Il rifugio dello scrittore

Dal diario...

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    Dal diario…



    A proposito della casa nel Vermont, c’è da riferire che avendo nelle vene sangue toscano, quindi fumino, avevo scelto di vivere la mia vita al di fuori degli interessi della comunità statunitense facendomi non pochi nemici.

    Sono nato in un piccolo paesino a due passi da Lucca, "Ripafratta" e a tre passi da una collina che mi ha sempre ricordato la mia schiatta… ovvero "monte Cotrozzi",

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    dove sono cresciuto armato di quella educazione onesta e romantica, ma sempre rigorosa, che tanti anni fa gli uomini di campagna davano ai loro figli, allevando uomini forti nel fisico e nello spirito.

    Seguendo tanti altri connazionali, emigrai negli USA alla ricerca di una possibilità di sopravvivenza, ma considerando che non ero il tipo avvezzo a chiedere favori a nessuno, nei miei primi anni americani dovetti rassegnarmi a svolgere i lavori più umili e a stringere la cintura dei pantaloni.
    Poi, con un po’ di fortuna e tre anni di studio notturno, che mi permisero di parificare gli studi italiani, entrai a far parte del corpo insegnante in una scuola di New York City, dove accumulai notevoli esperienze pedagoteoretiche e psicodidattiche.
    Successivamente mi trasferii a Richmond in Virginia, quindi in Alabama ed infine a Branson, nel Missouri.
    Non trovai mai il tempo per prendere moglie, ma mi rimase il rimpianto di non aver potuto riversare su di un figlio tutto l’amore di uomo sensibile.
    All’età di quarantatre anni, una serie di vicissitudini che mi provarono nel morale e una lunga malattia polmonare, mi costrinsero ad abbandonare tutto ciò che mi era più caro.
    Anche in quella occasione non volli favori, preferendo andarmene alla ricerca di un luogo dove ritrovare la serenità perduta per riprendere a coltivare la voglia di vivere.

    Viaggiai in lungo e in largo per l'America, fin quando trovai ciò che cercavo in una grande e sconosciuta valle, la valle Champlain.
    Per la verità ormai ero stanco di bighellonare e siccome scoprii d’essersi innamorato di quei luoghi, accettai di trasformarmi in contadino pur di non allontanarmene.

    Alcuni anni più tardi, ormai completamente integrato, investii i miei risparmi acquistando una fattoria a trenta miglia da una piccola città rurale e a due passi dalla Green Mountains National Forest, dove, godendo di un'aria pura e fresca che ritemprò il mio fisico, riacquistai lentamente la serenità perduta.
    Quella divenne la mia casa, la casa che per anni avevo sognato per me e per la mia famiglia.

    In quegli anni, ormai avevo superato i 55 anni, intuendo che da solo non ce l'avrei mai fatta, presi in moglie la vedova Amelia Dewey, una maestra elementare non più giovanissima con la quale condividevo l'amore per la terra, la natura e la lettura.
    L'anno successivo, mentre passeggiavamo lungo il nostro vigneto che rasentava un piccolo lago naturale, rinvenimmo il corpo abbandonato di una bambina di otto o forse nove anni, ormai più morta che viva per le bastonature ricevute e per metà immersa nell'acqua.
    La prendemmo su e la portammo nella nostra casa, certi ormai che non ce l'avrebbe fatta e fu soprattutto merito di Amelia se riuscì a trovare la forza di riaccendere l'ultimo barlume di vita che gli avevano lasciato. Infatti, abbandonando ogni altra attività trascorse giorni e notti interi al suo capezzale, regalandole spunti di incredibile amore, parlandole e tenendo il suo corpicino a contatto con il suo per donarle il suo calore, curando le terribili ferite del corpo e della mente… e infine, dopo alcuni mesi, quella incredibile donna la rimise in piedi.

    Non avevo mai assistito a un miracolo e dovetti ricredermi sulle enormi capacità dell'amore.

    Una volta ripresasi la bambina ci raccontò di essere stata rapita e poi fuggita da una comunità di nomadi ma di non sapere né chi fosse né dove vivesse la sua famiglia.
    Da quel momento fu difficile distaccarla dalle gonne di Amelia, lasciai a loro il letto matrimoniale ritirandomi nella stanza degli ospiti, ma durò poco, poiché in poco meno di un mese la bambina volle che tornassi in quel lettone fin quando non decise di trasferirsi nella stanza degli ospiti.
    A quel punto, non volendola abbandonare facemmo delle ricerche che si rivelarono tutte infruttuose e alla fine, d’accordo con le autorità, decidemmo di sospenderle e di tenere la bambina con noi per ridarle pian piano i suoi processi cognitivi su percezioni, memoria e
    recupero emozionale.
    Le demmo un nome… Sara, ma fu la bambina stessa che lo scelse e da quel momento, quell’insieme di pietre, calce, legno e calore umano, avvolse la bambina a tal punto da meritare una breve descrizione.

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    Quando acquistai quella proprietà scoprii che aveva un nome; “New Land’s” e sebbene all’epoca quel nome era ormai caduto in disuso, voglio riportarlo per dovere di cronaca.

    La casa, la cui architettura si rifaceva vagamente al primo stile Vittoriano, era stata edificata interamente in pietra e a buon diritto poteva vantarsi d’essere tra le più grandi e solide case della contea.
    In epoche precedenti l’esterno era stato rivestito di larghe doghe di legno curiosamente verniciate di un bel colore rosso cupo e in contrapposizione a quella tinta così viva, tutti gli infissi erano stati dipinti di bianco e contornati da una larga banda dello stesso colore.
    Quelle tinte sono decisamente comuni in quella parte di America, ma se qualcuno fosse tentato di credere che l’accostamento di due colori così decisi e carichi di significato, potessero aver conferito alla casa un aspetto bizzarro si sbaglia di grosso, poiché non soltanto riuscivano a collocare armoniosamente la severa linea architettonica della casa nella natura che la circondava e ispirare sentimenti così profondi da turbare l’animo di chiunque si trovasse a passare da quelle parti.

    Inoltre, se si aveva la fortuna di ammirarla in autunno, quando sembrava divenire un tutt’uno con i purpurei e grandi aceri che la circondavano, o in primavera, nel verde che dominava la scena, si aveva l’immediata impressione d’essere penetrati in uno spazio in cui il bello era la normalità e il normale era un insolito sentimento d’amore.

