Il rifugio dello scrittore

L'ombra del padre

Per quanto amati, se ne vanno.

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    L'ombra del padre.

    Sedeva il padre volgendo le spalle alla porta. La stanza dell'ospedale era satura del chiarore lattescente del cielo di luglio, nel cui dilavato cilestre navigavano solitari radi bioccoli, giocosi sbuffi di vapore orpelli dell'immenso, pennacchi sperduti pettinati dalle brezze.
    La città pareva poggiata sull'ampio davanzale. Tremolava nel miraggio del calore, come capitale fantastica e cangiante d'un regno fiabesco, diademata d'azzurre colline. Cadevano da lontano nella camera silenziosa i tonfi delle gocce di metallo che piovono dalle torri campanarie sui rossi tetti al mezzogiorno.
    La figura era nera contro i finestroni bagnati dalla luce del mondo colmo della viva estate. Le scheletriche spalle, incapaci di contrastarla, precipitavano, vinte dall'opera caparbia dell'infaticabile gravità. La testa reclinata era volta al pavimento, e la volli immaginare pervasa d'insondabili pensieri. Salivano dal suo corpo i tubi e le cannule delle perfusioni, sino al culmine di un'asta di metallo che gli era compagna indispensabile al fianco: come son fissate dai sacri artisti di quelle antiche civiltà le volute dell'aura divina che circonda gli esotici dei dello Shinto, che nelle iconografie svaporano spiraleggiando verso il cielo di cui quelli sono discesi abitatori, così sfuggiva a gocce l'anima sua verso l'alto, condotta a destino dalla plastica trasparente dei tubicini.
    Risalendo l'erto marciapiede che s'inerpicava sulla collina dell'ospedale nuovo, l'ostinato rifiuto dell'ineluttabile aveva cavato dai penetrali della memoria le parole di cento libri. Consolatorî ed estranei versi d'un carme innalzato ai futuri ed alle speranze, lasse di un didascalico canto che lenisce l'afflizione ed allontana le paure, rivestivano d'una maschera sottile e fragile quell'inganno in cui si cade per codardia e per amore. Il retorico affabulare delle parole altrui raccolte per confortare, altro non era che recar conforto a me stesso, coll'illusione d'avere ancora tempo, di poter postulare una tregua alla malattia ch'è sorda alle suppliche, di beneficiare d'una dimenticanza improbabile da parte della meticolosa signora morte, che d'ogni vivente s'era sempre ricordata.
    Era, il mio, null'altro che un vile atto d'egoismo. Od almeno tale mi sembra quando oggi lo ripenso.
    Solo che ci fosse. Volevo solo che potesse restare. Mi bastava la presenza, da qualche parte. Ovunque. Non importava dove. E per sempre.
    Il disperato vuoto delle introvabili parole mie si riempiva delle altrui, effimera cosmesi dell'angoscia.
    Una concione bugiarda preparata con dovizia prese corpo mentre scalavo a lesti passi la collina, depurata accuratamente, e con somma presunzione, di quei lemmi che credevo sconosciuti alle semplici orecchie d'un antico contadino, use alle parole quotidiane, ai termini ordinari: quelli cioè delle cose vere.
    Eppure tutto ciò che riuscî a pronunciare fu soltanto "Ciao, papà". Io, interprete smemorato d'un dramma che nessun suggeritore poteva venire a soccorrere, non seppi dire altro: le parole prese a prestito rimasero mute: s'erano cancellate dalla mia mente in un istante, confinato il mio eloquio all'infinita dimensione di ciò che fu pensato, prigioniero dell'inesauribile universo di tutte le possibilità mai realizzate. Fuggirono rapide, quelle parole, come gatti nella sera, quando venni percosso con violenza, alla sua vista, dalla fulminante consapevolezza d'una presagita e nascosta verità, profonda ed immutabile, celata sotto il velo di pietà disteso dagli accidenti della vita d'ogni giorno: la cognizione cioè della presenza necessaria, in un imprecisato momento nel futuro, di un ultimo giorno legato ad ogni cosa, ad ogni vita, e la consapevolezza che il suo fosse arrivato.
    Mi colpì d'un pugno allo stomaco.
