Il rifugio dello scrittore

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Segni afoni

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    Intesse veli giacenti su carni sbiancate ed esangui, mutila statue e logora damigiane, essicca l’arbusto al calore dell’alto fuoco: impervio, il suo scandire è un’immutabile ed unico intenso attimo denaturato dei suoi continui seguenti. In lui tutto si ripete come l’orizzonte sferico; il lui nulla è sospinto se non verso il perdurare. L’effimero di sbatte contro le sue coste, e frantumandosi lo alimenta. La sua via è un’adimensionale capello di luce, imperituro quando caduco alla comprensione. Distilla orrori, bellezza, giustizia e oppressione. Il suo nome è tutti i nomi, il nostro rammarico la sua identità.

    L’antica usanza di sfamare bocche insaziabili è denaturata dalla cattiva qualità che sempre ha avuto il sostentamento della mente sociale. Da sempre l’uomo ha voluto se stesso anziché il resto, ed è divenuto cannibale. L’astrazione è andata riscontrandosi con l’usanza comune del linguaggio, desertificandosi. Come chi cerca l’umore in un buio corridoio, è attirato dalla più fioca luce, l’altrui sembra essere il fiume più semplice per determinare uno scopo per la propria esistenza. La tensione verso il proprio assolutizzarsi è stata sopita dalla ritenzione comunicativa, la quale annienta l’io trasponendolo come altro da se, al pericoloso gioco della perdita individuale.

    Sottoporre ad analisi un concetto significa frammentarlo. Esso perde cosi l’inviolabile unità estrinsecandosi alla coscienza come idee subalterne. La ricongiunzione delle estrinsecazioni di attua in tensione dell’originaria singolarità. Dar prova della validità di un’idea è far dissolvere la sua contiguità nell’equanimità da cui è sorta. Se, ad esempio, si valutasse l’idea della singolare coscienza di un individuo, essa sarebbe sottoposta alla marginale analisi su cui si ergono le basi dell’idea di coscienza stessa: innervata dalle relazioni che la pervadono, si perde nel mondo sostenendosi delle certezze arbitrarie di cui si compone. La sua esistenza è la propria definizione e limitazione. Se la centralità individuale si spostasse dall’arbitrio della coscienza ad un’idea che la subordinasse senza mancare la sussistenza dei componenti subordinati, essa diverrebbe immanenza.

    L’altalenante dicitura del sostrato appartenente racchiude in se tanto l’essere coscienze dell’appartenenza alla parvenza quanto l’implicita tendenza a racchiudere nello stato cosciente il minimo comune denominatore proprio delle esperienze, o gergalmente della ovvietà delle appartenenze. La macchina inerziale che conduce la coscienza a rendersi propria di un netto esperibile è la degradazione qualitativa delle quantità, impresse nello specifico campo relazionale come sussistenza del frammento. Il dialogo espresso in termini di successione di mole di dati è l’esecuzione pratica del frammento tendente a sussistere in quanto particolarità. L’immanenza dell’appartenenza alla struttura subordinante è l’implicita appartenenza alla frazione detenuta in quanto funzione d’uguaglianza, il quale termine detto risultato accenna a se stesso quanto alla problematica posta dalla frazione scissa in termini di libera consequenzialità algebrica, libertà data dall’infinita possibilità espressiva della frazione risolta in dati scissi. La scissione della problematica è dunque sorretta dalla necessaria sovrapposizione dell’unità risultante e le parti risolventi. La dicitura “sovrapposizione” è normalizzata dall’ineluttabilità della necessità matematica dell’uguaglianza. Ogni parte è infatti esprimibile in tutti i modi che sostengono l’implicita sovrapposizione tra calcolare e risultare. Come il risultato viene sommariamente definito dalla semplicità, la funzione problematica è sorretta dall’incidenza estetica della disposizione della funzione calcolante, dove per estetica si intende la disposizione collaborativa tra funzione e modalità di espressioni dei dati interni a tale funzione.


