Il rifugio dello scrittore

In difesa di Guenes li ber

Arringa irriverente d'un lettore dilettante in difesa di Ganelon.

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    Arringa irriverente d’un lettore dilettante in difesa di Ganelon

    Dal manoscritto Digby 23, biblioteca di Oxford, datato tra il 1150 ed il 1160 d.c., integrazioni di Léon Gautier, ed. 1875.

    Carles li reis, nostre emperere magnes,
    Set anz tuz pleins ad estet en Espaigne:
    Tresqu’en la mer cunquist la tere altaigne.
    N’i ad castel ki devant lui remaignet;
    Murs ne citet n’i est remés a fraindre
    Fors Sarraguce, k’est en un muntaigne.
    Li reis Marsilies la tient, ki Deu nen aimet;
    Mahummet sert e Apollin recleimet:
    Ne’s poet guarder que mals ne li ateignet. AOI


    Così si apre il testo che lo sconosciuto scriba, e a giudizio del commentatore un po' distratto, ricopiava, con buona probabilità, intorno alla metà del dodicesimo secolo: sono i primi versi della Chanson de Roland, forse la più nota tra le chansons de geste, in langue d’oïl e non nel dialetto normanno dell'originale, così come il manoscritto la riporta. Si tratta di un libro da viaggio, di piccole dimensioni, copia di altre copie.
    Queste primissime righe sono già sufficienti ad indurci a collocare il testo tra le opere di fantasia, e tenerlo perciò ben separato dagli scaffali riservati alle cronache. Quel Carles li reis, cioè Carlo il re, altri non è che Carlo Magno, emperere magnes, grande imperatore. Secondo la Chanson sarebbe rimasto in Spagna per sette anni interi, set anz tuz pleins, conquistando tutte le alte terre sino al mare, come il terzo verso ci rivela. Non c’è castello che rimanga di fronte all’imperatore, un "rimanga" che dovremmo, per facilitare la comprensione, far seguire da un "in piedi": gli eserciti di Carlo hanno abbattuto tutte le fortezze che si sono trovati ad assediare: non soltanto quelle che hanno incontrato lungo la marcia: le hanno abbattute proprio tutte, altre non ce ne sono: murs ne citet n’i est remés a fraindre: né mura né città sono rimaste da frantumare, salvo una: Saragozza, che è collocata su una montagna. La tiene, cioè la governa, il re Marsilio, il quale non ama Dio, non è fedele al dio dei cristiani, ma piuttosto serve Maometto, e Apollo prega, e non può evitare che il male lo raggiunga, il male per lui ovviamente. Marsilio quindi è un saraceno, un musulmano, e l’autore, presumibilmente per ignoranza in merito alla religione rivelata in Arabia, rincara ulteriormente la dose, addossando a lui, e per così dire in sineddoche perciò ai maomettani tutti, anche l’errore di adorare le antiche divinità pagane, gl’idoli che pregavano latini e greci. E, naturalmente, trattandosi di falsi numi, quest’ultimi non lo possono certo preservare dalla malasorte che lo dovesse colpire.
    Quest’introduzione com'è noto diverge ampiamente dalle cronache cui è riconosciuta una maggiore valenza quali fonti storiche: Carlo si lanciò certamente in un’avventura militare oltre i Pirenei, senza tuttavia grande successo. Sulla via del ritorno da quella poco fortunata spedizione militare, una parte del suo esercito fu sorpresa da un’imboscata nella gola che a tutt’oggi viene chiamata Roncisvaux, Roncisvalle, dove subì effettivamente una grave disfatta, non ad opera dei saraceni però, piuttosto dei Baschi, per tradizione assai poco amichevoli con gli armati che attraversavano le loro terre.
    Il racconto prosegue: il re Marsilio tiene consiglio coi suoi baroni di rango più elevato per decidere il da farsi, visto che il re Carlo parrebbe intenzionato a conquistare anche Saragozza, come abbiamo detto ultima città saracena rimasta nelle mani dei pagani. La sua cerchia di nobili è un po’ l’antagonista collettivo e speculare del suo equivalente carolingio: i duze Per, i dodici Pari, tra cui siedono Rollanz li quens, il conte Rolando, ed Guenes li ber, il prode Guenes, Guenes il barone, che, nel corso del poema, viene nominato anche come Guenelun, da cui il moderno Ganelon, almeno così supponiamo.
    Ai nobili della corte di Marsilio l’autore con disinvoltura assegna l’appellativo di felun, fellone, cioè traditore ed infido, che non mantiene la parola data, tanto quanto i cavalieri di Carlo sono invece prodi e fieri.