    Alla casa si accedeva attraversando un piccolo orto racchiuso da una bassa staccionata, sul fondo del quale alcuni gradini in pietra scura immettevano su di un ampia veranda sulla quale si aprivano due porte.

    Dalla porta di sinistra (la più piccina) si aveva accesso in un’ampia cucina, mentre la più grande immetteva in una vasta sala al cui centro signoreggiava un imponente tavola di legno grezzo.

    Sembra impossibile, ma in chiunque varcasse quella soglia, quella stanza suscitava sentimenti d’incredulità e stupore e non tanto per una strana luminosità che sembrava scaturire dalle pareti su cui erano appesi dipinti, ma per la grande scala che conduceva al piano superiore e che sembrava essere l’esatta copia di quella che ancora oggi può essere ammirata nella cappella delle suore di Loreto di Santa Fe ed è chiamata la scala per il paradiso.

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    Infine, sull’angolo più lontano, due poltroncine fronteggiavano un sontuoso camino in pietra scura.

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    Il piano terreno era completato da un secondo locale utilizzato come dispensa e da una terza stanza, attigua alla parete del camino, nella quale erano stati collocati i servizi e una grande vasca in legno.

    Al piano superiore, su di un vano squadrato, vi erano alloggiate tre camere da letto, delle quali una disposta sul lato destro (riservata agli ospiti) e due sul lato sinistro. Sulla parete di fondo, ovvero quella che divideva la struttura abitativa dal granaio (Utilizzato come fienile e rimessa per un trattore, un carro a quattro ruote e un vecchio furgone) era ancora visibile l’arco di una porta, ormai sbarrata, che in passato doveva aver permesso l’accesso al corpo posteriore della casa. Inoltre, sullo stesso vano, utilizzando una scala retrattile, ma così ben nascosta da doverne conoscere l’esistenza per poterla utilizzare, si poteva accedere ad un ampio sotto tetto.

    Sul retro della casa vi era l’altra struttura il cui piano terra era utilizzato come stalla per i tre cavalli, dieci mucche da latte, alcuni vitelli, tacchini, galline e conigli, mentre il piano superiore, sebbene vi fossero state ricavate alcune stanze, era inutilizzato a causa di quella porta sbarrata al primo piano della struttura abitativa.
    Il resto della proprietà comprendeva, al di qua e al di là di una piccola collina che fronteggiava la casa, una decina di acri di buona terra in gran parte dissodata e coltivata.

    Incredibilmente la bambina si integrò talmente bene che una volta rimessasi definitivamente, iniziò ad arrampicarsi sulla collina dove se ne restava, dopo aver svolto i suoi compiti in casa, ore intere.

    In breve tempo entrò con pieno diritto a far parte della nuova famiglia chiamando me "papà" e Amelia "mamma Amelia", ma quando scoprì che ero nato a due passi da Lucca e a tre passi da "monte Cotrozzi" volle sapere ogni cosa riguardasse quel luogo che aveva il mio nome, arrivando a farmi giurare che prima o poi sarei tornato in Italia per condurla a visitare quel luogo che una fantasia popolare racconta fosse il luogo dove era scesa, dal cielo, un'antica razza umana.

    Quel 16 Aprile, pur essendo nato del tutto simile ai giorni che lo avevano preceduto, rimase scolpito nella memoria di Sara come un faro.

    La giornata era iniziata come al solito; io nei campi e lei, dividendosi i compiti con "mamma Amelia", prese a gironzolare per la stalla, la legnaia, pulizie in casa, riordinare le stanze e tutto il resto. Poi, sul tardi della mattinata, dopo aver condotto le mucche nel recinto per il pascolo e rifornito d’acqua il serbatoio, salì al piano superiore per tinteggiare quella parte del soffitto imbrattata da una infiltrazione d’acqua piovana.

    Iniziò le grandi manovre preparando pennelli e il tino con la tinta che già da qualche tempo, avevo acquistato in città. Poi, con buoni propositi e qualche sforzo supplementare, trascinò fin lassù la scala a compasso, ma quando ebbe tutto a portata di mano ed era già sulla scala, pronta a dare il primo colpo di pennello, notò, sull’angolo più buio del soffitto il pannello che nascondeva alla vista la scala per accedere nel locale sotto il tetto.

    A prima vista le parve fosse un pannello applicato per sostituire una parte danneggiata del soffitto, ma quando si accostò per osservarlo meglio, con sorpresa scoprì una nicchia ricavata nel legno di una delle sue estremità.
    Di li ad infilare due dita in quella nicchia e tirare a se fu questione di due secondi, esattamente quanti gliene occorsero per volare sul pavimento quando, aprendosi con uno scatto, quel pannello la spinse giù dalla scala.
    Era ancora seduta sul pavimento a massaggiarsi il fondo schiena, pronta a spararne quattro delle sue, quando rimase letteralmente a bocca spalancata ad osservare una minuscola scala discendere lentamente verso di lei.

    Inutile dire che dimenticò pennelli e tinta per arrampicarsi su quella scala, arrestandosi soltanto quando, introdotta la testa in un ambiente in penombra, ma impregnato di profumi per lei assolutamente sconosciuti, se ne uscì con una delle sue esclamazioni
    – Porca miseria e questo cos’è! – E ancor prima che i suoi occhi riuscissero ad abituarsi ad una lieve luminosità che filtrava da una piccola finestra circolare, si arrampicò fin dentro godendo di quei profumi ad occhi chiusi.
    Quando li riaprì e si trovò circondata da una quantità inverosimile di oggetti d’ogni genere, fu colta da una lieve vertigine.
    – Mio Dio! Ma questo è il paradiso? – Mormorò un istante prima che la sua curiosità si scatenasse aprendo e chiudendo casse, cassettoni, bauli e armadi osservandone attentamente il contenuto e riempiendo l’aria di esclamazioni.
    In poco meno di un’ora riuscì a mettere le mani dappertutto, ma quando raggiunse la zona più in ombra, restò ammutolita di fronte ad uno scaffale colmo di libri.

    Le notizie in suo possesso le confermarono che i proprietari di quelle case si dotavano sempre di librerie, ma mai avrebbe immaginato che prendere tra le mani uno di quei volumi avesse potuto procurarle lo stesso imbarazzo di quando strinse per la prima volta tra le mani i grossi capezzoli delle mammelle di una mucca.