    Centro e diametralmente opacizzo il suolo da cui prende distanza la diligente reminescenza delle proprie attività. Volto che in cerchi di rondini ed ali e piume incassate in ventri di repentini respiri danzano le sue correnti in termali evanescenze del proprio stato. Quando la concretizzazione dell’effimero raggiunge l’astrazione della propria vacuità, l’elemosina concessa frettolosamente al deprecabile nome dell’effige nutre in se declamazioni di terre e frutti di sapido inasprimento del palato, quinte del proscenio dell’antro ponderato. Necessario, immenso, devoluto a organismo di sopite chiarificazioni, cessano con noi le repulsioni dell’inconsistenza. Sementa di anfratti dialogati da vesti di diafani sorrisi, incredule speranze, refrattarie alla fiamma le sindoni.


    Qui, in attesa, l’assente attesa del mai premeditato. Soccombe all’ingiuria il nolente essere detenuto da ciò che volgarmente viene chiamato casa. Deviante oltraggi ai misfatti refrattari all’insolenza, la regola postulata dalla regina della corte, sia vita o morte, preserva l’intimità degli spazi e i corridoi delle stanze, i via vai dei registri e delle petulanti note di biasimo.
    Detrarre al cosmo i primi auspici di essere mondo è la tollerata capienza macinata dall’ottenebrata coscienza frammentaria, vivida di lampi come stelle vive del proprio fuoco. Apri il diadema del suolo, scorri via mormorando, traccia memoria di denti e di pani, che servino al futuro preservarsi dell’onta digestiva premiata dall’insazietà del gesto, atto auspicato più che generato, promessa di un nutrimento senza ceppi ne fiamme. S’innalzano picchi su vette su monti di grotte recluse al passaggio del vento. Si intrecciano fiumi su radici di foglie vaganti di correnti tremule, immobili e indomabili.


    Ascoltavo, sorridevo, e mi piace che a sorsi di gomiti e vanterie che il bicchiere possa legare il mio grido ai lodatori di quel muro che fa onore al cattivo pagatore. In ALTRE parole, tutto quello che sto sognando è il peccato di Dio, tutto strappato alla sua bontà. Compatirlo è l’uscio che toccherà piegare ad un tempo boccone e penitenza. M’accosto ancora alla parvenza, che sull’animo, ancora una volta, incanta di più nel semibuio. Acclamando subito si diventa regina e cameriere, che si cocciano nel gran tormento della corte. Il corpo vivente, che Dio lo lasci alla propria indagine, è solamente poco in fiducia, ma medicina per la natura in mano vostra. Per essere abbastanza noioso s’accascia sulle zampe lo spirito che riporto ciò che si vuol ritrovare. Lo studente mi insegna a precipitare, in aria e dentro le profonde acque riconosce il freddo stupore della serena meditazione, guida opaca e muta.


    Grava sopra di noi l’assuefazione al linguaggio della comunicazione speculativa. Quest’ultimo si fa emblema, del sociale in misura della quale l’individuo tende verso l’altrui. Si perde così l’unicità del singolo, stretta nella reiterazione delle norme e dei comportamenti usuali all’epoca storica. Tutto questo nega la tensione individuale verso la verità, mentre il giusto diviene alambicco di opache consuetudini. La verità è assimilata come gruppo prevalente che giustifica le altre nozioni, celando la sua natura universale; essa diviene convenzione. La via di fuga dall’ineluttabile dissipazione dell’unicità individuale è la riscoperta del rapporto diretto tra l’IO ed il Mondo. La gravità centralizzata tornerebbe così alla sua prima forma di sintesi dualistica, dalla precarietà di una coscienza inter-relazionale alla salda coscienza autoriflessiva.
    Perchè ostentare più umanità di quanto si possa presentarci come Natura, Forma, Materia? Per un malizioso capriccio culturale l’uomo è messo al centro della coscienza interessante. Ma quando si guarda l’interno di una stanza, la si oggettiva come stanza al di là del suo contenuto. Perchè la presenza di una persona, anziché di un mobilio, la definisce occupata anziché vuota, o libera? L’individuo, come il mobile, è naturalmente, la stanza. Essendo anch’esso la stanza dove alberga, la scissione dettata dall’analisi oggettivante il proprio vissuto a scapito dell’esperienza del mondo va a dissolversi in una chiara compensazione tra l’interno e l’esterno. Così come per l’uomo, la centralità non dovrebbe essere attribuita se non a qualcosa di indeterminato quanto autodeterminante. Data l’indeterminazione di un mondo tendente al proprio compiersi nell’orizzonte della sua infinità, la sua centralità è posta arbitrariamente dal proprio referente. La manifestazione dell’essere nella coscienza è l’immanenza di tutti i rapporti momentanei propri della confacenza della sussistenza.
    L’individuo è manifestazione di un mondo che schematizza il particolare in quanto auto-osservazione del mondo stesso.