    Nel consiglio che il re Marsilio tiene, prende la parola Blancandrins, cui l’autore riconosce, forse un poco a malincuore, una grande saggezza, fut des plus saives païens: de vasselage fut asez chevalier, proudome i out pur sun seignur aidier, cavaliere di grande valore, uomo dei buoni consigli per il proprio signore. Blancandrins suggerisce di inviare a Carlo ed ai franchi invasori dei messaggeri, insieme con una grande quantità di doni preziosi, perché li convincano a ritornarsene nella loro terra, con la promessa che lo stesso re Marsilio li seguirà ad Ais, oggi Aix - la - Chapelle, Aquisgrana, per sottomettersi a Carlo ed alla legge del dio cristiano insieme ai suoi baroni. Blancandrins consiglia di garantire il patto con alcuni ostaggi: i figli e figlie dei più alti dignitari della corte, tra cui anche suo figlio, che consegnerà all’imperatore par num d’ocir, cioè col diritto di ucciderli. Non ha certo intenzione di onorare la propria parola e, nella sua raisun, cioè nel suo discorso, suggerisce chiaramente che Marsilio non vada mai alla residenza imperiale, e neppure i suoi baroni: meglio che Carlo tagli la testa agli ostaggi, piuttosto che perdere il regno: asez est mielz qu’il i perdent les chiefs que nus perdiuns l’honur ne la deintet, ne nus seium conduit a mendeier: piuttosto cioè di soccombere ed essere privati delle terre nel disonore ed essere obbligati a mendicare.
    Il re Marsilio si dichiara d’accordo, ed ordina ad alcuni dei suoi nobili, tra cui lo stesso Blancandrins, di recarsi dall’imperatore, accampato presso l’appena conquistata città di Cordoba col suo esercito, per recapitare il messaggio e consegnare i doni e gli ostaggi.
    Così accade. Carlo lo ascolta, e si riserva di stabilire se tornare in Francia coi suoi cavalieri, i doni e gli ostaggi, o invece muovere l’esercito sotto le mura di Saragozza. L’imperatore convoca i dodici Pari per tenere consiglio e decidere se accettare o meno le offerte di pace di Marsilio. Qui, nel corso di questa riunione, s’origina il tradimento di Guenes, che farà in modo di far cadere la retroguardia dei franchi nell’imboscata di Roncisvalle, dove sarà annientata e dove alcuni paladini di Carlo troveranno la morte, tra i quali il Rollanz che dà nome alla canzone. Anticipando il finale, potremmo dire, con termini moderni, che i saraceni coglieranno l'esercito dei franchi in crisi di movimento, e distruggeranno i reparti lasciati in retroguardia. Il sacrificio di quegli uomini permetterà tuttavia alla gran parte dell'esercito di rientrare intatto in patria.
    Questo il sunto estremamente sintetico, e per forza di cose largamente incompleto, della parte iniziale dell’opera, oltre un'anticipazione che ci vorrete perdonare, che conduce alle lasse sulle quali voglio fondare la mia giusta arringa, perché Guenelun non più sia sinonimo di traditore. Lo so, a tanti non avrebbe fatto piacere: alle damigelle che nelle loro stanze tra il desco e l'arcolaio fantasticavano sul promettente roteare di durendal, l’inossidabile spada del prode cavaliere Rollanz, sperando di trovare analogo partito con cui convolare a giuste nozze, ed analogamente fornito di altrettanto penetrante attrezzatura; alle damigelle sognatrici, per le quali Rollanz è un eroe che sacrifica se stesso in nome della lealtà dovuta al suo re, soffrendo e combattendo sino all’ultimo respiro, in una tragica epopea in cui trionfano i valori cavallereschi: l'onore, il sacrificio, la battaglia; ai cavalieri che s’infiammavano nell’udire le imprese di quegli eroi, esempi luminosi da emulare, paradigmi addirittura della cavalleria. Nel mondo moderno, che ha finito per vivere di tutt’altre e probabilmente non migliori illusioni, spero che nessuno si offenderà, ma se dovesse capitare, be’ allora… non importa: dirò comunque quello che ho da dire perché Guenelun possa essere liberato dal girone dell’inferno in cui scontano la loro eterna pena le innumerevoli incarnazioni dello spirito del Giuda Iscariota, e riabilitato al rango di uomo, magari da destinare al doloroso ma espiativo transito per il purgatorio, a dio piacendo.
    Ma proseguiamo.