    Una verità dolorosa, tanto evidente quanto inaccettabile. Era malato: molto malato: soprattutto: era vecchio. Me ne accorsi in quell'istante. Tutto d'un tratto. All'improvviso. Non fui fanciullo mai più, ma uomo da allora: poiché tra i due, il secondo è maledetto dal sapere, dalla conoscenza dell'abisso della fine che il bambino ignora, percepita coi più nascosti sensi, e legatasi indissolubilmente ai giorni restanti della sua esistenza.
    Alzò appena il capo reclinandolo debolmente verso di me, sforzandosi di riorientare gli occhi di sotto le ispide e canute sopracciglia. Mi guardava, colla testa ancora in parte abbassata. Mi guardava, forse, senza vedere.
    Le verdi iridi si scoloravano in macule castane là dove i loro raggi abbandonavano il netto margine delle pupille scure: due puntolini neri nella cascata della luce del meriggio. Quegli occhi che s'erano aperti ai primi chiarori dell'aurora sin dagli anni più teneri e lontani, erano induriti in due palle di vetro, opachi.
    I capelli grigi e spettinati s'adagiavano in ciocche ineguali sulla fronte pallida, disegnando l'ordito sulla trama delle rughe: fili d'argento rilucenti dell'oleoso umore sebaceo secreto dalla malata immobilità.
    Le grinze incise nelle gote e intorno alla bocca eran marcate dal grigiastro tratteggio della barba trascurata, come ispessite dalla beffarda matita d'un irrispettoso disegnatore. Le labbra sottili eran piagate, disseccate dal male, e s'aprivano in rosse fenditure che la lingua inumidiva di continuo con un rapido esporsi.
    Dal biancore della faccia che il dolore aveva smagrito s'allungava il bel naso diritto d'un eroe latino, a cui il volto, prosciugandosi, aveva abbandonato la scena, quasi ritiratosi non sentendosi più degno d'esserne ornato.
    La pelle del suo collo ossuto, da cui sfuggiva qualche pelo allungatosi in disordine, s'era ritratta attorno ai tendini che incorniciavano la gola.
    Da una vena sotto il suo orecchio ascendevano all'asta le cannule del suo nutrimento e delle droghe che davano sollievo al suo dolore, aspirandone lo spirito, rispettose d'una indefettibile legge di conservazione che preserva gli equilibri: sollievo a te, l'anima a me. A brani. Un poco per volta. Do ut des.
    Di sotto al pigiama azzurro premevano le cuspidi delle ossa, liberate ormai della più parte delle carni, come il montante spinge il tessuto nel culminare d'una tenda dei circhi. Le forti braccia s'eran ridotte a due bastoncelli rinsecchiti e nodosi, martoriati dai lividi blu lasciati dagli aghi.
    Le sue dita torte dai dolorosi spasmi dell'artrite giocavano col lembo del lenzuolo, come se lavorasse a maglia con invisibili ferri. Sgranava coi polpastrelli l'orlo del drappo intento a percorrere le ultime perle del rosario di un'esistenza fatta di monete risparmiate in un barattolo di latta svuotato del suo contenuto di pomodori in conserva: per i figli: per i nipoti; di sigarette fumate a metà, poi spente con cura e attentamente deposte nel taschino, od incollate all'angolo dei labbri, per seguitare a fumarle dopo, ancora per un po', così da non sprecare il prezioso tabacco e prolungare diluendolo quel ruvido piacere, suo unico vizio; fatta delle dure callosità procurate dal manico della vanga e dalla presa sulla pesante scure che spezzava i ciocchi per la stufa della cucina, l'ambiente vivo della casa dove ribollivano le minestre, unico calore concesso nel gelo degli inverni; della gioia e del peccato di ostentato orgoglio per quel figliolo che s'era messo in capo la corona d'alloro del dottore: il più dorato dei frutti maturato sull'albero dei secoli attraversati dalle incalcolabili generazioni nate dalla terra, vissute per la terra, e ch'eran tornate alla terra come in quell'unico luogo che avrebbe dato loro sicuro asilo, che le avrebbe accolte mettendo termine alle loro miserie. Cercava con insistenza quelle pietruzze dell'avvenire che la mano fattrice del suo destino aveva obliterato d'inanellare sul filo della sua vita, rinnovando l'eterno ripetersi dei gesti atavici della nostra gente millenaria. Inarcava le sopracciglia, quasi sorpreso dal non trovarle.
