Il rifugio dello scrittore

La rabbia

Breve scorcio di un arrabbiato

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    Con uno sbuffo breve aprì la vetrata scorrevole della terrazza, facendosi investire dall’aria ancora fresca dalla notte. Raggiunse lentamente la ringhiera e vi si appoggiò con pesantezza, cercando di gettare lo sguardo più lontano possibile: una luce irreale, umida e azzurrognola, avvolgeva la città, tenendola sempre più distante.
    Affondò il volto in quella nebbia vivace mentre lottava per ricordare quanto tempo fosse passato dall’ultima visita di Mario. Scosse leggermente la testa e confuse i mesi con gli anni, rinunciando infine alla conta. In fondo, poco importava quanto tempo fosse passato: come la piena di un fiume, ogni volta che tornava invadeva ogni suo pensiero e lo lasciava preda di una rabbia leggera, costante e subdola come un ronzio impossibile da placare.
    Si girò di scatto e fece correre lo sguardo sul terrazzo. Piccole gocce di pioggia ancora brillavano sul tavolo bianco, sulle gambe sottili delle sedie, sui grandi vasi rovesciati. I cuscini dei divani, la terra smossa nei grandi contenitori incolti, le cartacce marroni e i mozziconi schiacciati… tutto era impregnato di pioggia, tutto portava con sé quell’odore stantio di marcio, tutto sembrava irrimediabilmente corrotto.
    Vide un’ombra muoversi lenta dietro al vetro, e per un istante riconobbe la figura pigra e molle della domestica. Ebbe forte l’impulso di raggiungerla e urlare, perché poche cose gli davano più soddisfazioni che urlare contro Lucìa, gettare addosso al suo corpo minuto la sua imponente ombra, vederla irrigidirsi e indignarsi, impotente. Quando le parlava, la sua pelle olivastra e lucida si tirava come un pallone da rugby mentre i suoi occhi piccoli e neri lo guardavano con rabbia e rassegnazione. Non poteva dire nulla, bloccata e contusa nella sua rabbia orgogliosa, e si limitava a guardarlo sopra la spalla, col busto dritto come un’asse di legno, il mento incassato fra le spalle larghe e il petto rigonfio nel trattenere il fiato. Si divertiva a farla gonfiare d’indignazione, si immaginava come, con una leggera spinta, potesse farla sbilanciare, far cadere quella roccia, vederla rotolare via, pesante, veloce, rimbalzando sui suoi mobili, schiacciando i suoi panni, schivando la sua spazzatura.
    Pareva indistruttibile, Lucìa. Nonostante non gli arrivasse poco più sopra dell’ombelico, sembrava pesare quintali, ed era convinto non sarebbe stato in grado di sollevarla se ci avesse provato. I suoi passi erano corti e pesanti e le sue ginocchia sembravano costantemente piegate sotto il peso insistente di quel bacino stretto, costringendola a una camminata rigida e lenta. Parlava poco, ma borbottava spesso e grugniva come un animale selvatico. La vedeva, ogni tanto, muovere rapida le mani piccole e scure nel segno della croce, la sentiva ogni tanto mormorare in una lingua a lui sconosciuta con gli occhi rivolti al soffitto, le labbra socchiuse, il naso arricciato. Lo guardava, poi, con la rabbia contenuta di una donna forte, di un bastone di ferro.
    Gli mancava, Lucìa. Era entrata in casa, settimana scorsa, come aveva fatto ogni lunedì, mercoledì e sabato degli ultimi sette anni. Aveva aperto la porta, aveva salutato con la sua voce roca e maschile, si era tolta le scarpe e aveva indossato il grembiule blu scuro in maniera meccanica. Aveva poi sollevato lo sguardo facendolo navigare per la stanza disastrata, si era soffermata a guardare i cuscini caduti a terra, il banco della cucina ricolmo di stoviglie, le sedie sparse come biglie. Per un secondo, i suoi occhi sembrarono perdersi nella luce forte della mattina, poi la grossa testa quadrata le ricadde sul petto, accompagnata da un lungo e rumoroso sospiro. Slegò il nodo che si era appena stretta in vita e gli infilzò i due occhietti vispi in mezzo alla fronte.