    Carlo raduna attorno a sé i suoi baroni e riferisce loro del messaggio del pagano: sta valutando se accettare le loro proposte o respingerle, mentre gli ambasciatori saraceni attendono. Allora, quando li emperere out sa raisun finie, quando ebbe terminato il proprio discorso, li quens Rollanz, ki ne l’otriet mie, en piez se drecet, si li vint cuntredire, il conte Rollanz, che non approva, si alza in piedi e intende ribattere al suo sire. Non si fida di Marsilio, perciò non crede nella sua parola, ed incita il re a proseguire la guerra: lasciare Cordoba e porre l’assedio direttamente a Saragozza. Carlo si stira i baffi e la barba con le dita, a testa bassa, pensieroso, e nulla risponde a suo nipote Rollanz: li emperere en tint sun chief enbrune, si duist sa barbe, afaitat sun gernun. Ne bien ne mal sun nevuld respunt.
    Guenelun allora parla al suo re: dà a Carlo il consiglio opposto, ovvero quello di procedere con l’accettare le proposte di Marsilio, e lasciar perdere le follie guerresche: tornare sani e salvi in Francia col bottino e gli ostaggi terminando la campagna militare, che si è rivelata estremamente proficua. Un altro barone, un valente, un saggio, interviene nel dibattito, sostenendo in sostanza le opinioni espresse da Guenes: après iço i est Naimes veniz, blanche out la barbe e tut le peil canut, meillur vassal n’avait en la curt nul. Carlo viene consigliato da Naimes di mandare da Marsilio uno dei suoi baroni per consegnare un messaggio, destinato il barone ahimè a restare presso i pagani, i quali con tutta probabilità l'avrebbero trattenuto quale garanzia di rispetto dei patti, e porre termine alla guerra. Sorge perciò il problema di designare il barone che verrà inviato da Marsilio. L'imperatore chiede ki enveier purrum en Sarraguce à l’rei Marsiliun? Lo stesso Naimes è il primo ad offrirsi, ma Carlo rifiuta, troppo preziosa è per lui la sua saggezza. Allora si fa avanti Rollanz, ed anche Turpins de Reins, ma anche a loro il re oppone un secco diniego.
    Ed ecco quello che succede poi.
    Ço dist Rollanz:”C'iert Guenes, mis parastre.
    Se lui laissiez, ni trametrez plus saive.”
    Dient Franceis: ”Kar il le poet bien faire;
    “Si li reis voelt, bien est dreiz qu’il i alget.”
    Rollanz indica Guenes come candidato per portare quale ambasciatore il messaggio di Carlo al re saraceno: ci vada Guenes, mio suocero, non se ne troveranno di più saggi capaci di condurre a Marsilio l'ambasciata, ma, forse, intende, e con malizia, che tutti gli altri sono assai più utili di Guenes, e che è quest'ultimo dunque l'ideale dignitario da lasciare indietro in Spagna, nelle mani del nemico. I baroni franchi concordano, del resto se il re lo vuole, allora è giusto che ci vada, cioè vada a Saragozza da Marsilio a consegnare il messaggio imperiale, col ben fondato rischio, anzi la certezza, di essere trattenuto da quello in ostaggio.
    E questa signori miei, signori giurati, signor giudice, altro non è che una provocazione bella e buona: certo sa che la missione è molto pericolosa, ai limiti del suicidio, e lui, Rollanz, intenzionalmente, suggerisce il nome d'un ’uomo cui è legato da un vincolo familiare avendone sposato la figlia. Qui, signori miei, siamo ben oltre il fatto colposo, ci siamo già ben addentrati nel territorio del dolo! Che lo faccia forse perché di fronte al re Guenes s’è opposto alla sua idea di continuare la lotta? e Carlo, anziché decidere per la guerra come Rollanz vorrebbe, preferisce in effetti rientrare nel proprio regno con l’oro e l’argento che i pagani gli hanno consegnato, proprio come Guenes ha suggerito. Vuole, signori giurati, forse l’eroe del poema prendersi una rivincita? è geloso, è evidente, invidioso del fatto che il consiglio di suo suocero sia stato accolto dall’imperatore in luogo del proprio. E chi può dire che non miri, proprio in ragione della parentela, anche ai feudi ed ai titoli nobiliari del suocero? Dovremmo enumerare allora tra i già tanti peccati del prode guerriero persino l'avidità?
