Il rifugio dello scrittore

La forma dell'aria

Capitolo primo

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    Capitolo primo – Il quotidiano

    Paragrafo uno - L’odio della notte.

    Mi corico nel letto, ed attendo di smaltire i pesanti nembi dell’ovvietà.
    L’antica usanza di sfamare bocche insaziabili è denaturata dalla cattiva qualità che sempre ha avuto il sostentamento della mente sociale. Da sempre l’uomo ha voluto se stesso anziché il resto, ed è diventato cannibale. L’astrazione è andata riscontrandosi con l’usanza comune del linguaggio, desertificandosi. Come chi cerca l’umore in un buio corridoio, è attirato dalla più fioca luce, l’altrui sembra essere il fiume più semplice per determinare uno scopo per la propria esistenza. La tensione verso il proprio assolutizzarsi è stata sopita dalla ritenzione comunicativa, la quale annienta l’io trasponendolo come altro da se, al pericoloso gioco della perdita individuale.
    La sola carogna non aveva ancora creato dolcezza tra l’incudine ed il martello, non avvicinata dal prestito dello stupore, a patto che la sua casa fosse lasciata come dimora al figlio, gemello dell’accordo dell’ascolto di una musica, accudita d’innanzi da domande di muse giovani e salate. Possibile che un eremo sia chiamato come una cosa ridicola dalla promozione della parola, distesa sul letto del moralismo e insolente alle sue stesse dicerie, primizie pregne della mancanza della memoria? A balzelli non esiste più messaggio, bestia, volontà e sapere. Cadiamo pure in rovina, a detta dei due pensieri, i giorni e le guide, modelli dello spazio di cento certificazioni di allegria e pianti di compassione, vecchiaia di ciò che resta della vista guardiana.
    Ti penti di essere in me stesso? Guarda gli ingranaggi del tuo mentire prima di imbrogliarti in altre minestre, buone allo stomaco come il veleno è atto al vivere. Centellina il tuo odio prima di far rabbrividire il mondo delle tue scommesse, inzuppa il tarlo delle tue vesti in aromi di orientali correnti, ma più di tutto, inasprisciti alle concessioni che ti vengono date a scadenze di attimi così rapidi da essere imperscrutabili. Vuoi contenere tutto questo senza esser contenuto da nulla? Fai pure le tue elemosine alle lamentele degli stolti, concediti i vizi di chi del proprio mantello si rende invisibile alla notte, lucente nel giorno. Ma ora dimmi: cosa ne faresti del mondo se pietra ed aria valessero più del bisticcio delle menti coscienti?
    Nessuno nell’estasi che perpetua il divincolarsi dell’eruzione del fuoco intestino ebbe il rammarico del ripiego del proprio nome su vessilli d’oro e d’astuzie incontrollabili all’occhio del guadagno. Nei secoli che vennero dopo la morte del reduce delle mille guerre precedenti, i messi degli stati sovrani ebbero a disposizione più parole che armi per mettere a tacere i propri nemici, così che il ricordo di quell’uomo, tanto eletto quanto sfuggente, vantò l’incedere di un leone su terre di pascoli ovini. Acquitrino stagnante come il vento che oscilla l’unico petalo del campo fiorito in grado di prostrarsi all’eventualità di essere strappato dalla vita come dalla patria natia, l’ego smisurato di lavagne dedite alla rottamazione di dubbi avaramente detti da risolvere. Gravido di incenso l’esattore delle sconquassate terre dei rifiuti di frontiera elargiva dicotomie di semantiche traverse, nate dalla regola e sfuggite alla declamazione ufficiale.
    Ora mi appresto al sonno, infido, fasullo.
    Mistagogo del mio malanno, il sogno, di rapide correnti e vele dispiegate si estende per mille giorni in una mattina dal respiro supino. Un Dio umano mi si presenta davanti, rete della canoa dai remi di palma. Bruciare l’aria con soffio di salamandra, inghiottire salsedine con branchie di tonno. Amaro lo spasso dell’amore, nel sogno mai vivo come la notte mai è scura; e le lucciole brillano sul suo corpo, riflette il bagliore dei nostri affanni, prima di cera, poi parole, infinite, sementa di speranze lodate dal genio della menzogna. Esistere e non esistere, temo la sua evanescenza più di quanto tema la mia irrealtà. Ed il vero è politica di terzi, accenni di vesti, volti, sorrisi, voce tra i timpani, disperazione dell’attesa di una promessa gia infranta, ma sempre aspettativa di un ritorno senza il lume della parola d’onore.