    “Me ne vado, signore”. Signore. Era l’unica che lo avesse mai chiamato così. Era troppo, diceva, quella casa, quel disordine, quei suoi periodici e vuoti rimproveri. “Sono troppo vecchia, signore.”
    Lucìa era una di quelle persone tenaci che ti tengono ancorato alla vita, e vederla girare per casa coi suoi passetti corti e pesanti lo riportava a uno stato di coscienza che spesso gli risultava impossibile trovare, soprattutto certe mattine. E questa, più di tutte, era una mattina in cui avrebbe voluto che qualcuno fosse lì, a pregare di nascosto davanti alle sue stramberie diaboliche, a guardarlo con il disprezzo contenuto di chi non può parlare, a raccogliere, uno dopo l’altro, i cocci su cui camminava. Avrebbe avuto bisogno di qualcuno contro cui urlare, di qualcuno che gli ringhiasse con odio. Invece, in quella luce cristallina e innaturale, era solo il suo rimprovero a guaire, lamentandosi come un cane randagio.
    Alzò lo sguardo e si sentì avvampare nello stomaco un fuoco di rabbia. Stringendo i pugni, si diresse a passi lunghi verso la porta finestra e la aprì con un gesto fermo e violento, lasciandosi invadere dalle vibrazioni del vetro. Fra tutte le emozioni, la rabbia era quella che preferiva. Rapida e improvvisa, cresceva in lui e lo conquistava completamente, impregnava ogni sua fibra e ogni suo pensiero, lasciandolo in balia di un’urgente necessità, indefinita e incontrollabile. Sì, pensava Bruno, la rabbia era l’unica emozione in grado di colmarlo, e la accolse con un sorriso sottile.
    Davanti a lui, immobile, Mario lo guardava. Col viso allungato e la barba rada, gli rigettava in faccia tutta l’insolenza di chi ha visto un film troppe volte, e rimane indifferente ai colpi di scena. Con ostinazione mostrava spavaldo le braccia magre incrociate sul petto, i piedi scalzi sul tappeto scuro, il mento alzato a mostrare un collo nervoso. Saldo sulle gambe divaricate, guardava suo padre abbaiargli in faccia, pregustando già il momento del contrattacco.
    Avevano sempre litigato, urlato, lottato, e minore era la frequenza dei loro incontri, maggiore era la fermezza con la quale si sfidavano. Come galli, si rincorrevano con le parole, si afferravano sbattendo le ali arruffate, scappavano feriti nella polvere, e poi, ancora, si dimenticavano del dolore e attaccavano di nuovo, duramente, ciecamente. Galli in lotta. Tanto più ardente era l’attacco di Bruno, tanto più forte la risposta di Mario, e così continuarono a battersi allo stremo della ragione, a ribaltare ogni logica sul tavolo, a odiarsi senza altre condizioni.
    I minuti passarono correndo su di loro con zampe leggere di ragno, rapidi e inafferrabili, e tutto faceva presagire che quella battaglia sarebbe durata a lungo. Presto, però, Bruno si ammutolì di colpo e il tempo iniziò a pesare nuovamente, ricadendogli sul capo come ghiaia. Immobile, le labbra schiuse, il busto gettato in avanti, i piedi incagliati nel pavimento, patì una a una le ferite, ne sentì il dolore acido e pungente attraversargli le braccia e le gambe e lo assaporò sopraffatto dalla sorpresa. Lentamente, sentì il fuoco abbandonarlo, e con terrore lo vide avvampare nel corpo agile di Mario, corpo di carta.
