Il rifugio dello scrittore

Il bastone

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    Raggiunsi finalmente la tettoia e il ticchettio ossessivo della pioggia si affievolì leggermente. Sbuffai e una piccola nuvola umida aleggiò per qualche istante davanti alle mie labbra, prima che la spingessi via con un secondo, sottile respiro. Ero fradicio. Pioveva da giorni, o forse solo da un paio d’ore, ma non mi pareva nemmeno più di ricordare l’ultima volta in cui mi fossi sentito veramente asciutto. Chiusi l’ombrello e lo legai a fatica con il laccio in velcro, e non appena riuscii ad aprire la pesante porta in vetro un caldo e soffuso chiacchiericcio mi avvolse, regalandomi per qualche istante un’illusoria tranquillità. Presto, però, il tonfo cupo prodotto dalla porta chiusasi alle mie spalle mi fece rotolare addosso decine di sguardi e mi ritrovai, di nuovo, in uno stato di schiacciante agitazione.
    Mi scossi raccogliendo un po’ di coraggio e con decisione gettai il mento in avanti, rilassai la fronte e agganciai il manico dell’ombrello alla piega del gomito, allargando le spalle e gonfiando il petto. “Ci provino a guardarmi, adesso”. Tastando con la punta del bastone il pavimento in finta pietra, ripresi la mia sfilata verso il bancone, sicuro di non trovare ostacoli di fronte a me: erano anni ormai che nessuno intralciava il mio cammino. “L’uomo più rispettato della città”, rideva il piccolo Mattia. Sì, forse lo ero davvero, perché se anche avessi deciso di urtare intenzionalmente qualcuno, neanche un matto mi avrebbe potuto incolpare. E sfido io! “Perché i vecchi vanno rispettati”, spiegava lui mentre sorridevo della sua pura ingenuità di bimbo. Ma il sorriso era duro da risvegliare in quel locale affollato: per quanto desiderassi camminare fiero e dritto come un tempo, quel bastone mi tirava al suolo, costantemente, mi curvava la schiena e mi faceva inciampare, accorciava i passi e li rendeva insicuri, incerti, instabili.
    Quel bastone era, in tutto, la mia rovina. Era quello, e nulla più, a rendere le persone curiose, a farle voltare, bisbigliare, scappare. E scusarsi. Si scusavano tutti, di continuo. Mi scusi, signore. Posso aiutarla, signore. Faccio io, signore. Puah! Ero nauseato, e non nascosi una smorfia di disgusto quando sentii l’ennesima inutile scusa di miele. Un ragazzo, probabilmente arretrando distrattamente, si era scontrato con il mio dannato bastone e si era subito sciolto in mille scuse. Sentivo la sua mano forte stringermi il gomito, il suo viso avvicinarsi, i suoi occhi perforare gli occhiali e insinuarsi dentro ai miei. Mi fissava, così, come se potesse farlo. E mentre insisteva per farmi strada fino al bancone, lottavo inerme quella sensazione amara in fondo alla gola, quell’odio e quell’insofferenza che solo il servilismo dei ragazzi mi può dare. Altro che egoisti, altro che distratti erano i giovani attorno a me! Bramavo quel menefreghismo tanto millantato, speravo ogni volta di attraversare la strada solo, stordito dai clacson e dagli insulti degli automobilisti, di salire su un bus senza aiuti, pagando il biglietto, di subire sbuffi esasperati per aver rallentato la coda alla cassa. Ma era solo fantasia, ormai: ovunque sarei andato, con quel bastone a tirarmi e quegli sguardi a schiacciarmi, impregnato di una pioggia persistente, avrei camminato ogni giorno più curvo, più lento, più pesante, fino a quando, presto o tardi, mi sarei ritrovato a gattonare per strada, a strisciare battuto dal carico incessante.
    Ma non era quello il giorno. Mi rifiutai, categoricamente, di farmi aiutare, di farmi compatire, di cadere.
    Con uno strattone stizzito mi liberai finalmente dalla prigionia di quella gentilezza, risistemai saldamente l’ombrello al gomito e proseguii cercando di concentrarmi unicamente sul leggero tamburellare del bastone sul pavimento bagnato. Era impossibile, tuttavia, perché le persone, carnefici e boia, non sembravano intenzionate a porre fine a quell’orrendo chiacchiericcio che non mi dava pace, che mi si intrufolava nelle orecchie e vi si accoccolava come un gatto pigro, il pelo bagnato e le zampe sporche di fango. E, come fango, tutto si mescolava e si impastava nelle mie orecchie, e nemmeno la punta del bastone riusciva più a farsi strada in quella poltiglia di suoni. Il rumore, la pioggia, gli sguardi... tutto concorreva a dannarmi, a inzupparmi sempre di più, a rendere denso e impenetrabile il buio in cui brancolavo.
    Improvvisamente, scosso da un brivido, iniziai a sentirmi perso e fui costretto a fermarmi: il bastone galleggiava a pochi centimetri dal pavimento, la bocca mi si impastava, le spalle cadevano sconfitte. Quel ragazzo, quel giovane presuntuoso! Mi aveva fatto perdere il conto dei miei passi e, adesso, mi era impossibile ritrovare la strada verso il bancone. Lo aveva fatto apposta! Lo sentivo prudermi dietro la testa, il suo riso soffocato, il suo pavoneggiarsi per essersi preso gioco di me... di me! Ribollivo, incredulo, di una rabbia acida, ma mi trattenni dal mostrarlo. Non gli avrei mai concesso una sola briciola di soddisfazione in più: era già troppo quello che si era preso da me. Tutti si erano impossessati di un pezzo della mia dignità, mi avevano spinto un po’ più in basso, mi avevano rubato una scintilla in più della mia vecchia luce, ed era unicamente colpa loro se mi ritrovavo a strisciare nell’ombra, ad affogare nelle sabbie mobili della loro luminosa giornata qualunque! Porci!