    Mistagogo del mio malanno, il sogno di rapide correnti si estende per mille giorni in una mattina dal respiro supino. Un Dio umano mi si presenta davanti, rete della canoa dai remi di palma. Bruciare l’aria con soffio di salamandra, inghiottire salsedine con branchie di tonno. Amaro lo spasso dell’amore, nel sogno mai vivo come la notte mai è scura; e le lucciole brillano sul suo corpo, riflette il bagliore dei nostri affanni, prima di cera, poi parole, infinite, sementa di speranze lodate dal genio della menzogna. Esistere e non esistere, temo la sua evanescenza più di quanto tema la mia irrealtà. Ed il vero è politica di terzi, accenni di vesti, volti, sorrisi, voce tra i timpani, disperazione dell’attesa di una promessa gia infranta, ma sempre aspettativa di un ritorno senza il lume della parola d’onore.

    La vita è demarcazione di limiti, li dove il limite è dettato dalla contingenza delle infruttuose opere di preservazione. Dell’ostico sentimento della mortalità ci si ammanta senza definire il tremito della persuasione alla regola della cultura della dimestichezza a preservare il lecito anziché il propositivo. Rabbrividendo, il contorcersi degli spasimi della regola suddetta come canone rimprovera i tentativi di esclusione dell’ovvio in quanto pena di affanno e discrimina il regno friabile della rotonda e purulenta omissione di soccorso. La disamina degli occhi in merito al bagliore della scintilla è il fuoco che prende vita oltre se stesso, come l’aria fredda del nord estingue il calore con la sua compiacente e folta chioma sferzante. Con le concessione di redenzione il purgatorio rende onta all’inferno curvato verso la dispersione verticale del supplizio. Analoghe le occasioni delle inadeguatezze dell’animo razionale, devoluto a sommaria reticenza della razionalità al proprio dispiegarsi. Costrizione dell’animo è la decapitazione della fredda macchina da cui proviene.


    Ora guardo te, i tuoi occhi che scorrono file di lettere inadatte all’attenzione del tarlo del papiro, forse torce fredde acque e sabbia, dell’impiego del soccorrere il deprecato scempio della poesia del simulacro, o in parole di negletta demenza, il sentimento che nutre tremule speranze di empatie ed affinità. Fino lo sguardo all’occhio, che sperde se stesso in dettagli e panorami, frettolosa la guarnizione di tormenti postumi della parola attribuita al decesso dell’attimo. Dove e quando il timido piazzale bianco si staglia tra il cerchio colonnato è il sostare di masse in bacini di similitudini, corrispondenze, gutturali sembianze di profezie adempienti secchi di sangue e cenere. Miscela senza nome, due gambe ed un capo finto da schiamazzi di freddure e povere e timide fattezze di ridicoli pesi e incommensurabili misure. Del campo del freddo e meschino ottemperare all’azione del completamento divino è e resta il tormento dell’azione, fredda, insondabilmente immobile.