    Mentre le sue grandi mani nodose tastavano il dirupo dei suoi giorni, la mia mente percorreva a ritroso i grani del rosario dei ricordi, rivivendo i lampi dei morti anni lontani che non tornano più.
    Gl'anni d'ardore giovanile in cui le derogazioni al buon costume ed al rigore dell'educazione venivano punite con la cinghia: l'albero giovane deve essere legato coi lacci ad un solido bastone piantato ben saldo a terra, al suo fianco, per crescere diritto, diceva, a forza quando occorre. E suo padre a lui. E prima ancora suo nonno a suo padre: ogni generazione s'era preoccupata d'allevare la successiva tramandandole quelle stesse immutate parole, che avevano navigato intatte lungo il fiume del tempo sino a me, e che ancora avrebbero navigato dopo di me.
    Le passeggiate mattutine nei boschi di castani, rovesciando con un legno raccolto per via il mucido sottobosco precipitato dall'autunno, alla ricerca di quegli involucri spinosi dentro i quali maturano i marroni, da abbrustolire sul ripiano rovente della stufa. Rivivevo sulle dita tenere del bimbo che fui le punture degli spilli che li proteggono, e rivedevo i suoi gesti mentre mi svelava il segreto del come sgusciarli colle scarpe, senza pungersi, e senza schiacciarne il prelibato contenuto. O dei funghi che crescono dopo le piogge, più abbondanti sono meglio è, diceva, a volte in bella vista, altre di nascondone, come clandestini, negli incavi dei tronchi mezzi marci, frutti della terra di cui eran conosciute tre specie soltanto: questi si mangiano, quelli no, quest'altri si vendono. Ne riempivamo sacchi interi separandoli secondando quell'essenziale distinzione, l'unica alla quale ancora oggi sia riuscito ad assegnare un vero significato.
    Il tepore dei corpi di mamma e papà in quelle rare mattine delle domeniche di gennaio nelle quali indugiavano nello scambiarsi tenerezze sotto le pesanti coltri che ne preservavano il caldo alito dalla inane dispersione nella fredda stanza del piano di sopra, preclusa al calore della stufa. Quel tepore che mi regalavano, riservando a me che li raggiungevo dalla mia stanzetta intiepidita dalla canna fumaria che l'attraversava diretta al comignolo, la più cospicua dose di coccole. E godevo del loro calore. Così raro, così prezioso.
    Ricacciando le lacrime impazienti di prorompere dai loro dotti, colla gola contratta dalla presa della nostalgia, dentro di me chiedevo scusa.
    Scusa per i capricciosi eccessi del bimbo che non voleva andare all'asilo d'infanzia, perché detestava il grembiulino coi quadrettini azzurri del maschietto, ed il fiocco blu legato al collo, che la mamma aveva cucito colle sue mani e che s'incaponiva a credere meno pregiato di quelli degli altri bambini, perché a loro i genitori l'avevano comprato.
    Imploravo perdono per ognuna delle volte in cui, coll'ostinazione del fanciullo, gl'avevo richiesto un balocco in regalo, un giocattolo che lui non poteva permettersi di comprare: gli altri bimbi lo avevano. Abbassava lo sguardo allontanandosi, non rispondeva: si vergognava della muta vergogna di chi si vede incapace di accontentare il figliolo.
    Chiedevo scusa per le occasioni in cui, vedendolo incerto nello scrivere le più semplici parole, lo avevo deriso dentro di me. Scusa per l'odio passeggero che l'adolescente riserva al suo genitore.
    Soprattutto rendevo grazie. Grazie di tutto. Della vita. Dei momenti vissuti. Degli scappellotti. Delle carezze e dei baci. Degli insegnamenti, dei sacrifici.
    Ringraziavo, colle lacrime che impedite di sgorgare tracimavano dentro.