    Paragrafo due – La fame della veglia

    Ora mi appresto al risveglio, tiranno, debellato d’ogni profezia. Apro gli occhi alla forza di una pallida luce soffusa.
    Sento suggere il mio sangue da zanzare tanto grasse che il loro peso affossa ogni mio sforzo di pensarle come piccole bestie innocue. Loro hanno me dentro di loro, come ogni altra cosa che mi abbia derubato di vita con o senza la mia approvazione. Deploro l’argomento della sanità, della follia, della giustizia e del tornaconto personale. Che sia solitudine o folla, il mio corpo o il mondo intero, troverò sempre l’improprio ad aspettarmi entro i confini della mia esistenza. Mi affaccendo ad alzarmi dal giaciglio. Non ho fame, sete, bisogni impellenti come pensieri definiti, ma un vago senso di equanimità che mi accosta ad ogni mia percezione, sobbalzo emotivo, domanda appena partorita ed afferrata dalla commedia danzante del flusso sovrasensibile. Vivo solo. In due, si è già un esercito atto alla guerra. Non ho amici che mi possano far visita, la mia famiglia è dispersa senza ultime parole o funerali. Mi metto a scrivere, due minuti dopo che mi sono destato. Qui è il mio diario:
    “Come ogni ritorno del Sole alla maestra rotazione di una sua sferica appendice, il mio risveglio è un reiterato chiudersi di possibilità, entro termini di tempo, ancora pressappoco trent’anni e troverò il naturale sfociare del mio corpo nel balsamico mare del nulla. Quando anche il Sole mi raggiungerà, sarò abbastanza grande da essere io la sua stella, e lui, il bruscolo di polvere in un’orbita traghettata dai miei capricci.”
    Ma vorrò diventare una stella? Il vuoto mi consola sempre. Nel vuoto il possibile diventa l’immanente, senza privare ne provocare alcun che. Forse sarebbe meglio se non vi fosse un proseguo: segmenti di palpitazioni erranti in una fossa descritta dalla nostra esistenza. Ogni volta che nego il futuro, il presente mi assale. Quando nego il passato, questo si ripresenta come futuro. Se negassi il presente, qui, ora?
    Guardo il cassetto dove nascondo la rivoltella. Sei colpi. Uno necessario. Cinque resterebbero al futuro... o tutto svanirebbe con me? Forse sono già tutto quello che può succedere nella mia esistenza, ma sento che non mi basta. Continuo a scrivere.
    “E se l’anima non è bianca, è perché Dio è cattivo con gli uomini. A Dio piacciono i fiori, il verde, i paesaggi, ma Odia gli uomini. Se donare un frammento di consapevolezza fosse bastato per avvicinarci di un pelo alla sua benevolenza, ciò che non ci ha concesso ci affossa di chilometri sotto la superficie di un mondo protetto da bastioni alti come montagne. Mura di misericordia, fossati di benedizioni. E l’inconsapevolezza e l’incoscienza di un uomo smarrito in un campo arso dallo zenit del bagliore delle speranze e disseccato da un vento di turpiloqui e banali falsità.”
    Forse sono troppo banale. Persino i miei ricordi sono privi di senno, di loquacità. Ormai vivo lontano dalla gente da anni, e oltre che il mio campo coltivato, dove i frutti mi amano per quanto li amo io, non sono accompagnato da nulla. Mi investe il dono della solitudine, in questa grotta priva di ombre e di riflessi. Sono o non sono ancora degno di vivere? Ho dato alla vita lo stesso valore che ho dato ad ogni altra cosa che sussista, in questa vasta ed effimera realtà. Ma probabilmente, l’essere pronto a dirsi esistente non è come essere pronto a dirsi vivo.