    Semicerchio: pallido e deforme, arco senza colonne, raggio senza sazietà. Da questa assurda forma deploro la struttura dell’oligarchico mestiere dell’appartenenza. Centro di dischiusa incertezza, ammennicolo di infruttuose perplessità. Chi ne da significato si è più sforzato nella descrizione che lodato dei risultati del suo compimento. Cosa vuole da me, il semicerchio. Un secolo di vita passata a rompere le viscere del mio corpo introflesso nel pallore oscuro delle righe curve e del diametro, diametro di alcuna saggezza, aperto solo alla metà sconfinante nell’assurda poesia di un’incoscienza dettata dal timoroso silenzio consapevole della propria incompiutezza. Ecco ora tracciare la curva, rigida deformazione della perfezione. Latra, il semicerchio. Chi sta di qua non sta di la. Ed il segmento che confina la retta introflessa in speranze gia abortite si posa cautamente a base di una sospensione che non oscilla. Quando la base punta verso l’alto, è il mare che devia lo scafo dal baricentro, e le onde fanno loro la frizione del discernimento. Il semicerchio. Lontano parente del globo persuaso dalla propria profondità, onta di gemme incassate in gioielli incavi di riluttanti splendori, deviati dalla loro naturale dimora da strumenti taglienti e logoranti. Cosa vuole da me, incauto, tanto rigido da far orrore. Se solo avessi la speranzosa pazienza di attendere il suo giudizio, non avrei certezze se non quella che la naturale elevazione dell’attesa mi porterebbe al limbo dell’eterno attimo, lo stesso che recita l’orrore del prima, del dopo; nel mentre, osteggiare il mondo intero, in suo nome. Ostracismo del delirio, questo vuole forse da me. Da voi, sembianze di nocche rotte sul mio zigomo. Capire come naufragare, adombrarsi alla deriva dell’orizzonte del mare. Ecco il semicerchio: l’orizzonte della distesa, capovolto, diviene arco che punta la sua freccia verso di me. Corrotto da effluvi di sensi dipanati in miasmi organici, di strutture geometriche disposte in sintomi eretici lontani ed adiacenti le direzioni del nulla. Seguo anche il suo odore. E’ un odore marrone fango, con basse sfumature di legno abbrutito. Denso come effimero, la figura demoniaca porta fiamme sacre che deviano la mia vita in sobborghi di evanescente consapevolezza, tanto caduca che gli appigli duraturi sono più risibili delle conquiste piu effimere. Cosa resta di me. Almeno potesse essere certezza, la tua figura. Ma si sdoppia, si allarga, senza mai divenire sfera.
    La sfera… Forse ignobile come madre e padre hanno voluto della sua franchezza. Nelle notti e allo zenit del giorno, la sfera brilla della sua unica moltitudine. Circonda il tutto, fa di se il nulla, vanifica la nullità della dimensione, tronfia e saccente, carne dello squalo. Di lei ho saputo sempre poco, e di tutto sembra solo che inganni. Quanti semicerchi in una sfera? Quanti punti, quanti raggi, tesi alla lunghezza, tesa alla capienza, nel loro sommarsi. Cosa mi dica, lo sa solo la parte più supina del mondo che mi caratterizza. Quella parte che, per ora, non posso che accettare come silenziosa concessione di adunanze, tese all’inchiostro come punta di penna al foglio. Gira, la sfera. Sull’asse, sulla superficie, con più direzioni ed in contemporanea appartenenza alla parvenza perfetta che mostra a chi, sonnolento, la esamina come un distratto maestro legge le scritte incise sui banchi di scuola. Che sia in cerca di un solstizio o di un’ombra perenne, sfera, è la parola che permette l’attuarsi del corno da caccia. Ed il richiamo è forte, come debole lo svenimento. Qui dilato frantumi di poliedriche visioni in dicotomie quali cenere e frutta, alto e disteso, degenerazione e sottomissione. Quando nessuno userà piu la parola sfera, quando la parola sfera non sarà piu parola, quando la sfera non sarà piu nessuno, allora forse lei tornerà anche ad essere pronunciata, senza memoria, senza vane referenze, solo il suo eterno tormento sarà obliato, solo la sua monade accettata. Ma la sfera c’è, ed è in noi come la sfera non è in se stessa. Cosa dovremmo fare, dunque, per ripetere il primo passo, tanto ampio da essere l’unico? Deviare ogni cammino sulla superficie del camminare. Estinguere il salmastro con vanghe e calore solare, incedere il vento con vortici sottili e ramificati come il volo delle mosche. Descrivere se stessi senza aver la presunzione di possedere la penna ed il testo. Il mondo è troppo piccolo per la sfera. Sconfinate pure sin dove vuole la vostra menzogna, non troverete confini adiacenti alla sua superficie; questa è al di là, sempre, ovunque.