    Mi riconobbe faticosamente, stordito dalla morfina e dai residui dell'anestesia. La gastrectomia, ultimo inutile tentativo di arrestare il male che lo consumava, lo tormentava ancora coi suoi strascichi, benché una settimana fosse già trascorsa. Mi salutò riservandomi un sorriso stretto: colle labbra riarse non poteva fare di più. Appena mi riconobbe i suoi occhi ebbero un guizzo di vita, una scintilla di gioia.
    E'l me orto? mi chiese subito, ovvero la sua terra, che chiamava orto tutta quanta. In sineddoche. Adoperava quel dialetto che la modernità invasata, posseduta dai demoni della xenoglossia, andava sterminando; che se ne scompariva insieme alle generazioni che invecchiavano e morivano; l'ossitona sua lingua madre. Voleva sapere della terra: la terra che aveva calpestato per tutta la vita, come suo padre e suo nonno, e gli avi tutti sin dai più antichi prima di loro. La terra di cui aveva rivoltato le zolle chiamandole per nome, una ad una. La terra che s'era ricoperta di utili piante e s'era vivificata grazie alla sua opera infaticabile. La terra che, carezzata dalle sue mani ruvide, aveva fruttificato, qualche anno nell'abbondanza, qualche altro rivelandosi meno generosa.
    Il suo cuore si volse al roseto dietro il fienile, tanto amato dalla povera mamma, a'hinn 'i rós de la tò mama, ne dovevo avere cura, me racumandi. Te se rigordet? Te se 'ndà al cimitéri à vidèla, la tó mama?
    Annuivo, sforzando il comparire d'un sorriso.
    Gli dissi che lo avrebbe fatto lui al suo ritorno. Mentivo.
    Sollevò impercettibilmente una mano, mimando la calma. Doveva prima rimettersi in ordine le tubature ingarbugliate da qui'i macelari cun la camisa lunga, che godevano a inzigà le braccia coi loro spilli. Lo diceva colla medesima commovente serietà dei bimbi che giocano fingendo.
    Finché pödi no mangià e béf e 'ndà al cess de par mi, non posso mica uscire di qua, ta par. No no, per prima cosa gó de tirass insèma. Voglio mica darti fastidio. Té fé cusè d'un vècc nanca bun de pisà de par lü?
    E l'ort? Te ghe sté dré al mè ort? Te sé pü bun de staga à dré? A tu fà stüdià tròp. Sorrideva.
    Parlava piano, lentamente. Io lo ascoltavo. Ascoltavo la sua voce tenorile arrochita ed impastata dalle amare secrezioni della malattia.
    S'era tenuto per sé quei segni premonitori che si mostrano al principio del male, à l'è nàgótt, dumà 'n pu de mal de stòmich. La gastrectomia perciò era arrivata troppo tardi: ormai il male trascurato s'era diffuso irrimediabilmente.
    Gli mancavano i semplici piaceri: el mé pàn, ma soprattutto il vino, russ, rosso.
    Il corpo, più perspicace della mente, s'era già assottigliato per assumere il sembiante di un'ombra, e si preparava ad attraversare il dolente passaggio ch'è necessario transito di chi va a raggiungere il separato regno delle ombre, un universo inaccessibile ai viventi.
    Restammo a chiacchierare per qualche minuto, sinché non fummo interrotti da un'infermiera assai graziosa nella sua uniforme verde, e gentile, ch'era venuta per condurlo alle stanze delle visite ed accompagnarlo alle macchine che ne avrebbero scandagliato coi loro raggi invisibili il corpo ossuto. L'è 'l mè fiö, sa signorina? l'è 'n dutur, mia un vecchio paesano ignorante come me. Lei sorrise con cortesia. Andiamo, andiamo, lo esortò, non ci si deve impigrire qui nel letto! Lo aiutò a montare su una sedia a rotelle, con l'inseparabile asta dov'erano appese le sacche delle flebo a rimorchio.
    Ci salutammo.
    I medici gli avevano concesso qualche giorno: la malattia s'era ormai estesa e non c'era più modo d'arginarla, e neppure di rallentarne il corso.
    La natura fu più generosa di quei dottori: gli regalò due settimane. Non soffrì molto, o forse la sua tempra di contadino gli impedì di lamentarsi del dolore, che accettava come si è obbligati ad accettare la grandine che piove sui raccolti.
    Se ne andò di notte, dormendo, con la discrezione e la modestia che s'era portato appresso tutta la vita.
    Piansi.
    E piango ancora. Senza più trattenermi perché non ve n'è ragione.
    Era mio padre.
    Io sono suo figlio.