    Mi girai di scatto e cercai il suo riso, ma davanti a me trovai decine di arcieri scoccare sguardi che, uno dopo l’altro, si conficcavano nel mio petto lasciandomi senza fiato. Annaspai e strinsi forte il manico del bastone, ne feci strisciare la punta a terra e iniziai a girare su me stesso, perso e dannato sotto quella pioggia di scherno. Mi rifiutavo, ancora, di crederlo, ma per quanto cercassi di riemergere, l’oscurità mi aveva inghiottito. Come un ballerino impacciato mossi qualche passo incerto in quella pista senza luci, ma mi dovetti presto arrendere e, infine, lasciai che quel buio mi cullasse, che le gocce di pioggia mi scorressero sulle tempie e sulle dita, e che quel frastuono mi intontisse ancora di più, rendendomi sordo oltre che cieco.
    Fu allora che arrivò. Quel sorriso pungente e quella voce acuta, le dita affilate e quell’inconfondibile, inaccettabile, inopportuno stringermi la spalla e afferrarmi di sotto l’ascella.
    “Signor Bianchi, buongiorno! La accompagno al solito tavolo?”
    Mi trascinava, ma dal mio buio riuscivano ad emergere solo dei brontolii animaleschi, lenti e sconnessi. Ormai, che senso aveva ribellarsi? La mia faccia era immersa nel fango, i miei occhi sporcati per sempre, la mia schiena costellata di frecce e pugnali. Parlava, con la sua vocetta infantile, mentre mi faceva piroettare per il locale, parlava della pioggia, di quanto lo infastidisse quella nuova canzone alla radio, di come anche suo fratello avesse iniziato l’università. Mi prese il bastone e lo appoggiò alla sedia, “lo poso qui signor Bianchi, così lo ritrova subito”, poi mi tolsi il cappotto fradicio e lo affidai a lui, sconfitto. Mi accasciai esausto sulla sedia e rivolsi il mio volto sofferente al cameriere più entusiasta e affezionato che avessi mai avuto la sfortuna di incontrare.
    “Ma che ti ho fatto, Luca? Perché mi tormenti di parole oggi? Piove, governo ladro, è già una giornata di merda anche senza i tuoi sproloqui sconclusionati.”
    Tacque per un istante, poi una risata nervosa e imbarazzata lo riportò immediatamente in carreggiata. Abbassò leggermente la voce e sentii il suo viso avvicinarsi al mio.
    “Mi scusi, signor Bianchi, lei ha ragione. È che oggi sono davvero contento. Sa, quel progetto di cui le parlavo le settimane scorse? Il capo finalmente ha ceduto e mi ha dato ragione.”
    La sua speranza di una mia reazione mi innervosì ulteriormente, ma, dato quanto poco desiderassi prolungare la mia agonia, gli chiesi di che diavolo stesse parlando.
    Emise uno squittio contento, si allontanò di pochi passi e ritornò saltellando verso di me. Scostò la sedia e uno stridere acuto mi scosse, si sedette con pesantezza e fece traballare il tavolo sporgendocisi sopra.
    “Ecco, ecco di cosa parlo!” Mi prese la mano e me la premette sul foglio plastificato che aveva fatto scivolare davanti a me.
    “Abbiamo fatto stampare il menù in braille. Controlli, c’è tutto sopra, dalla caffetteria agli snack, i panini, le birre, gli amari... adesso potrà scegliere per conto proprio, come tutti gli altri clienti, senza dover sempre venire al bancone. Non è contento?”
    Passai un paio di volte le dita sui fogli, decifrai alcune parole, lo sollevai e ne valutai il peso per qualche istante, poi lo lasciai ricadere sul tavolo. Sentivo il suo sguardo posarsi sul mio viso, il suo respiro corto e affannato, il suo piede trottare sotto al tavolo. Sospirai scuotendo la testa e mi ritrovai a borbottare, con un filo di voce: “Non ci sono i piatti del giorno.”
    “Ehm... no, signore, quelli sono scritti sulla lavagnetta all'ingresso...li dovrà comunque chiedere a noi”
    Quasi sorpreso dall’esser stato sentito, mi scossi e passai il fazzoletto sul collo ancora umido. Mi voltai verso la stanza brulicante di chiacchiere, nuotai in quel buio viscido e appiccicoso, mi chiesi se le pareti fossero bianche o colorate, se la ragazza nuova fosse carina, se ci fosse ancora quel quadro appeso sopra alla cassa che piaceva tanto a Piera. Scossi la testa e piantai i miei inutili occhi su quello che ero sicuro essere un ragazzo emaciato, coi baffi radi, gli occhi scavati e i capelli tagliati troppo corti.
    “No, Luca, non sono contento.”
    Ma un sorriso mi tradì, correndo fugace sulle mie labbra raggrinzite. Come doveva sentirsi abbattuto, quel ragazzo così buono, per non essere riuscito neanche quel giorno a migliorare il mondo. Risi piano e curvai la testa verso il tavolo, domandandomi per quanto tempo avrebbe resistito prima di arrendersi anche lui. Spinsi di nuovo il menù sul tavolo fino a farlo scontrare sulle sue braccia, poi tornai serio e gli chiesi, con la stessa stanca premura di chi si scusa:
    “Forza, dimmi, cosa ha cucinato oggi Marta?”
     