    L’antica usanza di sfamare bocche insaziabili è denaturata dalla cattiva qualità che sempre ha avuto il sostentamento della mente sociale. Da sempre l’uomo ha voluto se stesso anziché il resto, ed è divenuto cannibale. L’astrazione è andata riscontrandosi con l’usanza comune del linguaggio, desertificandosi. Come chi cerca l’umore in un buio corridoio, è attirato dalla più fioca luce, l’altrui sembra essere il fiume più semplice per determinare uno scopo per la propria esistenza. La tensione verso il proprio assolutizzarsi è stata sopita dalla ritenzione comunicativa, la quale annienta l’io trasponendolo come altro da se, al pericoloso gioco della perdita individuale.

    Sottoporre ad analisi un concetto significa frammentarlo. Esso perde cosi l’inviolabile unità estrinsecandosi alla coscienza come idee subalterne. La ricongiunzione delle estrinsecazioni di attua in tensione dell’originaria singolarità. Dar prova della validità di un’idea è far dissolvere la sua contiguità nell’equanimità da cui è sorta. Se, ad esempio, si valutasse l’idea della singolare coscienza di un individuo, essa sarebbe sottoposta alla marginale analisi su cui si ergono le basi dell’idea di coscienza stessa: innervata dalle relazioni che la pervadono, si perde nel mondo sostenendosi delle certezze arbitrarie di cui si compone. La sua esistenza è la propria definizione e limitazione. Se la centralità individuale si spostasse dall’arbitrio della coscienza ad un’idea che la subordinasse senza mancare la sussistenza dei componenti subordinati, essa diverrebbe immanenza.



    Tenue mano di azzurre vene intrecciate, filo metallico scivola sullo snodo di ansimanti palpitazioni, di arte ed egemoni architetture, propizio futuro di vuoto e libertà. Levigato il solco purpureo si sfiamma ad ogni passaggio, come acqua sulla sabbia, come fuoco sulla carta; gemito di passione all’ultima decisione, prima impresa del viaggiatore. Sentire il fiume defluire nel mare del mondo, me stesso come il suolo bagnato, come ogni goccia lasciata cadere dalle nuvole di vita nata solo per ridere di se stessa, in dolore chiamata dall’oblio come in gioia opacizzata sullo sfondo di abissi ed incertezze. Sommaria morte dell’animo, espressione d’innanzi dettata che dalla morte del corpo.

    La sola carogna non aveva ancora creato dolcezza tra l’incudine ed il martello, non avvicinata dal prestito dello stupore, a patto che la sua casa fosse lasciata come dimora al figlio, gemello dell’accordo dell’ascolto di una musica, accudita d’innanzi da domande di muse giovani e salate. Possibile che un eremo sia chiamato come una cosa ridicola dalla promozione della parola, distesa sul letto del moralismo e insolente alle sue stesse dicerie, primizie pregne della mancanza della memoria? A balzelli non esiste più messaggio, bestia, volontà e sapere. Cadiamo pure in rovina, a detta dei due pensieri, giorni e guide, i modelli dello spazio sono cento certificazioni di allegria e pianti, vecchiaia del cesto della vista guardiana.