    Lentamente aprì il volume e mentre con mani tremanti iniziò a sfogliarlo, un profumo nuovo pervase l’aria.
    Portò il libro al volto e annusandolo avidamente sussurrò
    – È buono porca miseria!

    Quando finalmente quella specie di ubriacatura si placò e sedette sul pavimento accanto alla finestra, iniziando i suoi primi tentativi di lettura, il tempo parve arrestarsi.
    Con una cocciutaggine davvero monumentale provò a decifrare alcune di quelle pagine, ma quando sollevò gli occhi dalla scrittura, per dare un senso a ciò che aveva appena visto, si arrabbiò alla sua maniera scoprendo di non aver compreso assolutamente nulla.
    Anche in quella occasione fu il suo orgoglio a non permetterle di rinunciare.
    E se quell’ostica esperienza si concluse con il definitivo innamoramento per la lettura, il merito va in gran parte attribuito alla pazienza e all'amore di "mamma Amelia", poiché riuscì a riportare alla sua memoria le ormai lontane nozioni di lettura.

    C’è da dire inoltre che nei primi giorni di quella nuova esperienza, si trovò spesso a dover risolvere un problemino niente affatto divertente; ovvero come riuscire a seguire lo scritto, senza perdersi in fastidiosissimi salti di riga e conoscendola non è difficile immaginare quali possano essere state le sue reazioni.
    Ad ogni modo anche quella volta le venne in soccorso "mamma Amelia" che le insegnò a servirsi della guida dell’occhio, adottando una tecnica decisamente poco elegante, ma certamente valida, il dito indice come pilota.
    E così, avendo iniziato a leggere, finì per trascorrere molto del suo tempo libero sulla collina portandosi dietro sempre qualche libro.
    Tra quei volumi trovò praticamente di tutto. Inoltre, su di un ripiano isolato, rinvenne due volumi; la Bibbia e il Corano.

    Ovviamente la scoperta di quella stanza finì per crearle l’ennesimo problema del tipo; “È corretto invadere un universo che non mi appartiene?”
    A risolvere il quesito le venne in soccorso la solita onnipresente "mamma Amelia", ricordandole quella frase che avevo sempre detto e ripetuto nei primissimi giorni della sua vita in quella casa, “Qui non ci sono padroni, quello che è mio è anche tuo e di Amelia.”

    Alcuni di quei libri le dettero risposte alle molte domande che per varie ragioni aveva sempre evitato di porsi, il significato di before christ, ma la cosa straordinaria fu che, pur comprendendo che molte di quelle letture avrebbero potuto influenzare la sua natura, lasciò che ciò accadesse.
    Ormai non era più l’essere arrogante e refrattario che avevamo raccolto, ma giorno dopo giorno si dotava di una singolare sensibilità che a volte le procurava scomodi inconvenienti, come quando "mamma Amelia" la coccolava o quando la sera, seduta sul pavimento accanto al camino, leggendo qualche pagina, le accadeva d’essere sopraffatta dalla commozione.
    Allora, per difendersi dalla sofferenza, piangeva silenziosamente serrando forte gli occhi, per escludere il chiaro della luna e la notte silenziosa… e allora toccava a me prenderla tra le braccia per depositarla delicatamente nel suo letto.

    Quella mattina fu il sole a svegliarla da un sonno profondo. Si vestì in fretta e senza fare colazione uscì in giardino sperando di raggiungermi prima che mi recassi nei campi, ma non vedendomi stava per rientrare in casa quando udì dei rumori provenire dalla rimessa.
    Mi trovò che stavo trafficando con il carro
    – Se mi dai dieci minuti ti preparo qualcosa per il pranzo – Disse lei dopo aver fatto lentamente il giro del carro
    – Non ce n’è bisogno, ci ha già pensato Amelia – Risposi
    – Scusami, ma stamani non sono riuscita a svegliarmi. È da molto che sei in piedi?
    – Un paio d’ore
    – E come mai sei ancora qui?
    Alzai le spalle senza rispondere.
    – Lo so io perché – Borbottò lei sorridendo
    – Perché non lo fai sapere anche a me?
    – Perché non puoi iniziare la giornata senza il mio bacio
    Scossi il capo borbottando qualcosa di assolutamente incomprensibile.
    – Hai qualcosa da portare nei campi? – Chiese ancora lei
    – Cosa te lo fa pensare?
    – Dovrà pur servirti a qualcosa quel carro, no? – Continuò lei per nulla scoraggiata
    – Un carro serve anche per andare in città
    – Mi domando perché non prendi il furgone? Faresti prima e ti stancheresti meno
    – Forse sarò un testone, ma quegli aggeggi non mi piacciono. Inquinano l’aria – Risposi senza voltarmi
    Lei si accostò alle mie spalle tirandomi la camicia – Non sei un testone, sei mio padre... Mi dai il bacio?
    – Spetta a te – Brontolai io
    Sorridendo lei mi costrinse a piegarmi e tenendosi stretta al mio collo mi fissò un bacio sulla fronte.

    Quella sera le due donne uscirono di casa assieme venendomi incontro e appena le raggiunsi diedi il solito bacio ad Amelia e presi tra le braccia Sara che vi si accoccolò.
    – Papà raccontaci una storia
    Guardai Amelia e notando il suo sorriso e un lievissimo cenno affermativo, iniziai a raccontare…

    – “In quel lontano paese situato proprio nel punto dove il cielo e la Terra si sfiorano, viveva un uomo semplice di cuore e di modeste condizioni. Era rimasto vedovo molto presto e quella disgrazia l’aveva costretto a crescere una figlia dovendole fare da padre e da madre.
    Non fu un compito agevole, ma mettendo in campo tutto il suo coraggio e un infinito amore, seppe fondere in se così magistralmente quei due doveri che tra lui e la sua bambina sbocciò un vincolo assolutamente indescrivibile, una sorta di legame sentimentale che li unì oltre ogni umana comprensione.
    Abitavano una graziosa casupola ai margini di un bosco vivendo del duro lavoro dei campi e allevando animali.
    Non avevano molto, ma erano sempre pronti ad aiutare chiunque fosse stato in difficoltà. E questo fece della loro casa l’approdo per chi, meno fortunato, domandasse un aiuto.
    Il buon uomo visse tutti i suoi anni nella consapevolezza di non essere perfetto e quando gli fu chiesto di lasciare questa vita per salire in cielo, egli salutò la sua bambina e accettò serenamente la morte.
    Informato del suo prossimo arrivo, ed essendo stato messo al corrente che la vita terrena del brav’uomo occupava assai più pagine di quante non ne occupassero quelle di uomini più illustri...”