    Paragrafo tre – Uscita in paese ed incontro

    Prendo la bicicletta e scendo la collina, con una lentezza che farebbe svanire il sonno in una marea che sedimenta sabbia fino a formare montagne e vallate. L’aria della campagna è una lingua, ed io la parlo. I passeri canori, le buche scavate dai cinghiali la notte precedente, il furgoncino del ripara ombrelli. Ora passo dal ponte, poi a sinistra. Tre chilometri più avanti e sarò in paese. Eccomi al negozio generale, una vecchia rimessa di oggetti d’ogni sorta, una specie di bazar dove recapito il necessario per sopravvivere. Prendo un vetro per lampada ad olio, due risme di fogli di carta, un coltello nuovo, una piccola vanga, delle matite.
    Il negoziante ha l’aria seccata, come sempre:
    “Spendete sempre il minimo indispensabile, e vivete come un re sulla vostra collina. Buon per voi che vivete con la fatica di chi sa come non faticare”
    Non rispondo, poso l’esatta quantità di denaro sul bancone, ed esco.
    “Arrivederci..” Fa lui, sempre più seccato.
    Vivo senza vizi particolari, se non quello del bere, prima di mettermi a lavorare nel mio studio. Passo dunque all’enoteca. Sull’entrata trovo Simona, la bella del paese. Ha tre anni più di me, che ne ho trentasei. La saluto toccandomi il cappello con la mano sinistra, quella libera dalla busta per la spesa.
    “Di nuovo a corto di alcolici? Se bevete così tanto da solo inizierete a vivere di sola noia!”
    Mi fa lei.
    “Si potesse vivere di sola noia sarei ben felice di vendere tutto il resto.”
    Rispondo io.
    Entro nel negozio, prendo tre bottiglie, bastevoli per un paio di giorni, e mi dirigo verso casa. Lungo il cammino vengo superato da una macchina famigliare. Senza dubbi, riconosco la targa che svolta nella via che conduce alla mia abitazione: è la macchina di Vero, il mio unico amico dai tempi del liceo. Vero riuscì a finire gli studi universitari e a pubblicare una mezza dozzina di libri, li dove io consegnai solo i due esami delle materie che mi interessavano agli studi privati e non feci mai vedere i risultati di tali studi a nessuno. Lo ritrovo sul portone di casa, dopo sette anni che non ci sentivamo se non per poche lettere scritte senza un vero e proprio proposito di future conversazioni.
    “La tua casa è una baracca… non mi aspettavo di meglio date le tue abitudini. Spero che dentro l’ambiente sia migliore.” Mi fa lui, con parole acide e tono mansueto.
    “Vieni, ti farò vedere qualcosa.”
    Lo faccio entrare. Su ogni parete ci sono affissi almeno otto quadri di mia fattura, ordinati secondo alternanze di genere.
    “Poso la spesa e ti mostro ciò a cui sto lavorando.”
    “Mi pare che più che lavorando tu stia mendicando novità agli Dei della carità. Cos’è questa cosa?” Mi fa lui, indicando un disegno di un metro per due completamente composto da minuscole righe sparse a caso in bianco e nero.
    “E’ una tavola metamorfica. Prova a guardarla a sguardo sopito, mentre fai lavorare il tuo cervello in flussi di coscienza...” Mi interrompe.
    “Non ho flussi di coscienza io. Il mio pensiero non è speculato.”
    “Bhe, comunque tu faccia funzionare il tuo pensiero, questo quadro ne darà un’immagine peculiare, precisa e soggettiva.”
    “Noto noto… noto tigri, draghi, uomini dalle vesti antiche...”
    “Sei il solito cantastorie dai filosofici privilegi. Cosa ne pensi?”
    “Pare che l’effetto ci sia, ma a cosa dovrebbe portare? Hanno gia fatto cose simili, dagli anni settanta ad oggi. Forse non così duttili, certo. Ma nulla che una parete intonacata non possa offrirti.”
    “Amichevole come sempre, porti arie fresche di speranze e bontà. Non cerco riconoscimenti, ma mi piacerebbe trovare qualche altro modo per accentuare la chiarezza della possibilità espressiva dell’opera.”
    Il dialogo proseguì per un quarto d’ora. Dopo svariate richieste da parte mia, tutte risultanti con un netto NO da parte di Vero, riuscii a convincerlo a farmi annotare sul mio diario le sue impressioni del quadro descritte in tempo reale.