    La castagna è figliola della malattia della chiamata dei panni dello strascico della ripetuta morte. La sua forza, rosso lascito meditato e dimagrito da nessun accorgimento. Presentarsi bastevolmente è il gran dono del malato, procastinato all’esterno, Sole dell’io minimale, licenziato dalle dame domandate alla decisione della morte. Sapeva usare il tagliacarte, innamorarsi tremando, lasciando cadere le ginocchia nella tecnica del come. La campagna è la contrada dell’appestato uomo disimparato alla costola tolta dalla manifestazione del bene. Fisicità, si appanna a ciò che siamo, salse modeste di pasti eterni, piangono largamente le compagnie dei ragni e dei medici. Ma tutto il giorno pare solido, l’esser ammucchiati come monete d’oro. Dice il severo l’uomo che d’intorno loda l’alessandrino: ogni stanza, no, ogni lingua zitta, va guardata con sorpresa come il pettine sulla lana.

    A Tangeri viveva solo un uomo mezzo donna, sfibrato dalle molestie di quel padre che senza verità si chiamava con tal impronta. Immortale e tremenda la vista, cuneo di ciò che non viene detto, affidabile visione di organi di demente sonnambulismo, mai detto al vincolo del dormire come un arabo mai viene scisso tra se ed il suo divino. Mali e gente, subito intrecciati in vere tormente, seguiti di laceri e stanchi eccentrici mortiferi cerusici.

    Il mondo è Dio, ed io, un povero pazzo. Unica estremità che non si confà ai suoi desideri, mitigato dalla fatale presunzione che vi sia una similitudine tra il mio sostare e l’altrui vivere, tra il mio incedere e l’immobilità dello scenario. Solo attraverso me riconosco l’esistenza, vincolo di pacato odio diretto verso la sagoma che all’angolo dell’occhio diviene sopita quotidianità. Lui è totalità sprovvista della mia fede, troppo acerba, troppo grande per ristabilire la divisione tra se stesso ed il mio rammarico, la mia identità. Perché vi sia il punto di vista di un così tramontato racconto, il mio fato, è la domanda che non spiega perché io non sia Lui, Lui non sia me ed io, sempre, non viva attraverso il mondo più di quanto dovrei affidarmi al mio personale trono di carne. Se la dottrina della mia esistenza fosse unica, attraverserei volentieri l’abisso infinito per sorpassarlo come vento primaverile sullo specchio di gessati ghiacciai. Ma io sono Lui, come il dito mozzato era io mio corpo, moncherino come traguardo di protesi più valide dell’originale.

    Ti penti di essere in me stesso? Guarda gli ingranaggi del tuo mentire prima di imbrogliarti in altre minestre, buone allo stomaco come il veleno è atto al vivere. Centellina il tuo odio prima di far rabbrividire il mondo delle tue scommesse, inzuppa il tarlo delle tue vesti in aromi di orientali correnti, ma più di tutto, inasprisciti alle concessioni che ti vengono date a scadenze di attimi così rapidi da essere imperscrutabili. Vuoi contenere tutto questo senza esser contenuto da nulla? Fai pure le tue elemosine alle lamentele degli stolti, concediti i vizi di chi del proprio mantello si rende invisibile alla notte, lucente nel giorno. Ma ora dimmi: cosa ne faresti del mondo se pietra ed aria valessero più del bisticcio delle menti coscienti?