    Anche gli altri baroni concordano, e tanto frettolosamente da apparire sospetti, con Rollanz: se il re lo ordina, Guenes deve andare: meglio lui che noi devono pensare i nobiluomini! Oh… quale esempio di nobiltà! di devozione al proprio signore! I pavidi baroni mandano avanti Guenelun. Certo, alcuni tra loro si sono offerti, ma lo hanno fatto con sincerità? O contavano forse sul rifiuto regale per salvarsi la nobile pelliccia? Giudicate voi signori giurati, a noi rimane il sospetto. Il grande eroe altro non è che un livoroso narcisista: un disprezzabile arrivista, un dirigente d’azienda qualunque che vuol brillare agli occhi del suo padrone, e si vendica come il più squallido dei delinquentelli di strada eleggendolo alla missione suicida con la lode: ni trametrez plus saive; e, a costo di dovermi ripetere, voglio sottolineare come i grandi baroni, che a parole offrono al re la propria vita, non esitano un secondo ad acchiappare al volo la via di fuga che gli offre, forse cosciente della profonda e ben dissimulata vigliaccheria dei notabili, il prode e perfido Rollanz. Che vada lui, e d’altra parte se il re lo ordina non può che obbedire, anzi, guarda quale mirabile combinazione, per loro è perfino giusto, cioè un atto di quella giustizia che voi signori giurati siete chiamati a rendere agli uomini, un ottemperare alle norme. Che obbedisca dunque: bien est dreiz qu’il i alget: ben è giusto che ci vada.
    Diciamolo pure signori: i duze Per non sono poi quei grand’uomini che l’autore sconosciuto vorrebbe consegnare alla memoria delle generazioni posteriori, e la stizza di Rollanz lo disonora e lo rende, ai nostri occhi, colpevole.
    Ma non è tutto signori miei.
    E li quens Guenes en fut mult anguisables:
    De sun col getet ses grandes pels de martre
    E est remés en sun blialt de palie.
    Vair out les oilz e mult fier le visage.
    Gent out le cors e les costez out larges:
    Tant par fut bels, tuit si per l’en esguardent.
    Il narratore, che ricordo a tutti è onniscente, ci dice che delle parole del genero il conte Guenes è molto angosciato, si toglie con violenza dalle spalle le preziose pelli di martora e resta col solo bliaud di seta, in camicia direste voi. Ha gli occhi vitrei, e il volto fiero, il corpo grazioso ed i fianchi ampi. Tanto è bello che tutti faticano a distogliere dalla sua figura lo sguardo.
    Dist à Rollant: ” Tut fols, pur quei t’esrages?”
    “Ço set hum bien que jo sui tis parastre;”
    “Si as juget qu’à Marsiliun alge.”
    “Se Deus ço dunget que de là jo repaire,
    Jo t’en muvrai si grant doel et cuntraire
    Ki durerat à trestut tun eage.”
    Guenelun risponde a Rollanz chiedendogli il motivo di tanta rabbia nei suoi riguardi, da tutti è risaputa la relazione tra loro: genero e suocero. Il prode Rollanz, che gli aedi hanno per secoli celebrato quale esempio mai eguagliato di virtù cavalleresche, scaglia sul suocero la propria rabbia: così testimonia l'autore attraverso le parole di Guenes. Rabbia per cosa? E mi rivolgo a voi signori della giuria, a voi signor giudice: rabbia per cosa? Invidia? Gelosia? Lascio a voi la risposta, ch'è incerta, come non è invece la rabbia dimostrata dal paladino. Guenes li ber allora getta addosso a Rollanz la sua minaccia: se dio mi concede di tornare da laggiù, di lasciare da vivo la presenza del re Marsilio, ti procurerò dolore e disgrazia, per l’intera durata della tua vita.
    Respunt Rollanz: “Orgoill oi e folage.”
    “Ço set hum bien, n’ai cure de manace;”
    “Mais saives hum il deit faire message,
    “Se li reis voelt, prez sui pur vus le face.”
    Orgoglio ho, e follia, risponde Rollanz, che si compiace del proprio sentimento di fierezza, ma una fierezza malintesa, perfida, vendicativa. Tutti i baroni qui presenti sanno che non mi curo delle minacce, aggiunge, mescolando l'arroganza alle parole di superbia già pronunciate. Per consegnare il messaggio dell’imperatore ci vuole un uomo saggio, sostiene, e chi più di lui? e si offre di sostituire Guenes, insultandolo così ulteriormente, attribuendo a sé quella saggezza necessaria al buon esito dell’ambasciata e che ora sembra mancare a Guenes, precedentemente lodato proprio per quella stessa saggezza dal Rollanz medesimo: ni trametrez plus saive, allorché tendeva la sua perfida trappola; oltre ad avergli negato ora d'esser saggio, aggrava l'ingiuria cercando di far passare per un codardo agli occhi del suo imperatore il proprio suocero Guenelun, offrendosi di rimpiazzarlo.
    Ma Guenes è fiero, non cede:
    Guenes respunt: “Per meis n’iras tu mie.”
    “Tu n’ies mis hum ne jo ne sui tis sire”
    “Carles cumandet que face son servise.
    “En Sarraguce en irai à Marsilie;”
    “Einz i ferai un poi de legerie”
    “Que jo n’esclair ceste meie grant ire.”
