Il rifugio dello scrittore

Veggente - prologo

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    Salve a tutti, in questi giorni ho finalmente trovato il tempo di buttare giù l'inizio di un'idea che mi ronzava in testa da un po'; niente di eccezionale, ma spero che possa piacervi

    La luce della candela tremolò. Aglard imprecò a bassa voce, schermandola con la mano.
    Sentiva il vento fischiare negli spifferi dei muri, e perfino dalle assi del pavimento. Dalle poche finestre filtravano sottili lame di luce, rischiarando appena il corridoio.
    Aglard trattenne uno sbadiglio, e si avviò, facendo attenzione a non far spegnere la candela.
    Fischiettava piano l'ultima canzone che aveva sentito nella sala, prima di doversi congedare. Con un brivido, ripensò alle torce ed ai grossi bracieri, ai tavoli pieni di gente intenta a mangiare, cantare, bere e ridere.
    E alle ragazze. Grattandosi i primi accenni di barba, Aglard sorrise. Cameriere e cantanti, tutte sorridenti.
    Le loro facce volteggiavano ancora davanti ai suoi occhi, con i capelli raccolti o presi dal vortice delle danze, le risate cristalline che gli rimbombavano nelle orecchie.
    Aglard sospirò di nuovo. Si strinse di più nella tunica e proseguì.
    Un sussulto dato dalla birra gli scosse la gola, e dovette appoggiarsi un attimo al muro per far smettere alla testa di girare.
    Si passò una mano tra i capelli, come volesse scacciare un martello che gli picchiava sul cranio. Gli stivali e le braghe che portava gli parevano dotati di vita propria, e sembrava che le sue gambe decidessero da sole come e dove muoversi.
    Il loro maestro l'aveva rimandato in camera, prima che desse spettacolo. Aglard borbottò qualcosa, senza sapere nemmeno lui cosa.
    Quel vecchio maledetto, con la sua barba bianca e la faccia piena di rughe. Non aveva fatto in tempo a finire il terzo boccale, a sorridere ad una cameriera, che il maestro gli era stato addosso.
    Una mano artigliata sulla spalla, sussurri rochi ed stanchi, e Aglard non aveva avuto alternative che alzarsi e congedarsi.
    Re Echbrad non l'aveva nemmeno sentito, troppo preso a ridere alle battute della sua nuova moglie, a bere ed a leccarsi le labbra.
    I ricordi del pomeriggio tornarono nella mente di Aglard. Il suo primo incarico.
    E con i ricordi tornò anche il dolore. Sentì di nuovo le mille piccole punture lungo le braccia, gli occhi che gli andavano a fuoco, le ossa che scricchiolavano.
    Sbandò e per poco non cadde, buttando gocce di cera sul muro.
    Li avevano rintronati, a forza di dire che Leggere era doloroso, che guardare e seguire i fili del destino non era facile. Ma non li avevano ascoltati, loro due erano i migliori, i più promettenti.
    Aglard guardò le sue mani, dove ancora svettavano le cicatrici e le tracce delle vesciche che si era fatto in sette, lunghissimi, anni a spingere un aratro. Ma pure con tutta la sua forza, col suo corpo solido che lo faceva sentire grande e grosso tra i compagni, aveva fallito.
    Aveva appena iniziato a guardare, cercando di seguire con lo sguardo i sottili fili colorati, ed era caduto.
    Di colpo le gambe aveva ceduto, come tagliate di netto; tutta la sua pelle aveva preso a bruciare, come se l'avessero gettato nel fuoco. Quando il dolore era passato, si scoprì riverso a terra, mezza faccia affondata nell'erba del piccolo giardino, ogni osso e muscolo che lanciava alte urla di sofferenza.
    Poco oltre, contorcendosi e tremando, Egil stava provando a balbettare qualcosa. Aglard sentì appena qualche parola su un figlio, cosa che fece felice re Echbrad.
    Mentre il maestro lo aiutava a rialzarsi, Aglard vide Egil continuare a contorcersi, le mani strette alle braccia, le unghie premute nella carne. Pareva che volesse strapparsi la pelle di dosso.
    E poi era caduto, come se gli avessero reciso di colpo fili immaginari.
    Un paio di servitori lo avevano portato via, sobbalzante e quasi delirante in preda alla febbre.
    Il maestro non si era preoccupato troppo, aveva mandato Aglard a godersi la festa ed aveva seguito l'altro suo apprendista.
    Quando aveva fatto ritorno nella sala grande, Aglard si era scrollato via il dolore ed aveva iniziato con la birra. E l'aveva mandato via.
    Adesso, con il ricordo di quel dolore che gli faceva tremare le gambe, Aglard si diede dello sciocco.
    Non aveva senso stare a rimuginare troppo su quel fallimento. Era la loro prima volta, era normale che fallissero.
