Il rifugio dello scrittore

Aiutami a trovare qualcosa che non c'è

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    𝘱𝘢𝘴𝘴𝘪𝘷𝘦 𝘥𝘦𝘱𝘳𝘦𝘴𝘴𝘪𝘷𝘦

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    9.35pm.

    Sospesa tra indice e medio, la sigaretta consumata solo a metà mi ritorna tra le labbra. Il cielo si spegne e io comincio a domandarmi che cosa mi resta di questa giornata che ha lasciato in sospeso non solo mezzo mozzicone, ma anche tante parole. Le ingoio tutte, insieme al sorso di birra non troppo dolce, che aiuta a dare un nome all'amarezza stagnante sulla lingua.
    Girano due o tre volatili intorno all'albero nel centro, mentre la linea del mare si confonde con il mio respiro sporco. Lo lascio volteggiare fuori dai polmoni, con il fianco congelato della bottiglia in vetro contro la tempia: qui tira il vento, eppure mi sento bruciare dentro.
    Perdo la voce, perdo la voglia, c'è quell'ombra che cammina dietro le mie spalle con quei tacchi alti, controlla che io non abbia lasciato spartiti in giro, come spiegarle che in realtà sparpagliati per il soggiorno ci sono i miei pensieri?
    "Nis," mi dice, "questo non lo puoi fare. Avevi detto sarebbe stata una vacanza, non un esilio chissà dove."
    La sigaretta mi bacia di nuovo la bocca e io lascio che un sorso, forse due, mi torni a scorrere per la gola, ché di mandare giù altre scuse non se ne parla per stasera. Mi sta morendo la vita davanti agli occhi, con la palla di fuoco che si immerge nell'acqua, e le preoccupazioni non si lasciano raccontare.
    "Hai intenzione di tardare il progetto per fare che cosa, il barista? Davvero? Non erano questi i patti, quando-"
    "Quando mi sono trovato stretto anche dentro casa mia?"
    L'ombra si paralizza eppure io la sento ancora gironzolare, come se ronzando attorno a me potesse arrivare a comprendere. Illudersi che io le dia retta, quando ho tra le mani tutto ciò che mi interessa, è da tonti.
    "Quando mi hai detto che avevi bisogno di ritrovarti."


    10.20pm

    Mi soffochi con le tue paranoie e le tue scadenze, dici che siamo in ritardo eppure non sai neanche per che cosa realmente. Giri, giri, metti in disordine il mio caos ordinato e io ti fisso da lontano come se tu non stessi cercando di mettere le mani in qualcosa che appartiene a me. Ti osservo e mi domando per quale motivo hai voluto seguire la mia ombra, ché tanto lo sappiamo entrambi quanto poco la sopporti, tu che sei fatta di riflettori e voci di corridoio.
    "Che cosa pensi di raccontare alla stampa?" sputi veleno perché non sei in grado di capire da che parte arriva il mio bisogno di fuggire e io che invece ti chiesi soltanto di volarmene via, proprio per non dover fare i conti con chi, invece, i conti sa farli fin troppo bene.
    "Nis, mi devi ascoltare!" e sei la prima ad alzare la voce, ad inibire la mia volontà di proseguire in quel qualcosa in cui tu mi hai obbligato a metterci la testa. E ora mi sento leggero, mi sento pesante, forse non mi sento nemmeno più e la necessità è sempre quella, ma tu urli, urli a squarciagola e svisceri ogni cosa che di me non ti va bene.
    "Forse non ti è chiara la situazione: il tuo startene qui, non fa altro che creare scissioni all'interno dell'agenzia. Io non posso... Nis, non posso continuare, se fai così!"
    E allora ti propongo di raccogliere la tua disperazione, non mischiarla alla mia, così cattiva sulla lingua, e di chiudere la porta dietro le tue spalle. Ma lo sento che sono troppo esili, le tue gambe, per poter reggere la tempesta là fuori. Tu nemmeno ci riesci più a stare su quei tacchi, ché le caviglie sottili camminano troppo e sei una povera illusa, perché il segreto è stare fermi.
    "Parlami, ti prego."
    "Passami il posacenere, ché mi accendo una sigaretta."
    E lasciami gridare, ché tanto non mi ascolti.


    11pm

    Me le sento tutte addosso, che siano strade o colpe, e non c’è direzione che io possa prendere per ingannarmi, ché ci sono soltanto i riverberi dei miei sbagli davanti ai miei occhi. Li conosco troppo bene, fanno parte di quella fetta di me che ancora non riesco a risolvere e che mai riescono a comprendere. Me lo dissero di non insistere, di non lasciare che la mano rimanesse stretta attorno a quel ricordo, ma vaglielo a spiegare che non c’è mai niente che passi senza averlo prima consumato.
    Emozioni filtrate, tiro dalla sigaretta una boccata di fumo che va a colmare il mio vuoto e intanto aspetto. Mi credono esagerato, misurano in base a ciò che vedono e non ciò che sentono, diventa sempre più complicato far uscire ciò che gli altri tentano di nascondere. Parlano, parlano, pensano di sapere come io stia, ma che ci provassero a capire per davvero come ci si sente quando si sta sospesi in mezzo alla consapevolezza e alla frustrazione.
    Questi vicoli danno messaggi di vita e baci salati, ma più mi ci infilo dentro più noto il marcio che si accumula ai lati del marciapiede. Mai mettere a fuoco le cose, meglio bruciarle se proprio si deve parlare di calore, anche se poi si finisce per patire peggio l’inverno. Lo avverto sistemarsi dentro, tra una sigaretta e una parola detta per caso, ché mi vien facile fingermi distratto, se il discorso diventa pesante, diventa spoglio, diventa e basta.
    Io ancora ti stringo, ancora ti vedo tutt'attorno, mentre agli altri rubo pezzi di loro per regalarne a te, che sei sempre più distante e più in alto. Come ci arrivo là da te, se qui è tutto pesante e anche a saltare si finisce col culo in terra? Lasciami andare, ti ho chiesto, ma tu e i tuoi occhi sapete ancora parlarmi come una volta e tra queste strade la tua voce risuona. Lasciami andare, mi hai detto, e io come un cretino ti ho detto vai, ma le dita mai t’hanno mollato per davvero. E sono partito per il mare, in cerca del tuo sorriso.
     
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