    Una lastra su cui ogni goccia lasciava impressa un’impronta. Muovendo lievemente lo sguardo si possono notare delle leggere alterazioni o ondulazioni del campo visivo della superficie. Cambiando piano focale, in questo caso allontanandolo, si verifica un lieve schiarirsi della sezione bassa del foglio, con una forma rettangolare nel centro. Concentrandomi nella porzione in basso a sinistra, defocalizzando piuttosto che indagando i dettagli, o viceversa, a seconda della funzione che andavo ricercando, ovvero far perdurare la forma ai fini della descrizione, un esporsi di una sezione percettivamente privilegiata descritta come un cerchio aperto innestato una forma toroidale che sorregge un cono sormontante una sfera. In altro caso a metà pagina un becco di un uccello che continua in una testa di drago, le cui nere sopracciglia si incurvano sopra la testa fino a formare corna, una delle quali si inserisce nella capigliatura di un viandante il cui mantello è formato dalle corrugazioni della fronte della bestia.

    “Sono in debito con te, per quanto so che mi peserà.” Dissi infine, dopo aver chiuso il diario.
    Vero mi raccontò che ora stava lavorando come professore ad un università fuori dalla regione, ma che aveva avuto due mesi di congedo dopo che la scuola era stata chiusa a causa di un cedimento strutturale di una delle sezioni. Avrebbe così potuto continuare a fare lezione due volte a settimana, anziché tre, da casa, attraverso il computer.
    Io “Vero, qui non c’è corrente elettrica.”
    Vero “Per le lezioni andrò al bar del paese. Per il resto, mi ospiterai qui. Faremo a metà per le provvigioni.”
    Io “Qui si lavora la terra per mangiare.”
    Vero “Tanto meglio, un metodo senza dottori ne magia per vivere fino a cent’anni.”
    Io “Celebriamo questo accordo con un po di assenzio. Nel frattempo, fammi sentire come suoni la chitarra.”
    Vero era un ottimo suonatore di chitarra, sapeva riproporre addirittura il suono della lira greca. Così, dopo i primi tre bicchieri, l’atmosfera travasò in un convito dall’aria appesantita dall’odore di tabacco e di erba, di alcol e di fresca aria serale.
    Vero “Sai, non ricordo l’ultima volta che mi rilassai tanto. Solitamente il mio pensiero vaga dalle industriose macchine della ragione alle correnti mistiche della fantasia senza referenti. Ora, qui, mi sento un sasso liscio che sprofonda dalla superficie di un lago verso un fondale così profondo da sapere che prima di raggiungerlo passerà un’altra dozzina di vite terrene.”
    Io “Stamattina mi sono svegliato pensando alla morte, domandandomi se uccidermi o meno. Successivamente, le banalità della vita quotidiana me ne hanno fatto dimenticare. Siamo così futili, che anche le sciocchezze possono farci desistere dalla volontà di farci ammazzare.”
    Vero “Non dovresti mollare il progetto del suicidio così a cuor leggero. Forse è l’unico atto libero che ci concede la natura, oltre che quello di crearci realtà irreali.”
    Io “Vivere il sonno come la veglia era una tua prerogativa. Io credo che sia la veglia a dover essere vissuta come il sonno. Ormai da anni le cose mi si mutano davanti gli occhi. Ho visto in una sola notte la luna percorrere per cinque volte la sua traiettoria nel cielo, sono stato rapito dall’oscurità per farmi portare li dove non v’era ne un sopra ne un sotto, ne destra ne sinistra; sono uscito dal mio corpo mentre questo continuava a muoversi come un meccanismo inerte, vedo centinaia di stelle volare nel cielo diurno per poi scomparire. Se ne aggiunge una nuova al giorno, come le rughe della vecchiaia. Alla fine chi paga il conto per una qualsiasi attinenza?”
    Vero “A che ti serve l’attinenza. Tu vivi quassù. Puoi permetterti di vagare come un viandante per i mari dell’esistenza senza chiedere conti a nessuno. Io devo insegnare agli studenti, io devo rendere atto del mio lato socialmente accettabile. Se non sociale, quantomeno plausibilmente razionale. E’ un cappio che stringe meno a chi ha più parole nel vocabolario. Bhe, fortunatamente non sono un mezzo analfabeta come te.”
    La conversazione andò avanti fino alle due del mattino, quando si decise finalmente di andare a letto. Accompagnai Vero nella stanza da letto, mentre io mi coricai sul divano. Chiusi gli occhi. Sentivo cadere il tempo.