    Eppure, se guardava bene, si ricordava una piccola immagine, o meglio un colore, una chiazza di verde brillante. L'aveva intravista per un mezzo battito di cuore, ma gli era rimasta impressa come se l'avesse fissata per mesi interi.
    Aglard si rimise in piedi, sbadigliando. Aveva avuto abbastanza stimoli per la giornata, e adesso lo aspettava il meritato riposo.
    Mentre proseguiva nel corridoio, gli venne in mente che avrebbe potuto convincere Egil a cambiare un poco il racconto del loro primo incarico. Avrebbero ovviamente detto che lui aveva fallito e l'altro aveva avuto una visione sfocata, ma magari si poteva evitare di menzionare le cadute, le convulsioni, le urla.
    Aglard arricciò il naso, tentato di svegliare l'amico in quel momento. Ma se lo conosceva, Egil stava dormendo della grossa, e gli avrebbe riservato un lungo monologo sul dovere, sulla giustizia, sul fatto che loro, come Veggenti, doveva dire sempre e solo la verità.
    Sbuffando, Aglard tirò dritto, ormai davanti alla sua porta.
    Un grido lo fece sobbalzare. Un urlo inarticolato carico di dolore e paura.
    Aglard non pensò nemmeno, corse alla porta di Egil, da cui veniva il grido, e la spalancò di colpo, pronto a gettare la candela in faccia ad un possibile intruso.
    Ma nella stanza non c'era nessuno, oltre ad Egil che sussultava e si rigirava nel letto. Aglard corse da lui, trovandolo così caldo che quasi non riusciva a toccarlo.
    Aveva gli occhi girati all'indietro, la bocca spalancata in un grido muto. Aglard, col panico che gli invadeva la mente, cercò di farlo star fermo.
    Poi, di colpo, Egil prese ad urlare. Urla strazianti, come se qualcuno gli stesse strappando via gli arti.
    Si agitava a casaccio, mulinando braccia e gambe in molte direzioni allo stesso tempo, e più di una volta Aglard fu certo che fosse sul punto di rompersi qualcosa. Egil era magro come un fuscello, più basso di qualche pollice rispetto a lui, eppure aveva trovato così tanta forza che per poco non lo sollevò, quasi scagliandolo contro la parete.
    Poi, improvviso com'era arrivato, dopo un tempo che Aglard non seppe calcolare, Egil si fermò.
    Rimase immobile, col corpo che si raffreddava a poco a poco.
    Aglard, il respiro affannoso per la lotta selvaggia, si allontanò appena, la testa che gli urlava di tornare nella sala e chiamare il maestro.
    Ma qualcosa lo trattenne. Una sensazione, un istinto che gli diceva di rimanere là in attesa, senza sapere di cosa.
    Alla fine, con un ultimo sussulto, Egil si raddrizzò, inspirando aria come se fosse rimasto a lungo sott'acqua, tossendo e sputando. Aglard rimase fermo, senza sapere che dire
    -Dove... dove sono?- chiese Egil dopo un poco, la voce roca come se non parlasse da giorni
    -Cosa?- Aglard si era aspettato tante domande, tranne quella. Sconvolto, rimase zitto mentre l'altro si guardava intorno, ispezionando la stanza come se ci entrasse per la prima volta
    -Sei a Righorn- disse Aglard, stringendo gli occhi per vedere meglio nell'oscurità. La candela era caduta da qualche parte nella confusione, rimanendo a bruciare fioca sul pavimento.
    La raccolse, e la avvicinò al volto di Egil.
    L'amico pareva avere sempre la stessa faccia, il solito pallore ed i soliti capelli castano scuro; anche gli occhi neri sembravano normali, anche se sbattevano e dardeggiavano attorno
    -Che è successo?- domandò Egil, la voce tornata alla normalità. Provò ad alzarsi, ma il solo girare il busto per poco non lo fece cadere a terra. Aglard lo sostenne, trovandolo freddo come un morto
    -Hai avuto delle convulsioni, credo- disse Aglard, cercando di trovare cosa dire -e mi hai preso a pugni- aggiunse con un sorriso, mostrando un livido che si andava formando sulla sua mascella
    -Te lo sei di certo meritato- disse Egil, riuscendo finalmente a controllare le mani.
    I due rimasero in silenzio per qualche attimo, i volti illuminati appena dalla candela
    -Io andrei a chiamare...- iniziò Aglard
    -Ho avuto una visione- disse Egil -una visione nitida e precisa-
    Aglard, che sperava ancora fosse tutto uno scherzo, al suono di quella voce sentì un lungo brivido corrergli lungo la schiena. Qualcosa gli diceva che tutto quella situazione era vera.
    La sua mente gli impose di scappare, girarsi e correre dal maestro.
    La strana sensazione gli disse di restare. Aglard rimase nella stanza, annuendo, dimentico di come si facesse a parlare
    -Ho visto- disse Egil, sollevando piano la testa -la mia morte-
     
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