    Porre il deposto è la legge del mondo del passato. Nessun auspicio, condanna, speranza: resta l’inalienabile appartenenza di ciò che gia appartiene, ciò che gia detiene. In fila i mozzi dallo sguardo supino rivelano glossari di numeri alfabetizzati come fischi di vento tra pertugi di porte socchiuse. Aprine una, sosta sulla soglia. L’ombra della casa e la luce del tramonto sono segni di una notte che non tiene parti separate. Innocua come un gatto sul ciglio di un muro essa denuda le stelle della loro grandezza, il Sole della sua potenza, le candele della loro cera. Fagocita, il passato, continuamente, e senza avvertire di sosta alcuna. Amaro l’ingegno dei crepuscolari segni d’ardimento, tremule le fiaccole della parata dell’insonnia, come e più di quanto l’occhio viga della luce del cerebro. Sogni ora, sempre tintinnano come vetri allo scoccare della freccia, cocci e taglienti sparsi sul letto, invadono le fresche carni del connubio del corpo e dello spirito lasciando dietro gocce rosse ed aliti, miasmi di una fugace virtù organica.

    Il Mondo tizzone di mondi fumanti, balsami su lingue di nari ondose, sogna il destino chino al supino, dimostra al deperimento la vigilia del suffragio, teste come vasi, pensieri come fiori. Sibili di reduci alla massa, masse gridanti in simili reduci, deviata la meccanica dal sentimento, dalla ragione, dalla volta incassata nel concavo stellato, dell’orizzonte perpetuo, è deviata la deviazione fino alla retta via. Delicata la brezza svelata alle piume dalla schiena alata, concime cibo di cicale fiori di pianta, intesse lacci dispiegati in verdi colline di uva saporite. Quante e quali coadiuvate esperienze noleggiano a vita l’uomo, l’anima dispone per ognuno una libertà, di chiarificare un passo del cammino. Sentieri divini e opere effimere all’effimero, traspaiono di te nei diluiti attimi di una condensa eternata all’ingegno del rammarico, diviene semantica dell’ovolo scisso nell’unità compresenti all’unità declinata e generale dell’equazione. L’addizione è tramite del persuasivo ammettere il pane come delegato all’epoca del masticare e del digerire, innalzato dall’eguale dalla propria mancata asserzione, il nutrimento, ovvero la compenetrazione delle due parti sia in se stesse che nell’unità gergale. Relazione della lettera alla parola è l’ammissione della concatenazione di una legge poliedrica numerale ed equanime-qualitativa, della classificazione alfabetico -numerale, la composizione di vocaboli, di proposizioni, di periodi, di libri. Ammansire il nodo del modulo di asserzione è l’esempio di ruote di legno sulle pietre della strada, sempre in corso, sempre nel proprio asse, mai raggiunte dalle sorelle, e sempre insieme. La convinta memoria esplicita più del vissuto, interiorizza più del mentre, protesa all’eguale discernimento delle notti genuflette il dire sull’indicare, l’indicare sul dire, ed entrambi sul saggiare. Classificare le alternanze è l’oscillante ritorno del significato della marea in mare aperto, propensa alla Luna come alla sua assenza, mite sotto i suoi veli e le sue apparenze. Grano e acqua salata, emula la sentenza dello scoglio e della falce, che libera dall’onda per poter ondeggiare, che miete il frutto per poterlo proliferare e ricrescere. Dilaga ora un ombra di stormi e fronde venti di lontananze e vibrazioni di eterni attimi di ali e foglie, percorsi sorvolati e mani di rami. Traguardi eccellenti di un doppio capo d’eccezionalità, rivelati allo stigma del benessere e del bene del benessere, intimi rifugi di un onesto rifugio, mondi lieti e ligi alla declamazione della propria solidità, della propria volontà, libertà, simbiosi onorata.

    Grava sopra di noi il meccanismo dell’assuefazione al linguaggio della comunicazione. Quest’ultimo si fa simbolo dell’uomo sociale in misura in cui l’individuo tende sempre verso l’altrui. Si perde così l’inviolabile unicità del singolo, stretta nella reiterazione delle norme e dei comportamenti storici. Ciò nega la tensione individuale verso il vero, mentre la giustizia diviene un opaco alambicco di consuetudini. La verità è assimilata in quanto gruppo maggioritario che spicca tra le altre nozioni, celando la sua natura universale; essa diviene convenzione. La centralità di un pensiero inter-relazionale opacizza la fermezza di un pensiero auto-riflessivo. Mostrarsi in quanto uomini più che in quanto natura, essere, forma, ha condotto l’inter-relazione sociale al cannibalismo umano. La centralità gravitazionale dovrebbe essere attribuita all’ideale indeterminato e determinante, in quanto l’unico a convogliare individuo e gruppo sociale in una frammentazione che tenga conto e del particolare e della sintesi unitaria.