    Paragrafo quattro – Il sogno

    Indosso una lunga tunica, sto volando a pochi metri dal terreno. Mi poso come una foglia traghettata dal vento sul ponte di una barca da turismo ormeggiata in un molo. Noto che il suolo è composto da moduli quadrati, ed ognuno è coperto da sequenze numeriche. Mi distraggo guardandone qualcuna, poi mi metto a recitare i numeri. Il luogo inizia ad affollarsi di personaggi dall’aspetto eccentrico. Inizio a parlare con qualcuno, mentre mi accorgo che la mia voce si duplica consentendomi di intrattenere più conversazioni contemporaneamente. Un signore mi offre una pipa, dal cui interno esce un denso fumo verde; ne aspiro il contenuto, nel mentre sento solo il vociare crescente ed ininterrotto della folla. Il fumo mi sporca la mano come se fosse vernice fresca. L’uomo che mi ha offerto la pipa si congratula con me per qualcosa che non capisco, poi mi dice di seguirlo. Abbandoniamo l’imbarcazione, mi porta su un sentiero irradiato da luci sospese in aria che illuminano a giorno soltanto il nostro cammino. L’argomento della conversazione è il traffico del sale nelle distribuzioni internazionali. Mi dice che si usa ancora per conservare il cibo, oltre che come ingrediente culinario. Mi fermo, vedo l’uomo che continua ad andare avanti parlando a interlocutori per me invisibili. Decido di volare nuovamente, andando alla ricerca di una passione perfetta, l’unica che avrebbe arricchito una grotta gia piena di quarzo e formazioni di calcare. Ora sono a svariate decine di metri d’altezza, ma riesco ben a definire la situazione. Anche se l’orario è palesemente di notte profonda, distinguo gli oggetti della mia visuale con inaspettata precisione. Assisto al rito funebre di un cavaliere, al dialogo di un vampiro riguardante le disposizioni del suo cuore, che vorrebbe vedere fermo, ma che continua a battere a causa di ignoti sentimenti, alla caduta di un’enorme piramide in un pozzo smisuratamente grande. Quest’ultima visione si ripete all’infinito, in una velocissima decostruzione e ricostruzione dei mattoni dell’architettura i quali, una volta terminati, tornano dall’abisso per costruire nuovamente la piramide. So che da quest’immagine non trarrò altro che la certezza degli eventi. Incontro un poeta, che passeggia in un cortile interno di un’abitazione dall’aspetto antico. Mi fermo a parlare.
    Poeta “Richiama la tua linfa dagli strattoni della totalità, e vivi finalmente dei frammenti che ti concede la natura. In membra anche nella più stravagante delle fantasie, siamo legati alla luce dei corpi.”
    Io “Se potessi decidere, anche solo per me, per la mia sola esistenza, condurrei le tue parole nei regni dell’eterno giudizio. Ma non sapendo se la vanga serva a coltivare o a scavare fosse, devo reputarti come tutti gli altri, uno sciacallo che apprezza il bue morto, anziché vivo”
    Poeta “Sì, è vero, io sono stato vivo molto prima di te. Ma sono qui o sono te?”
    Io “Non mi lamento del dubbio. Vivo di credenze, non di certezze.”
    Il poeta si volta e si infila in una delle porte del cortile. Mi trovo d’improvviso sbalzato lontano.
    Sono in una vasta vallata, sopra un carro di legno che si muove senza essere trainato da nulla. Vedo ogni filo d’erba del campo, ogni fiore. Davanti a me, un grande albero dalle sembianze equine. Il polline ora vola come una nebbia luminosa, ed ogni suo corpuscolo è una vita che mi chiama a se.
    Sono sul divano, vorrei continuare a dormire, ma il suono della chitarra mi invita ad alzarmi.
    Vero mi aspetta in cucina.