    – Com’è possibile conoscere la storia di una persona? – Chiese lei interrompendo il racconto
    – Perché è scritta in un grosso volume. Posso andare avanti?
    – Certo, scusami

    – “...Dio volle inviare sulla Terra due dei suoi migliori angeli con l’incarico di raccoglierne l’anima e accompagnarla tra i beati... tutti sanno che in cielo non si ha bisogno di nulla e che una volta nella casa di Dio nessuna delle passioni umane può più gravare lo spirito, ma sebbene fossero trascorsi alcuni giorni dal suo ingresso in paradiso, il pover’uomo sentiva di non essere capace di abbandonare alcune di quelle esigenze che erano state parte della sua veste umana e questo, a dir la verità, gli procurava una profonda tristezza.
    Per un po’ nessuno si accorse di quanto accadeva al pover’uomo, ma un giorno, andando a far visita ai suoi ospiti, com’era solito fare, Dio notò sulle guance dell’uomo due lucenti lacrime che scivolavano pigre, pigre.
    Fu talmente sorpreso che non poté fare a meno di chiederne il motivo.
    – Perché quelle lacrime? Non c’è ragione d’esser tristi nella mia casa
    Dispiaciuto d’essersi fatto sorprendere in lacrime, l’uomo si asciugò in fretta e in furia gli occhi
    – Hai ragione, – Rispose cercando un sorriso che proprio non voleva saperne d’ingentilire le sue labbra – ma cosa posso farci se sono rimasto un pover’uomo sciocco
    – Ti conosco, so bene che non lo sei – Rispose Dio pregandolo di sedersi – Credo invece che tu abbia qualcosa da dirmi che valga la pena d’essere ascoltato
    – Non è assolutamente nulla d’importante
    – Non ti andrebbe di parlarne?
    – Come posso permettere che perdiate il vostro tempo con i miei problemi
    – Cos’altro credi abbia da fare un Dio se non risolvere i problemi dei suoi figli? – Rispose Lui sedendogli accanto
    – È che... ecco... non sono stato capace di abbandonare tutti i miei ricordi di uomo
    – A volte accade, ma se avrai pazienza vedrai che le cose si metteranno a posto da sole. Posso chiederti quali sono i ricordi che ti disturbano?
    – Oh no Signore, non mi disturbano affatto, mi rendono soltanto una gran pena
    – Capisco, ed è un ricordo importante?
    – È la cosa che ho più amato e che ho dovuto lasciare sulla Terra
    – Ma cosa avrai mai lasciato di così importante da farti piangere? Forse le tue ricchezze?
    – Oh no! Non sono mai stato un uomo ricco
    – La tua potenza?
    – È una parola di cui non conosco il senso
    – La gloria?
    – La gloria e vivere nella tua casa
    – Non ti andrebbe di dirmi cosa hai mai lasciato sulla Terra? – Chiese Dio sempre più incuriosito
    – L’amore della mia bambina
    – Ah si, capisco, conosco bene la tua bambina
    – Era tutta la mia vita
    – È una gran brava ragazza
    – Un amore di bambina con un visetto fresco e profumato come i petali di un fiore. Era la mia più grande gioia terrena, ed io l’adoravo
    – Non è più una bambina, ora ha un marito ed è in attesa di un figlio
    – Che gioia saperlo, ora la mia mancanza non la rattristerà
    – Non è esatto, tua figlia ti ama ancora dello stesso sentimento di quando eri tu ad occuparti di lei. Tu sei ancora nei suoi pensieri e se può farti piacere saperlo la sera canta ancora per te
    – Tu mi ridoni la pace. Sapessi Signore... quand’era una bambina mi amava di un amore così grande che se qualche contrarietà mi affliggeva lei mi confortava con le sue canzoni. La sua voce cristallina era per me la migliore delle medicine... era l’unica capace di rendermi un uomo felice
    – Ed ora non sei più felice?
    – Lo sono, ma sento un gran vuoto dentro di me
    – Capisco – Replicò Dio annuendo – e magari starai pensando che non avrei dovuto chiamarti nella mia casa
    – No! È giusto così, ma cosa posso farci se sono soltanto un pover’uomo, sapessi quant’è difficile dimenticare... era la mia bambina e un padre non dovrebbe mai abbandonare i suoi figli
    – Uhm, ho l’impressione che tu desideri che io faccia qualcosa per te, non è così?
    – Sono sicuro che sarebbe una cosa da nulla
    – Beh, sentiamola questa cosa da nulla
    – Ecco...
    – Avanti, – Lo incoraggiò Dio – ti ascolto
    – Se soltanto potessi ascoltare ancora la sua voce e magari riabbracciarla per un solo piccolissimo attimo
    – Ti rendi conto di cosa mi hai chiesto?
    – Credi sia impossibile?
    – Per fare quanto mi hai chiesto dovrei sovvertire ogni regola universale
    – E questo immagino non sia possibile
    – Beh, non è esatto, si potrebbe, ma sarebbe un bel da farsi
    – Allora è meglio che tu dimentichi la mia preghiera
    – Mi metti in imbarazzo... e se trovassi la maniera di far venire tua figlia nella mia casa?
    – Oh no! No, non sarebbe giusto, lei è così giovane, ha ancora da vivere tutti i suoi anni e poi ora aspetta un figlio... no Signore lasciala alla sua famiglia
    – Allora non resta altro da fare che mutare ogni regola universale
    – No Signore, non posso chiederti una simile cosa
    – Non vuoi più ascoltare la tua bambina?
    – Oh Signore, lo desidero con tutte le mie forze, ma non è giusto che per un mio capriccio tu debba sconvolgere l’universo
    – E se trovassi un’altra soluzione? Sarebbe una specie di accomodamento, ma potrebbe andare
    – Sarebbe magnifico
    – Potrei aprire le porte del cielo in modo che si possa ascoltare la sua voce
    – Credi sia una cosa possibile?
    – Mah! Cosa debbo dirti, non s’è mai fatto e non so neppure se sarà possibile entrare nei suoi sogni, la Terra è assai lontana
    – Allora cos’altro si può fare?
    – Dovresti avvicinarti alla Terra, ma questo non è prudente, comporta qualche rischio
    – Che genere di rischio?
    – Potresti esserne attratto e se ciò dovesse accadere potresti perdere il paradiso
    – Certo sarebbe un bel guaio, io desidero rimanere nella tua casa
    – Non dovrei essere io a dirtelo, ma so che qui in paradiso c’è qualcuno che conosce il modo per avvicinarsi alla Terra senza correre troppi rischi
    – Chi? – Chiese il buon uomo
    Dio scosse la testa, si alzò e prima di avviarsi borbottò – Dovrai cercarlo amico mio, a me non resta che augurarti buona fortuna e ricordarti che il momento in cui verranno aperte le porte del cielo sarà di notte e tu dovrai essere di ritorno prima che faccia giorno
    Detto ciò Dio riprese il suo cammino.
    Trascorse un’ora, un’altra ancora e quando il buon uomo ne perse il conto si rivolse ad un suo vicino intento a raccogliere fragole chiedendo – Quando farà buio?
    L’uomo interruppe il suo lavoro sollevando il capo per guardarlo
    – In cielo non fa mai buio, – Rispose guardandolo serio – ora il nostro tempo segue cicli assai diversi da quelli ai quali eravamo abituati sulla Terra
    – Allora non si apriranno mai le porte del cielo?
    – L’unica cosa che posso dirti è che scendendo verso il fondo di quella valle è possibile vedere tramontare il sole
    – Cosa c’è laggiù?
    – Lo chiamano purgatorio. Io non ci sono mai stato, ma ho sentito dire che vi sono le anime di coloro che sono in attesa di salire in paradiso
    – Credi sia prudente scendervi?
    – Qualcuno è tornato
    – Allora è meglio che mi avvii prima che si aprano le porte del cielo
    – Se vuoi un consiglio cerca di essere al coperto quando si apriranno le porte o rischierai di cadere sulla Terra.
    – Puoi suggerirmi un modo per evitarlo?
    – So che in fondo alla valle vi sono delle grotte, scegline una e aspetta che faccia buio, ma mi raccomando, non uscire per nessuna ragione fin tanto che non saranno richiuse le porte, hai capito bene?
    – Farò come tu dici
    – Un’altra cosa, se dovessi sentire il desiderio di avvicinarti ancora di più, cerca di resistere, quelle grotte sono la parte più bassa del cielo e in qualche modo sono influenzate dal tempo della Terra
    – Cosa potrebbe accadermi?
    – Potresti non trovare più la strada per tornare in paradiso
    – Ho capito, vedrò di seguire i tuoi consigli
    – Toglimi una curiosità, ma perché vuoi rischiare il paradiso per ascoltare una canzone?
    – Non è per una canzone, è per ascoltare la voce di mia figlia
    – Allora buona fortuna amico mio, ne avrai bisogno