    Rivolse a quel piccolo rogo davanti a sé uno sguardo bianco, governato dal timore: lo riconosceva. Vedeva ancora suo figlio dietro a quella figura, ma quella rabbia, quell’odio esplosivo, quel cieco battagliare, quello era lui. Le sue accuse e i suoi rancori, ululati confusi, gli giunsero finalmente alle orecchie, e vedeva negli occhi azzurri di suo figlio la stessa luce, lo stesso lampo che accecava i suoi. Fece un passo indietro senza accorgersene, arretrava sotto quei colpi costanti, poi serrò la bocca e si diresse verso la porta. Sentiva le pugnalate conficcarglisi nella schiena, i passi diventare sempre più pesanti e la stanza allungarsi, deformarsi, rendersi infinita. Dubitò d’un tratto di avere la forza necessaria a raggiungere la porta e girare la maniglia, ma presto si ritrovò a scivolare sull’uscio e arrancare verso quella luce fredda e tagliente, immergendovisi come un pesce.
    Aveva passato anni a scappare da quell’idea, ma ora gli si poneva davanti come una certezza, chiusa e inevitabile. Per quanto avesse provato, per quanto si fosse sforzato, non era riuscito a stare abbastanza lontano da suo figlio per salvarlo dal suo ineluttabile, infelice destino. E lui, sebbene lo avesse rifiutato con forza e decisione, ci si era, infine, sottomesso. Mario era, in tutto, uguale a lui. Forse era stato proprio il suo essersene andato quando era bambino ad averlo riempito di rabbia; forse, invece, era inevitabile, perché ciò era scritto nei suoi geni. Geni che, naturalmente, gli aveva trasmesso lui.
    Camminava, ribolliva, si odiava. Cacciava con tutte le forze quella frase, quell’accusa, quella certezza, ma lei rimaneva lì, fissa come un chiodo arrugginito. Voleva riempirsi di rabbia per non lasciarle spazio, ma non riusciva. Non riusciva a riempirsi di nulla, in quel momento. Si sentiva, miserabilmente, vuoto. Vuoto e colpevole. “È colpa mia”, si disse, ma quella sentenza rimase sospesa, come un dubbio, come una domanda. Se lo ripeté di nuovo nella testa, una, due volte, poi fece una pausa e iniziò a sussurrarlo, a ripeterlo a voce sempre più alta, con una maggiore decisione.
    “È colpa mia”, decise, piantando i piedi a terra e drizzando la schiena in un infantile moto di stizza.
    Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a essere arrabbiato. Si chiese, con un brivido di panico, se per caso non avesse finito tutta la sua rabbia, se non la avesse già spesa tutta, e ora ne fosse svuotato. Si fermò e guardò le punte umide delle scarpe luccicare sotto ai raggi flebili del sole. Alzò la testa e cercò in quella strada deserta qualcosa cui aggrapparsi, ma continuò a sentirsi scivolare, attimo dopo attimo, come il più viscido dei pesci. Si guardò le mani ed erano spoglie, i palmi bianchi, i solchi delle nocche ridicolmente definiti. Chiuse i pugni, stringendo forte le unghie nella carne, cercando ancora di risvegliare un po’ di rabbia, ma rimase vuoto. Vuoto in quella strada in mezzo al niente. Vuoto a scappare da casa sua, inseguito da una domanda che era una certezza, gli occhi ciechi e le orecchie sorde, pestando le scarpe nel cemento fresco.
    Scosse la testa con decisione e spiò con la coda dell’occhio le pareti bianche della casa brillare lontane e lanciargli assordanti grida di scherno. Seguì l’andirivieni frenetico delle macchine, rumore costante e invisibile, poi fece un passo in avanti e chiamò, il braccio teso all’altezza del bacino, un taxi che correva verso nord. L’auto si fermò stridendo una decina di metri più avanti, e dal finestrino abbassato una mano nervosa gli intimò con un gesto di sbrigarsi. Un torrente di clacson evitava fluidamente il nuovo intoppo, e arrabbiate le macchine continuavano la concitata corsa del martedì mattina.
    Nel piccolo abitacolo cercò disperatamente di riaversi, fece cadere la nuca sul poggiatesta troppo basso, allargò le gambe invadendo il sedile centrale, si scrocchiò le dita una a una, gli occhi fissi sulla strada. Guardò il piccolo schermo del navigatore, le manopole lucide della radio, la plastica dura del cambio.