    Edited by CurzioG - 24/12/2020, 11:57
     
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    I miei complimenti!
    Mi permetto di commentare, nonostante la mia inesperienza, in quanto alcune immagini evocate mi hanno colpito notevolmente grazie alla loro vividezza ed efficacia nel descrivere la tragicità della scena, purtroppo familiare a molti.
    Il linguaggio e lo stile utilizzato risultano più ricercati di quelli a cui si è generalmente abituati, ma penso si addica alla scena, decisamente non "da chiacchierata in osteria". Inevitabilmente, tuttavia, ciò rende la lettura meno fluida e leggera.
    L'unico passaggio in cui ho dovuto rileggere per cogliere appieno il senso del testo è quello in cui si descrive lo sgranare del rosario (da "Sgranava coi polpastrelli l'orlo del drappo" a "che le avrebbe accolte mettendo termine alle loro miserie."), in cui il periodo risulta a mio avviso un po' lungo e con molti elementi che passano in sordina, quando invece hanno destato molto la mia curiosità riguardo al personaggio e alla sua storia.
    Il dialogo, riportato nella sua semplicità in dialetto, ha risvegliato in me una grande tenerezza e un'ingiustificata nostalgia, chissà di cosa, chissà perchè. Molto coinvolgente, soprattutto sul finale.
     
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    Grazie.
     
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    Il periodo cui fai cenno è lungo in effetti. È però spezzato dalla punteggiatura. Vuol rappresentare in un unicum la vita della persona: una sola, ma della quale si colgono quei lampi di abitudini e momenti che quell'esistenza caratterizzano. Nel testo è l'aggettivo unico, variamente declinato in base al contesto, che unisce le proposizioni.
    Ti ringrazio per aver voluto sottolineare la ricercatezza inusuale. Tuttavia quella dipende da cosa siamo abituati a leggere. La moderna narrativa è povera dal punto di vista del lessico. Spesso perché tradotta da lingue straniere. Noi siamo fortunati. Possediamo una lingua complessa e ricchissima. È un peccato sprecarla, a mio modo di vedere, o, ancor peggio, dimenticarla. Attendo volentieri di leggere qualcosa che pubblicherai, spero presto.
     
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    Hai perfettamente ragione, soprattutto per quanto riguarda la recente semplificazione del linguaggio e della stessa costruzione del testo. Il rischio di una perdita del nostro enorme patrimonio è reale, ed essere in grado di mediare e di adattarsi sia a uno stile più ricercato che a uno più immediato non può che portare a un ulteriore arricchimento.
     
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