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    Ciao gre,
    peccato che il mio microfono "buono" si sia rotto, perché quando ho letto il tuo bellissimo racconto mi sono sentito spinto a trasformarlo in un'audiolettura. Forse lo farò...
    Il brano ha un ritmo eccellente nonché sfumature colte, sapienti. Il contenuto, poi, è molto pertinente, perché ho una cognata non vedente, che mi racconta cose del tutto simili a quelle del tuo protagonista. Le espressioni creative, molte e ben pensate, trovano l'apice nel periodo che qui riporto:

    E, come fango, tutto si mescolava e si impastava nelle mie orecchie, e nemmeno la punta del bastone riusciva più a farsi strada in quella poltiglia di suoni. Il rumore, la pioggia, gli sguardi... tutto concorreva a dannarmi, a inzupparmi sempre di più, a rendere denso e impenetrabile il buio in cui brancolavo.

    Applauso !
     
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    Ciao Axum,
    grazie molte per i complimenti, fin troppo generosi.
    Ammetto che questo brano è stata un po' una sfida che mi sono voluta porre, sia perchè ho descritto situazioni che (per fortuna) non ho mai vissuto personalmente, sia perchè ho sempre avuto un po' di difficoltà a scrivere in prima persona, anche se è una tecnica che vorrei esplorare maggiormente...spero di riuscire a postare presto qualche altro "esperimento", confidando come sempre nei preziosi consigli della community ;)
     
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    Un brano molto intenso. La ricerca del protagonista di sentirsi uguale agli altri. E nel suo stato di non vedente riuscire a cogliere il mondo attorno a sé in maniera sorprendente.
     
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3 replies since 13/5/2021, 10:12   68 views
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