    L’indimostrabile di ogni parola si presenta all’oggetto ancora destinata al servire. Se il termine rosso, come l’infinito, fosse stato un reciproco, o meglio, un’inconfutabile preghiera, lo spazio di argomentazione non sarebbe esso stesso sviato dal movimento, fino all’epoca dell’eterna unità. Ad essere più esseri, qualora l’uomo bramasse il divenire, giungerebbe a quell’altro nello stesso luogo essente e non essente. Il nascere del luminoso e pesante metodo di opposizione al fuoco sarebbe una mera qualità negativa. Per millenni l’umanità fu degna di parola, l’assurdità che va ora trapassando domanda la superbia di un cuore di bronzo: costruisce tempo a tempo un gioco a passo con l’ingiustizia, divenendo debolezza, lancia, il divenire stesso, mentre le qualità eterne si indeterminano a fondamento di questa contesa, dell’eterna giustizia. L’immagine è delimitazione arbitraria, o se si desidera come gli uomini, poiché altrimenti non potremmo dire noi, uno stimolo nervoso il cui linguaggio è una certezza. Questo nascere è il contemplare del completamente schematico, una falsa analogia corrotta dal rimarchevole essere pensiero. La meta della terribile energia è una vuota certezza: l’esperienza concessa all’unità è caducità ed infelicità. Se solo il pensiero mitico fosse una zattera non si aspirerebbe a sprofondare. Tutto questo afferma solo il passato ed il futuro come uno stesso mondo, contenuto e determinato, e considerato in sé fra le due estremità sopracitate. L’attimo è una rappresentazione avulsa dall’esperienza. Il Mondo è un osservatore che conosce il seme della grande variabile. L’assurdo è verità per gli artisti. La verità un raggruppamento al proprio apice. Ciò che si raggiunge è volontà di una possibile esistenza. Questo suono ha una certa cadenza, quest’uomo una certa intensità. Un simbolo mantiene il tutto concomitante a ciò cui è contrassegnato. Attraverso la dinamica e l’armonia la risonanza è quella del minimo comune denominatore della parola. Ma il detto è uguale all’oggetto tramite il dato che lo anima. Si opera qualcosa di spietato: l’individuo è una coscienza che trova tutto rinchiudendolo, e la sua ignoranza è ciò cui attraversa l’inganno.

    Emerso dal graduale orrore della crescita, quell’uomo indiviso se non in vanto della propria noia venne sopraffatto dal dolore dell’accusa di essere prossimo a liberarsi dall’apparenza. Virtù saccenti, la loro indignazione è prona a soccombere ere di termini e gerghi soffusi dal tetro sapere della semantica dell’ovvio. Conoscere quel che meno aspetta il futuro, così l’uomo si affianca alla vertigine dell’insufficiente segno diametralmente opposto alla chiarezza del discernimento: poiché conoscenza e consapevolezza differiscono in prossimità del nucleo onnivoro e ben nascosto del nanocosmo, il sapere è vanto di mille peripezie e incertezze. La parola del mondo degli uomini è vanto del minimo estremo dell’estremità dell’anima, sprofondata in ciò che trova simbolo nel dato terribile del passato. Così detto l’anima scala picchi sempre piu consoni alla propria lontananza.

    Ritengo valida tale affermazione: l’assimilazione delle ovvietà è architettonicamente devoluta a sintomo di accusa verso se stessi. Senza tale processo non vi sarebbe velo tra il dubbio e la risposta.

    Edited by Amorfo - 8/5/2020, 13:54
     
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