    Il brav’uomo si avviò lungo un viottolo che scendeva verso il basso e dopo un viaggio piuttosto avventuroso si trovò dinanzi la prima delle grotte sull’ingresso della quale era seduta una donna
    – Cosa ti porta quaggiù? – Chiese lei
    – Vorrei ascoltare la voce della mia bambina
    – Vive sulla Terra?
    – Si
    – Allora dovrai scendere ancora. Di qui non udrai nulla
    Qualche ora più tardi raggiunse la seconda grotta
    – C’è nessuno? – Chiese a voce alta
    – Cosa vuoi? – Domandò un’altra donna affacciandosi
    Per farla breve dovette scendere ancora e ancora e quando ormai la stanchezza stava per vincerlo, di lontano vide una piccola grotta a ridosso di una collina brulla e pietrosa.
    – Speriamo sia la volta buona – Borbottò tra se prima che una voce dietro di se lo facesse trasalire
    – Non avrai intenzione di entrare la dentro? – Chiese un vecchio con una gran barba bianca alle sue spalle
    – Beh, l’intenzione sarebbe quella – Di dove vieni? – Chiese ancora il vecchio
    – Di lassù
    – Avresti dovuto restarci, ma perché sei sceso fin quaggiù?
    Il buon uomo raccontò la sua storia e alla fine il vecchio commentò laconicamente
    – Brutto affare amico mio. Sarebbe stato meglio se tu avessi dimenticato
    Il buon uomo finse di non avere udito e chiese – Credi che debba scendere ancora?
    – Se scendi ancora un po’ torni a casa tua e ti assicuro sarebbe la peggiore cosa che tu possa fare. A noi non è permesso disturbare chi ancora vive in quella condizione
    – Quindi non potrò più ascoltare la voce della mia bambina?
    – Cosa vuoi che ti dica, se il capo ha detto che è possibile perché dubitare?
    – È tutto così difficile, nessuno sa dirmi cosa fare
    – Benedetto uomo, devi renderti conto che sei il primo ad aver fatto una simile richiesta, non è mica uno scherzo organizzare un simile spettacolo
    – Hai ragione, devo avergli creato un sacco di problemi
    – A lui? Non pensarlo neppure, il problema è tuo, sei tu che dovrai trovare il modo di arrivare il più vicino possibile alla Terra senza perdere la strada per tornare
    – Credi che se scendessi in quella grotta sarei al sicuro?
    – Sono stato anch’io li dentro e ti assicuro che non è uno scherzo, però è l’unico posto da cui è possibile ascoltare le voci della Terra senza correre troppi pericoli. Certo è talmente angusta che quando sarai in fondo avrai meno pelle di quanto non ne abbia ora
    – Questo non ha importanza
    – Allora non posso che augurarti buona fortuna
    Impiegò alcune ore per trascinarsi fino in fondo della caverna e benché quando vi giunse fosse pieno di dolorosi graffi sanguinanti, la splendida visione dell’universo lo rallegrò.
    – Ora capisco perché Dio non può cambiare le regole, occorrerebbero milioni di secoli per riuscirvi – Si disse mentre provò a sistemarsi in una posizione più comoda. Poi, una volta trovata la meno dolorosa, si mise in attesa armato di tutta la sua pazienza.

    Mai l’attesa gli fu tanto lunga e penosa. Soprattutto perché dovette combattere con un milione di pensieri che gli affollarono la mente, ma quando vide spalancarsi le porte del cielo e Dio, che con un cenno della mano fece cessare ogni rumore e ogni suono nell’universo intero, seppe di avere tutto il suo amore.
    Era ancora stordito da tanta grandezza quando una debole melodia colmò il silenzio che lo circondava e mentre quelle note acquistavano vigore, giunse la calda e melodiosa voce della sua bambina.