    Paragrafo cinque – La mattina

    Vero, mentre suona inizia a improvvisare una canzone
    “Nell’indugio più profondo, un segugio segue il mondo… Dal mattino appena nato, il supino va destato: non ti perdere il frastuoni, dolce porpora esonda i fiumi. Lai na na, na nara, lai na.
    Io “Potevi aspettare l’ora giusta per musicare, mi hai svegliato.”
    Vero “Ecco in piedi il buon sovrano, secche mani d’artigiano; voleva intessere ruote nel cuore, pensare alle gabbie come atto d’amore. Lai na na, na nara, lai na.
    E’ bene tu ti sia svegliato, avevo bisogno di pubblico. Senti ora:
    E quando sarà per me, nostro amore, dovrò restituire al tuo giudizio
    cuore e scienza in te, mio tremore, decifra il rompicapo del suo vizio.
    Seguire l’altalenante oscenità di questo tempo ridotto, lai na,
    immergere la dilagante imbecillità di un cervello interrotto, na nara, lai na.
    Io “Mi metto a lavorare il campo. Ti lascio ai tuoi giochi.”
    Vero “Ammetto che potevo fare di meglio. Ma mi sono anch’io svegliato da poco. Oh, come ha sbattuto la porta il nostro solitario padrone di casa. E’ molto che non parla con qualcuno. Forse è meglio così.. Per quello che deve raggiungere nella sua impresa, la solitudine è la sola fedele compagna. Mi immergerò nella musica, se… qui c’è il suo diario. Non credo se l’avrà a male se leggerò qualche pagina. Sta scritto:
    Le dicotomie mi assalgono da anni, e non v’è una soluzione buona che non sia un’arbitraria scelta tra due parti in perfetto equilibrio. Sono annientato come una bilancia spezzata.
    Lai na, na nara, lai na… Com’è scomposto nel suo latrare. Arbitrio nell’analisi è indubbiamente analisi dell’arbitrio. Non v’è fonte prima che non sia il cogito. Il continuo sembra più interessante.
    L’uomo, come ogni altra oggettivazione, è astrazione. Non siamo autodeterminati, come non lo è il suolo su cui affidiamo i nostri passi. L’incondizionato probabilmente non è condizionante, e anche il Dio che alberga dentro il mio petto, fuori di me non può nulla.
    Un tempo sapevi ridere di queste cose. Forse sono i termini che usi ad averti intristito. Il silenzio che ti minaccia giorno e notte è più colmo di significato che un qualsiasi fiume di parole. Adesso sarei curioso di leggere cosa ne pensa della sua arte… Ah, qui sono tutti capitoli sulle sue patetiche impressioni esistenzialiste. Ecco, una pagina dove spiega la spiritualità nell’arte:
    … come per ogni altra visione, anche nell’arte la percezione sta a cavallo tra la sineddoche della fantasia e l’immanenza dell’informazione che traspare alla coscienza. I referenti delle nostre immagini sono edulcorate presenze di remote remore, più sono vicine a noi più mostrano lontananza, più sono lontane, più discernono e chiarificano, tranne che di loro stesse.
    Questo libretto dei pensieri neri è più ingombrante di un treno merci. Lo chiudo, per ora.
    Certo che il clima qui dentro è mite al punto giusto. Ci sono troppi quadri alle pareti, non puoi concentrarti su uno che quello a fianco attira subito l’occhio. Questo deve aver impiegato mesi per finirlo. Quest’altro pochi minuti, ne sono sicuro. Dalla finestra si vede quell’uomo chino sul terreno: sembra fuori posto ovunque lo si metta. Ma almeno lavorare la terra è un tonico che risolleva qualsiasi spirito. Distrattamente non gli ho chiesto se… vediamo. Qui c’è una delle sue opere metamorfiche. In effetti, convalido la mia domanda: si possono anche leggere parole, per quanto la grafia sia scomposta. Proviamo a focalizzare… Entrate… Figli del cam ..cammino… non perdere… no. non perdete… la fin…la fine della...chiamata.