    “Allora, hai deciso dove andare?”
    Proseguendo a nord, sarebbe uscito dalla città. Avrebbe iniziato a vedere, piano, i campi coltivati susseguirsi ai giardini delle ville, l’erba brillante sarebbe morta sotto al caldo colore giallo del fieno falciato, i filari di pioppi avrebbero disegnato geometrie sfuggenti davanti ai suoi occhi, e piano la campagna si sarebbe mangiata quell’ultimo rigurgito di città. Gli sarebbe piaciuto starsene un po’ in mezzo a quegli odori, curiosare fra i sentieri dritti e regolari, salutare un cavallo dietro una staccionata troppo bassa. C’era una fattoria, a quindici minuti di strada veloce, in cui si potevano comprare formaggi di capra e i cui proprietari, mossi dalla gentilezza servile di chi guarda alla città con timore e desiderio, avevano i volti scavati dalle rughe.
    “La conosce la fattoria Corsi?”
    “Quella delle capre? Certo”
    Esitò per un secondo, guardando i filari di alberi correre vicino al finestrino e nascondersi alle sue spalle.
    “Svolti all’intersezione subito prima, rientri in città e si diriga al distretto ovest. Eviti il quartiere finanziario, è una follia a quest’ora. Poi vada verso Studio34”
    Sfiorò col naso il vetro del finestrino, fissando lo sguardo sulle piccole macchie scure lasciate dalla pioggia e dalla polvere.
    Ripensò a quella notte in cui si era intrufolato nei recinti della fattoria, trascinando Rosa in mezzo alle zanzare, tenendole una mano sulla bocca e l’altra attorno alla vita, intimandola, ridendo, di fare silenzio. Lei barcollava ubriaca sulle zeppe di corda chiara, affondando regolarmente nell’erba alta, tanto che decise infine di sollevarla di peso e portarla, correndo, fin dentro al grande fienile rosso. I suoi capelli si confondevano con il fieno dorato, la sua pelle arrossata dal caldo estivo si bagnava di un sudore leggero e fruttato, la sua risata esplosiva era un afrodisiaco irresistibile.
    “Ci porteremo i nostri figli” le aveva detto, annaspando nell’azzurro dei suoi occhi, “li porteremo a giocare con le papere del laghetto, a dare da mangiare ai porci e a imparare come far cagliare il latte.”
    Gli sembrava impossibile essere stato così innamorato, stupidamente innamorato di lei. E, ancora una volta, si sentì svuotato nel tentativo di contare quante volte, negli anni che erano seguiti, avrebbe potuto mantenere almeno quella promessa.
     
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    Lo trovo un bel racconto. Quella del padre che vede se stesso come in uno specchio guardando al figlio è la parte che più mi è piaciuta. Non ho ben compreso la domestica, ovvero: in un lampo Bruno la riconosce, poi però emerge che se ne era andata, e gli mancava. Intendevi forse che gli era parso di riconoscerla? Se mi posso permettere, forse si dovrebbe arrangiare qualche vocabolo, qualche preposizione.
     
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    Grazie molte.
    Per quanto riguarda la parte della domestica, hai capito bene: Bruno, abituato a vederla (e speranzoso di vederla), scambia la figura del figlio per quella di Lucìa. Mi rendo conto che questa parte possa essere un po' fuorviante ed effettivamente potrei potrei inserire subito qualche vocabolo per far capire che quella è unicamente un'illusione, ma ho cercato di far scoprire per gradi il personaggio al lettore, proprio come lui stesso prende coscienza gradualmente della sua situazione e di come le sue azioni abbiano avuto effetti sulle persone a lui vicine.
    Grazie ancora per il consiglio!
     
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    Mi fa piacere essere stato di aiuto. Non demordere.
     
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