    In un attimo rivisse tutta la sua vita e i dolcissimi momenti trascorsi al suo fianco e fu allora che pianse le sue ultime calde lacrime d’uomo.
    Poi, quando sulla Terra scese la notte e le figlie degli uomini che erano in cielo caddero nel sonno, un prodigio s’impossessò dei loro spiriti incidendovi la tenera e struggente emozione di un lunghissimo abbraccio che rimase nei loro cuori per il resto della vita.”

    Quando terminai di raccontare, lei chiese con un filo di voce
    – Perché hai scelto questa storia?
    – Non lo so, è una storia come tante altre
    – Perché papà? – Insistette lei

    Amelia si accostò e salendo sulla veranda mi tolse dalle braccia la bambina e dopo averle sorriso borbottò
    – Forse perché voleva dirti che quando si ama e si ama con la mente e con il cuore, non esiste alcuna legge, si ama e basta

    La bambina prese tra le sue una delle mani di "mamma Amelia" e la strinse forte mentre sentì nel petto qualcosa che saliva e le toglieva il respiro.
    Durò soltanto un attimo, poi tirò su col naso e si sentì più leggera.
    – È bello stare con voi. – Sussurrò con un filo di voce – Mi fate sentire importante

    Amelia borbottò un frettoloso…
    – Si è fatto tardi, dovremmo aver già cenato e tu essere a letto

    Quella notte Sara sognò "monte Cotrozzi". Quel grumo di terra verde somigliava al suo papà e a "mamma Amelia" e lei vi si arrampicava gridando i nostri nomi.
    Quella collina era la sua famiglia e lei non avrebbe permesso a nessuno di salirvi.
    Quella collina erano i suoi due grandi amori e loro erano cosa sua…

    Il tempo trascorse senza accorgercene. Sara riacquistò tutta la sua vitalità e fece di noi due esseri felici di averla come figlia.

    Una mattina di qualche tempo dopo Sara uscì presto ma sull'aia trovò me ad aspettarla.
    – Come mai sei ancora quì? – Mi chiese
    – Hai voglia di venire con me?
    – Certo! Dove si va?
    – Sulla collina…
    – Con te vengo anche in capo al mondo

    Annuendo mi avviai lungo il sentiero che aggirando il meleto raggiungeva la collina e lei mi seguì aggrappandosi alla mia mano.

    Percorremmo quel tratto di terreno senza che nessuno dei due pronunciasse una sola parola, ed io, che non mi stancavo di stringere e carezzare la piccola mano, non staccai un solo attimo gli occhi da quel volto sul quale l'unica traccia del dramma subito poteva essere letta nell'inconoscibile profondità dei suoi occhi, che sebbene fossero tornati a risplendere di luce vivissima, lasciavano trasparire l'immagine di una prova che l'aveva indelebilmente segnata.
    Raggiunta la sommità della collina mi lasciai scivolare seduto ai piedi della quercia
    – Siediti – Dissi masticando la pipa
    – Ancora un attimo, – Rispose lei – lascia che goda della vista della mia amica quercia

    In quei primi giorni di Settembre il grande albero iniziava ad assumere il suo bel rosso regale e lei, seguendo un rituale che si rinnovava ogni volta che si trovava al cospetto della grande pianta, memorizzò l'incisione a fuoco della tavola affissa al fusto.

    QUERCIUS RUBRA L.
    QUIVI INTERRATA DA
    ISAAC L. PADGETT
    4 luglio a.d. 1901



    Per alcuni minuti parve che nessuno di noi avesse voglia d'infrangere il silenzio che ci circondava.
    Io mi ero perso in una delle nuvole azzurre che soffiavo verso l'alto, mentre lei, in piedi con la schiena poggiata al fusto della pianta, lasciava che il suo sguardo scivolasse sul meleto sottostante.
    – Vuoi una mela? – Chiesi porgendogliela
    Sara prese la mela continuando a far vagare lo sguardo fino agli alberi che circondavano la casa, poi, improvvisamente, emise un rumoroso
    – Oooh si!
    – Qualcosa non va? – Chiesi voltandomi a guardarla
    – Cosa? Oh no, va tutto bene, sono felice
    – Qualche motivo particolare?
    – La tua casa, Dio che bella!
    – Quella è anche la tua casa – Soggiunsi