    Sembra proprio che queste tavole non vogliano essere chiare nemmeno se gli si obbliga chiarezza. Una volta vidi una nuvola a forma di B, unica nel cielo. Pensai alla parola -bisogno-. Semmai sarò a corto di fantasia, ne verrò a raccattare un po' da questi alchemici intrugli. A proposito di intrugli…”
    Vero si avvicina al tavolo, e prende la bottiglia di assenzio rimasta dalla sera precedente.
    Vero “Alla tua, stregone della nebbia!
    Ci voleva proprio. Mi tornano in mente gli anni di quando stavo facendo il dottorato: una sera su tre ero ubriaco. Ora come ora non reggerei tanto alcol. Gli anni migliori sono sempre quelli passati. Ahi ahi, come brucia lo stomaco… questo assenzio bianco è proprio forte. Ma dove li prende i soldi per roba del genere? Davanti a me, si prospetta un futuro piatto come un disco di ceramica: una vita da professore. E le mie pubblicazioni accantonate dalla critica come “orpelli vanagloriosi di un saccente piv...”
    Io “Potevi startene a suonare, ed invece hai letto il mio diario.”
    Vero “E come lo sai?”
    Io “L’ordine delle mie cose è una macchina imperscrutabile. Prima il diario era messo in orizzontale rispetto alla linea del tavolino. Come ti è sembrato il mio fardello emotivo?”
    Vero “Non diverso da come mi aspetterei da un eremita con nostalgie di pensieri più fecondi.”
    Io “Come immaginavo non ti distrae nemmeno per un attimo la possibilità che queste tavole...” mi interrompe.
    Vero “Ho letto un fraseggio spuntato fuori da quell’opera a sinistra… Entrate figli del cammino, non perdete la fine della chiamata. Secondo te ha senso solo per il magico spirito della tavola, o dovrebbe averlo per me che l’ho letta?”
    Io “Sono studi ancora in corso. Non so se la tavola reagisce davvero alla nostra coscienza mnemonica, o semplicemente è spostata come una barca da un remo… o noi siamo spostati come l’acqua dalla parte opposta. So che reagisce allo stato emotivo, all’apprezzamento delle forme proposte: come un bambino che vuole essere lusingato. Mi manca la forza per dirlo, ma credo siano frammenti di un essere che si distilla per prossimità e lontananza.”
    Vero “Intendi Dio?”
    Io “Può essere… in ogni caso, devo migliorare la tecnica. Deve risultare meglio l’effetto spaziale e tridimensionale delle figure, devo accentuare i neri, preservare i toni mediani, rinforzare i colpi di luce. Ora mettiamoci a preparare il pasto. Ho patate, melanzane e peperoni. Verrà fuori una bella caponata.”
    Vero “E’ ancora mattino e già pensi al pranzo? Ti darò comunque una mano.”
    Io “Se lavoriamo in due, sarà pronto per le undici.”
    Vero “Dimmi, in tutti questi anni di solitudine non hai mai… voglio dire, ci devono essere poche donne in paese...”
    Io “Ogni mese scendo con l’autobus sul litorale. Li trovi quante case chiuse il tuo appetito voglia cercare.”
    Vero continuò per una mezzora a parlarmi di prostitute, di come da quando era diventato professore preferisse le mature, dai quaranta in su, di come le sue imprese finissero sempre con un numero di telefono in più sul suo taccuino, delle volte in cui si vestiva elegante per portarle fuori a cena, prima di consumare. Questi discorsi erano tanto leggeri da farmi quasi dimenticare l’impegno di quel pomeriggio. Vero sarebbe dovuto andare al bar per le sue lezioni, io avrei dovuto mettermi a lavorare ai miei progetti. Ma, come ogni fine mese, anche stavolta sarei stato accompagnato da una spezia più piccante del solito. Dopo aver mangiato, attesi che Vero partisse, poi mi diressi nell’orto dove tenevo una cassetta di legno semi-interrata con un’apertura chiusa da un lucchetto; aprii, e presi due funghi.