    Quant l’ot Rollanz, si cumençat à rire.
    Non sei un mio vassallo, dice Guenes al genero, né io il tuo signore. Carlo ha ordinato, e io farò ciò che mi è stato richiesto dal mio re. Andrò a Saragozza, da Marsilio, e una volta lì farò una follia, per farmi passare la grande rabbia che provo. E non appena Rollanz lo sente, scoppia a ridere.
    Quant ço veit Guenes qu’ore s’en rit Rollanz,
    Dunc ad tel doel, pur poi d’ire ne fent.
    A bien petit que il ne pert le sens,
    E dit à l’cunte: “Jo ne vus aim nient:”
    “Sur mei avez turnet fals jugement.”
    “Dreiz emperere, ci m’veez en present.”
    “Aemplir voeill vostre cumandement.”
    Guenes soffre per il riso di scherno di Rollanz, talmente tanto che il suo cuore sembra rompersi, e quasi perde i sensi. Dice al conte Rollanz di non amarlo per nulla, e che ha operato appositamente, ed in malafede aggiungiamo noi signori giurati, per far cadere sopra di lui la scelta dei franchi. Poi, rivolgendosi al suo imperatore: “Eccomi davanti a voi giusto imperatore, pronto ad eseguire il vostro comando”.
    “En Sarraguce sai bien qu’aler m’estoet:”
    “Hum ki là vait repairier ne s’en poet.”
    “Ensurquetut m’uixur est vostre soer,”
    “Si n’ai un filz, ja plus bels n’en estoet:”
    “ǒest Baldewins, ço dit, ki iert prozdoem.”
    “A lui lais - jo mes honurs e mes fieus.”
    “Guardez le bien, ja ne l’verrai des oilz.”
    Carles respunt: “Trop avez tendre coer.”
    “Pois que l’cumant, aler vus en estoet.”
    E poi Carlo consegna verbalmente a Gunes il messaggio da riferire a Marsilio e un plico sgillato.
    Gunes lo sa: deve recarsi a Saragozza. E l’uomo che là si reca, indietro non torna. Prega Carlo di rammentarsi della moglie, che dell’imperatore è la sorella, e del suo bel figliolo, Baldovino, che promette di diventare un prode raggiunta l’età per essere uomo. A lui lascia i suoi onori, le sue cariche, ed i suoi feudi. Prega il re di averne cura, dato che coi propri occhi non lo rivedrà mai più.
    Carlo evade il discorso, e voglio farvi notare la fretta con cui lo fa: Guenes ha il cuore troppo tenero, gli dice. Se l’imperatore ordina, bisogna andare. E lui va. Concepirà il tradimento lungo la via che conduce a Saragozza, e si offrirà di dare aiuto al re Marsilio.
    Ecco i fatti signori miei, così come tramandati per generazioni. Generazioni che hanno sempre visto nella figura di Guenelun un caso scolastico di traditore, al pari del Giuda di cui narrano i Vangeli.
    Ebbene ora signori è a voi che mi rivolgo. Il conte Guenes raccomanda al re, in forza del legame familiare che s'è instaurato tra loro a seguito del matrimonio con la sorella dell'imperatore, la propria moglie, m'uixur, ed il proprio unico figlio, Baldovino: si percepisce lo strazio nelle parole di Guenes, lo sconforto di non riabbracciare più la propria famiglia. Un uomo signori che procede verso il proprio sacrificio col pensiero rivolto alla moglie ed al figlio giovinetto, cui si preoccupa di legare, in un amorevole testamento, i suoi averi, le sue terre, i suoi castelli, e soprattutto l'onorato nome della casata. La famiglia. Già, la famiglia.
    Si certo, tradisce: dirà a Marsilio come attaccare e sconfiggere i franchi, ma solo per causa di Rollanz. E non se l'è forse cercata quest'ultimo? Quel medesimo che lo ha ingannato facendolo cascare nella rete dei suoi maneggi. Quello che lo ha frodato con la falsa lode. Quello che lo ha insultato dandogli del pavido, per di più, a ben guardare, troppo vigliacco per farlo apertamente: quello che ha parlato per allusioni, per sottintesi. Quello che lo ha umiliato. Rollanz è il nemico di Guenes, non i franchi.
    E i baroni, i duze Per? Certo anche loro hanno una parte di colpa. Hanno assecondato il gioco sporco di Rollanz, e forse per codardia, forse per ingenuità, son cascati anche loro nel tranello. Ma questo non è il loro processo.
    Per concludere, signori miei, io chiedo l'assoluzione per Guenelun li ber. Chiedo che il suo nome sia riabilitato. Chiedo che la sua memoria sia ripristinata. Chiedo che gli venga riconosciuta quella nobiltà profonda che, a nostro giudizio, è venuta meno nei suoi antagonisti. Chiedo che il suo nome sia cancellato dalla lista dei traditori. Chiedo giustizia. E la chiedo a Voi signori giurati.