    Lei annuì addentando la mela
    – Si, la nostra casa è grande e bella
    – Non è importante che una casa sia bella o molto grande, ciò che conta è che sappia essere una vera casa – Borbottai
    – La nostra lo è. Lei è stata mia madre e mio padre, mi ha protetta quando ne avevo bisogno
    – Non farti sentire da Amelia, non lo apprezzerebbe
    – Qual è il segreto per essere una buona casa?
    – È difficile stabilire una regola che possa essere valida per tutti, generalmente è la nostra sensibilità e quanto possediamo nel cuore a darle un valore. Per alcuni possono essere emozioni così travolgenti da identificarla con la madre... mentre per altri può essere difficile perfino coglierne le virtù più semplici
    – Io credo che ne serberò il ricordo in eterno...
    – Non dirmi che siamo già alle lacrime – Commentai con un velato senso d'ironia nella voce
    – Tu non cambierai mai, vero? – Borbottò lei alla svelta asciugandosi gli occhi con le mani
    Me la risi tentando un difficile recupero
    – Perché l'hai edificata così grande? Avevi intenzione di avere una grande famiglia?
    – No, qui ti sbagli... quella casa non è opera mia, non ne sarei stato capace. Fu Isaac a tirarla su
    – Com'era?
    – Chi? Lui?... Beh... era brutto da far spavento
    – Come te? – Soggiunse lei sorridendo
    – Oh no! Molto peggio
    – Era nato in questa valle?
    – No, si trasferì da queste parti all'inizio del secolo
    – Veniva dal sud?
    – Dall'Inghilterra
    – Non amava la sua terra?
    – L'amava come pochi, ma fu costretto ad abbandonarla per dare una possibilità in più alla sua famiglia. Non conosco tutti i motivi che lo spinsero in questa valle, ma lui raccontava che dalle sue parti il terreno era acido e che per fare il contadino bisognava sputare sangue
    – Non credo possa essere un buon motivo per lasciare la propria terra
    – Forse no, ma quando si ha una moglie e tre figli da sfamare, a volte si debbono fare scelte dolorose
    – Com'era questa valle all'inizio del secolo? Te l'ha mai descritta?
    – No, ma non doveva essere molto diversa da quella che vediamo oggi. Beh, certo non c'erano i trattori e l'elettricità, ma in compenso la terra era a buon mercato. Acquistò questo fondo con due soldi e impiegò quindici anni per edificare quella casa
    – Quindici anni per costruire una casa?
    – Un po' troppi è vero, ma guarda cos'è riuscito a fare. In tutta la valle non ve ne sono di altrettanto belle e solide
    – La tirò su da solo?
    – Quando arrivò da queste parti i suoi figli erano ancora troppo piccini per aiutarlo, ma con l'aiuto della moglie riuscì a tirarne su una di calce e tronchi d'albero. Poi, quando i ragazzi furono in grado di dar loro una mano e con un po' di aiuto esterno, pietra su pietra finirono per renderla così com'è ora. La stalla e la parte superiore venne più tardi. Nei suoi progetti sarebbe dovuta servire ai figli e alle loro famiglie
    – Una buona idea per non separarsi da loro... ma perché ora quella parte è chiusa? Non credi sia giusto riaprirla?
    – Abbiamo già una stanza in più, cosa potremmo farcene delle altre?
    – Oh papà, quelle stanze sono costate fatica, non è giusto lasciarle abbandonate, devono sentirsi amate
    – Si, però tu avreste qualche stanza in più da tenere in ordine
    – E tu credi che la cosa possa spaventarci? Io e "mamma Amelia abbiamo spalle robuste
    – Ne sono convinto, però... D'accordo, apriremo quelle porte
    – Sono certa che Isaac ne sarebbe felice
    – Si, immagino di si
    – Piantò anche il meleto?
    – Quel diavolo d'uomo non soltanto piantò il meleto e alcuni degli alberi attorno la casa, ma dissodò i campi e...
    – Piantò questa quercia – Completò lei
    – Come l'hai indovinato?
    – È scritto qui. Quell'uomo doveva amare molto la natura se ha voluto portare fin qui un simile spettacolo
    – Per la verità fu sua moglie a volerla quassù
    – L'avrei fatto anch'io
    – Perché?
    Lei si strinse nelle spalle
    – Forse per dare un po' di belletto a questa collina verde
    – Aveva un coraggio da leone e un cuore grande come la sua casa. Povero Isaac, con lui la sorte non fu generosa, i suoi due figli morirono in Francia nel 1917, sui campi di battaglia e dopo qualche anno la figlia si sposò lasciandolo solo con la moglie. Erano bravi nel loro lavoro, ma dovettero scegliere se rimanere o vendere la proprietà e alla fine scelsero di mandare avanti la fattoria da soli
    – Come facciamo noi?
    – Pressappoco, ma con un problema in più, l'età. Infatti dopo qualche anno sua moglie si ammalò e nel giorno del suo sessantesimo compleanno lo lasciò
    – Oh mio Dio! Rimase solo
    – Qualche mese più tardi arrivai io da queste parti e lui mi offrì di aiutarlo nel suo lavoro. Avevamo tutti bisogno di aiuto; la fattoria di due braccia in più, lui di compagnia e io di un motivo per ricominciare a vivere. All'inizio ero deciso a rimanere soltanto qualche mese e invece m'innamorai di questa valle, della casa, del lavoro e dell'amicizia che lui seppe offrirmi
    – Lavorasti per lui?
    – In pratica divenni suo dipendente, ma il rapporto che ci legò fu qualcosa di straordinario. Ci unì un grande rispetto e una profonda stima. Egli m'insegnò tutti i segreti della campagna, ed io, quando la sera si rientrava dai campi, leggevo per lui i classici greci e latini… Cos'hai da scuotere la testa? – Chiesi vedendola ripetere quel gesto
    – Nulla! – Rispose lei sorridendo – Ti prego continua
    – Andammo avanti così fin quando la sua fibra cedette e si ammalò gravemente. Telegrafai a sua figlia e lei venne a prenderlo per condurlo con se in California
    – Allora questa casa è di Isaac?
    – No, prima di partire quel testone mi dette l'ultima prova della sua straordinaria amicizia, volle cedermi legalmente la proprietà ad un prezzo che riuscii a sostenere con i miei risparmi e sai una cosa? Ancora oggi mi chiedo come accidenti poteva sapere quanto denaro possedessi?
    – Sentisti la sua mancanza?
    – Accidenti se la sentii. Per giorni e giorni continuai a parlargli come se fosse stato ancora presente e la sera continuavo a leggere Platone e Omero
    – Venivate mai quassù?
    – A volte si veniva per portare un fiore a sua moglie
    – A sua moglie? – Chiese Sara sorpresa
    – Credo di non avertelo mai detto, ma prima di morire chiese di essere sepolta sotto quest'albero
    – Ecco perché sono sempre in buona compagnia – Rise Sara
    – Ora il suo corpo non c'è più, se la portò via con se
    – I loro spiriti sono ancora qui, lo sento, ma tu cosa venivi a fare quassù?
    – A volte semplicemente per guardarmi attorno, magari mangiando una mela o due. In autunno sono deliziose
    – Perché mi racconti queste cose? – Domandò lei senza guardarmi
    – Forse perché è un bel po' che non parlo della mia vita
    – Mio Dio papà! Continua il tuo racconto, è la tua storia
    – Davvero t'interesso ancora?
    – Oh smettila, vuoi farmi star male?
    – Sai perché scelsi questa valle?
    – Dimmelo!
    – Era già qualche anno che gironzolavo per il mondo e il Vermont era l'ultima tappa di un viaggio che avevo iniziato per fuggire ad un'infinità di ricordi
    – Fuggivi dai tuoi ricordi? Oh mio Dio, perché?
    – Non da tutti, ma da quelli più dolorosi... la malattia, l'esonero dal mio lavoro e tutto il resto. Quando giunsi su questa collina era una stupenda sera... il 4 di Agosto se ricordo bene. L'aria era tiepida e c'era una grande pace. Decisi di trascorrervi la notte, ma quando l'indomani aprii gli occhi mi trovai dinanzi Isaac con in mano uno schioppo più grande di lui. Per un po' ci guardammo senza parlare, poi lui dovette accorgersi del disagio che provavo di fronte a quel ferro vecchio e rimettendoselo a tracolla mi chiese se avessi già fatto colazione
    – Dovevo immaginarlo che c'era di mezzo la mia collina
    – Sai una cosa? Ho sempre creduto che in questa valle risieda l'anima della Terra
    – Cosa te lo fa pensare? – Mormorò lei prima di voltarsi a guardarmi
    – Non lo so, ma tra questi boschi accadono cose incredibilmente belle. A volte mi domando se Dio non l'abbia scelta per compiervi i suoi esperimenti
    – E magari questa collina è il suo trono – Concluse lei
    Annuii
    – Potrebbe essere, quassù è tutto così diverso, così pulito. Si ha l'impressione di vivere una dimensione di qualità superiore
    – Lo senti anche tu?
    – Beh, non so con precisione cosa senta, ma qui sto bene
    – Oh papà, tu meriti questo privilegio
    – E tu?
    – Io sono una sciocca, ho impiegato troppo tempo per comprendere che questa terra è stata la mia culla. È qui che sono nata e sapessi come l'amo. Ho dato un nome ad ogni filo d'erba, ad ogni pietra. Ogni parte di lei è parte di me. Credimi papà, non esiste nulla di più bello.
    – Oh beh
    – Ne dubiti?
    – No, ti credo
    – Dio ha fatto un buon lavoro quassù
    – Già, – Soggiunsi – e con te ha compiuto il suo capolavoro
    – Oh smettila! Sai mentire così bene che mi fai rabbia
    – Avrai modo di accorgertene
    – Invece di perdere il tuo tempo in chiacchiere senza senso, perché non mi parli di te. Sai che della tua vita mi hai raccontato pochissimo? Di quel periodo mi hai detto poco o nulla, non so neppure da quanti anni sei nella valle