    Paragrafo sei – Il pomeriggio

    L’effetto degli allucinogeni sarebbe iniziato tra una mezzora. Ebbi il tempo di preparare il foglio sulla tavola di legno, la polvere di grafite, e gli strumenti necessari alla stesura. Il pensiero iniziò a defluire in canali somiglianti a certificazioni di consistenza: se sono qui, non è per legge di natura ne per volontà divina; non è perché nacqui, ne perché mi trasferii in campagna. Se sono qui, è per svolgere l’imitazione di un mondo, e questa performance dovrà essere tanto raffinata da far trasparire l’immaginazione come realtà. Inizio a stendere la grafite sul foglio di carta. Ogni granulo di polvere che cade dovrà essere consegnato alla fermezza di un segno, trattato come un essere vivente e per questo bisognoso di attenzione e di nutrimento.
    Io “Ricordati della reciproca consequenzialità tra azione e pensiero, tra prodotto e azione, tra pensiero e prodotto.”
    Sono cose che so, ma mi deconcentrava il volo di tre mosche all’interno della stanza. Ho finito di stendere la grafite. Ora passerò con il legno convesso sopra i granuli, per farli aderire al foglio. Mi avvicino al lavoro fino a occupare tutta l’ampiezza dello spettro visivo con l’opera. Seguo i conflitti di esternazione dei pensieri con la necessità di mantenere la vacuità del risultato. Questa operazione è come una registrazione di affinità e di contrasti. Il bilanciarsi di queste due proprietà renderanno l’ultimazione del lavoro.
    Io “Meschino ricordo va con dimestichezza del rinnovo… come il rinnovo sta all’elasticità del finalistico, del suo lato caduco e dell’altro ricorrente.” Iniziai a lavorare con entrambe le mani, con gesti quando compassati, quando lesti e scattanti, quando leggeri, quando onerosi tamponamenti della superficie. I funghi iniziano a far effetto.
    Io “La mano è la legge che dipende dal fenomeno di cui si fa portatrice, che dipende dalla normalizzazione dell’abbattimento del confine tra fenomeno e legge. Quindi...”
    Noto che sebbene passi con la grafite su un punto, questo anziché scurirsi torna ad essere bianco come il foglio.
    Io “Quindi la compenetrazione tra causa ed effetto porta all’immanenza dell’azione come del prodotto. In ogni caso della sequenzialità della cadenza proposta, l’attuazione di una creazione dipenderà tanto dalla matrice quanto dall’effetto finale.”
    Prendo un foglio e lo accartoccio. I miei gesti si fanno ora più ampli, leggeri e incontrollati. Lo strusciare della carta sulla carta crea ad ogni passata un diverso effetto, con diverse figure che si sciolgono a movimenti di danze e sospese tensioni. Ora noto, senza badarci troppo, che la superficie del foglio inizia ad essere concava.
    Io “La riconoscibilità di una premessa attuatasi nell’effettività è un eccesso di architettura sfociata nell’irreale declamazione di previsione… La vera previsione non è concepire il prodotto, bensì adattarsi alla sua costruzione.”
    Ora sento che le mani iniziano a sprofondare nel foglio, con una leggera sensazione di fresco sulla pelle. Non ci bado, non mi fermo. Iniziano a scolpirsi sul foglio visioni accentuatamente tridimensionali, come torri viste dall’alto che si tramutano in braccia protese.
    Io “L’immancabile tensione all’opinabile sull’argomento immaginazione è dovuto alla specificità dell’esistenza individuale, quanto della congettura che gli individui si assomigliano per sommi capi, cosa che ne permette l’argomentazione. Ma se non...”
    Mi accorgo che le braccia sono sprofondate nella superficie piana fino al gomito, e che sto disegnando in uno spazio che potrebbe contenere tutto il mio corpo.
    “...se non lo faccio, lo rimpiangerò per sempre.”
    Mi alzo lentamente, mentre ancora sto lavorando, e con una risolutezza senza discernimento, infilo le braccia dentro la tavola fino alle spalle, poi la testa, infine vengo trascinato completamente dentro.




    Edited by Amorfo - 22/4/2020, 14:57
     
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