolaj Gogol', Le anime morte).
    Queste ultime parole fecero concludere a Emma che l'uomo doveva essere matto sul serio: Russia, comprare i contadini con la terra, gentiluomini, balli in società... temendo di perdere il controllo della situazione, e che davvero la questione potesse diventare pericolosa, trovò il sangue freddo e la determinazione per salvarsi da quell'incredibile impaccio. Decise di accondiscendere e di essere gentile, di allontanare da sé uomini e calesse e poi, chiaramente, di chiamare il centotredici.
    Disse: «Avete ragione, mio onesto signore, e dovete perdonare la mia diffidenza iniziale, ma dovete anche comprendere che una signorina che sia fermata da sola, quando ormai è già buio, da sconosciuti, debba prendere tutte le precauzioni possibili per salvaguardare la propria incolumità. Ora mi avete convinto che ciò che dite è vero, che siate un uomo onesto e di poter avere fiducia in voi. Purtroppo, però, non conosco il Colonnello di cui avete testé parlato, neanche di nome. Penso, invero, che siate fuori strada di parecchio. Qui le terre sono di... » si spingeva oltre, con la fantasia, per essere più convincente «...sono di mio padre, è lui il padrone qui e, mi spiace per voi, non intende vendere né terre, né anime. I contadini ci servono tutti. Se però voleste passare la notte al caldo, proseguendo oltre, lungo questa strada, e girando a destra al primo bivio, potrete trovare, a una mezz'ora circa di strada in autob... ehm… al passo, un villaggio in cui trovare quello che cercate. E adesso scusatemi, ma debbo rincasare di tutta lena, perché la mia famiglia sarà già enormemente in pensiero per me, e forse avranno già mandato qualcuno a cercarmi. Addio, e buona fortuna».
    «Ancora un momento» riprese Cicikov «avete appena detto che il vostro genitore possiede anime ma che non le vende. Ebbene, sappiate che io non cerco, per l'esattezza, anime vive, bensì... anime morte!» (Nikolaj Gogol', Le anime morte).
    La poveretta, all'udire quelle ultime parole, trasalì e divenne pallida come la Luna; sentì freddo e cominciò a tremarle il labbro inferiore.
    «Sì, non voglio spaventarvi» continuò l'uomo «io compero le anime di quei contadini che, pur non facendo più parte del mondo dei vivi, risultano ancora segnati come viventi nell'ultimo censimento. Io mi preoccupo di tutte le pratiche e vi risparmio di pagare le tasse che dovreste su quelle anime che furono e che non vi possono più fornire alcun servizio. Vi faccio un enorme favore, in pratica, se me le vendete. Certo, la compravendita resterà sulla carta e voi terrete tutte le salme. Che ne dite, potrei discutere l'affare direttamente con il vostro genitore... stasera stessa?» (Nikolaj Gogol', Le anime morte).
    «E' escluso nel modo più categorico!» sbottò, senza più parvenza di calma, Emma «Mio padre, per vostra norma e regola, non è tipo da immischiarsi in affari di questa risma, che han l'aria di essere illegali o poco puliti! E comunque sia, sappiate che i nostri contadini STANNO TUTTI BENE!».
    «Ah, in questo caso, non vi disturberò oltremodo, e proseguirò per la strada che mi avete indicato. Vogliate comunque portare i miei rispettosi omaggi al vostro caro genitore. Arrivederci, in occasioni meno frettolose e inconsuete». disse allora Cicikov, ma pensò anche: «strega e matta come sei, i tuoi parenti dovrebbero legarti stretta, invece di permetterti di uscire da sola la sera, come le persone normali. Certo che, a casa tua, una notte non ce la passerei di sicuro: chi potrebbe dormire, sapendo di stare sotto lo stesso tetto di gente così squilibrata, buona per il sanatorio? Addio, davvero.» (Nikolaj Gogol', Le anime morte).
    «Addio, matto!» disse tra i denti Emma, mentre il calesse si allontanava. Quella sera Emma fece la sua denuncia alla polizia, al telefono, ma siccome la storia sembrava troppo inverosimile, non le crederono e anzi mandarono una pattuglia a controllare il suo stato di salute psico-fisica; la accompagnarono al pronto soccorso e le diedero un calmante. Passò la notte lì, nonostante dicesse di star bene e che tutto quel che aveva raccontato fosse vero. Tutto fu inutile, e tra l'altro nessuno, per la strada o nel paese, aveva incrociato il calesse del quale andava affermando, con tanta sicurezza, l'esistenza. Non essendo passata da casa e avendo ancora con sé la sua borsa, a quel punto, nel tentativo di riordinare le proprie idee confuse e di darsi una calmata, afferrò uno dei libri che aveva preso in prestito alla biblioteca e si sdraiò per leggere un po'. Non le fu possibile, però, ritrovar serenità in questo modo, e anzi, i suoi nervi furono ancor più scossi nel leggere il titolo del libro che aveva in mano in quel momento, cui non aveva più pensato, ma che adesso imbrigliava la sua ragione in una serie infinita di pensieri e congetture, portandola molto vicino a quei confini che non devono essere varcati. Emma balzò giù dal letto, si mise in piedi, stringendo con forza il volume; le membra spasmodicamente tese, l'espressione incredula, lo sguardo rapito da quel titolo. Sì, sì! Non si stava ingannando! Era proprio quello, il titolo! Era proprio Le anime morte! L'Autore, lo scrittore russo Nikolaj Gogol'.

    I dialoghi di Cicikov sono parafrasi e adattamenti di passi tratti dal romanzo indicato nella citazione.

    Edited by Gnome74 - 30/3/2019, 18:16
16 replies since 16/7/2018
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