    Edited by CurzioG - 30/11/2020, 07:43
     
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    In certi versi, somiglia all'Apologia di Socrate da parte del Platone allievo, con giudizi altalenanti verso i concetti sanciti dal maestro e tuttavia fedele all'uomo. Alla langue d'oil non arrivo con facilità, però la lingua franca è affascinante in quanto miscuglio di passaggio tra il "barbarico" di antica radice e il latino imposto dal dominio dell'antica Roma (sto andando a memoria storico-filologica, probabilmente fallace...).
    Ti confesso che ho fatto alcune prove di pronuncia... ;) ma, non essendo esperto, ovvero non sapendo come ben amministrare gli accenti e i dittonghi, ho rinunciato. L'avrei pronunciata al modo del francese moderno, ma forse avrei detto qualcosa di risibile... ;)

    Come le altre, una lettura avvincente.
     
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    Un esempio di pronuncia.
     
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    E sì, come sospettavo, c'è più latino nei dittonghi anziché nel modo della D'oc. Persino le consonanti finali, che nell'attuale francese non si pronunciano (d, p, s, t, x, z) sono, in qualche tratto, scandite in chiaro. Tuttavia, è "un po' così e un po' colà". Terribilmente difficile. Persino la R tipica dei francesi è appena accennata. Curiosissimo il "por" pronunciato "pur", laddove l'attuale prevede la scrittura "pour" con pronuncia "pur" (come il poor degli anglofoni).
    Musicalmente è una marcia funebre... e vorrei vedere che non lo fosse, dato il contesto. ;)

    Edited by Axum - 30/11/2020, 10:42
     
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    Non sono certo un esperto di francese antico, ma, se posso, preferisco leggere in lingua originale. Lo faccio con testo tradotto a fronte. La pronuncia la padroneggio meno ancora della lingua scritta purtroppo.
     
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