    – Fu l'anno del lungo inverno. – Mormorai e nel tentativo di riportare alla mente ricordi lontani mi leccai le labbra sperando di richiamare anche quella sopita sensazione del gusto di mela. – Accidenti se fu lungo e che freddo! Quell'anno venne giù tanta di quella neve che dovetti liberarne di continuo il tetto per evitare che ci crollasse sulla testa...

    Intuendo che non le avrei detto nulla più di quanto già non conoscesse, lasciò che lo sguardo scivolasse fin verso la valle, oltre il meleto, dov'era possibile vedere una parte della casa e le grosse cataste di legna che troneggiavano al sole vivido.

    Le verdi montagne, che già si stagliavano nell'azzurro del cielo, sembravano essersi fatte più leggere e più basse e mentre dal piano saliva il fruscio del torrente e lo stormir di foglie, ravvivata da una brezza odorosa la valle sembrava fremere, come se dopo aver giaciuto priva di sensi per un intera notte, ora, al calore del sole, si riavesse al fervore della vita.
    Improvvisamente la mia voce la sottrasse al sogno e lei, sentendo nascere in se il rimpianto per l'incanto ormai irrimediabilmente interrotto, scivolò in ginocchio volgendo verso di me il volto imbronciato.
    – Qualcosa non va? – Chiesi

    Sara mi fissò con aria confusa e nel riconoscere il mio volto il rimpianto svanì – Sei tu. – Sussurrò – Scusami, ma è così bello godere di quest'incanto che la mente è volata via
    – Perché non ti siedi, ti verrà male alle gambe se resti in quella posizione
    Sara sedette massaggiandosi furiosamente le ginocchia indolenzite.
    – Va tutto bene? – Domandai
    – Ohi ohi! Povere le mie ginocchia, che male
    – Dov'era la tua testolina? – Chiesi
    – Qua e la. Quest'armonia mi ha distratta dal tuo racconto
    – Non hai perduto nulla d'importante
    – Non sei arrabbiato? – Chiese lei sorpresa
    – Dovrei?
    – Si che dovresti! Stavi parlandomi della tua vita
    – Erano soltanto vecchi ricordi
    – Si, ma erano i tuoi ricordi
    – Sai qual è il peggiore difetto dei vecchi? Quello di credere che il mondo sia interessato a ciò che dicono mentre invece non li ascolta nessuno
    – Dai, non farmi sentire colpevole. Ti ascoltavo, ma come al solito eviti sempre di raccontare cose che ti riguardano personalmente
    – Non è vero, ti ho detto molto di me
    – Soltanto quello che desideravi io sapessi
    – E allora? Cosa posso farci se nella mia vita non c'è nulla che valga la pena d'essere raccontato
    – Tu racconta e lascia che sia io a giudicare
    – D'accordo, cosa vorresti conoscere?
    – Ogni cosa che ti riguardi intimamente, com'eri, cosa pensavi e se facevi la corte alle ragazze
    – Beh, – Borbottai facendo l'atto di alzarmi – credo sia ora di tornare giù, abbiamo un'infinità di cose da fare. Ad ogni modo è meglio scendere per controllare il trattore
    – Cos'ha? Non mi dirai che è di nuovo fermo?
    – Beh, in questi ultimi giorni ha fatto qualche capriccio
    – Il trattore, eh? Non sarà una scusa per non parlarmi delle tue avventure con le ragazze?
    – Non essere impertinente! – Reagii borbottando parole incomprensibili e avviandomi verso il sentiero che scendeva sul fianco ripido della collina.
    – Si può sapere perché vuoi scendere da quella parte? – Domandò lei raggiungendomi – Il viottolo è ostruito dal ramo dell'abete. Non dirmi che l'hai tolto
    – No, credo sia ancora li, ma non fa nulla, vedremo di farlo ruzzolare di sotto
    – Non è una buona idea, da quella parte il terreno è umido e c'è poco spazio per quell'operazione. Possiamo farlo domani tirandolo giù dal basso. Dai retta scendiamo di la, è più agevole
    – Si può sapere cos'hai stamani?
    – Cos'hai tu! Non fai altro che borbottare – Ribatté lei
    – Io non borbotto mai
    – Ah no? Allora cos'erano quei versacci?
    – Pensavo
    – Ad alta voce?
    – Oh! Sta a vedere che non posso più pensare come meglio mi garba
    – Anche tu oggi non scherzi, eh?

    Preferii non rispondere, ma quando una decina di metri più in basso il sentiero si restrinse, mi voltai porgendole il braccio
    – Tieniti a me e fai attenzione a dove metti i piedi

    Sara rifiutò sdegnosamente il braccio puntando i talloni nel terreno fangoso
    – Non pensare a me, – Esclamò risentita – piuttosto stai attento tu. Il terreno è viscido
    – Scusami, volevo soltanto essere gentile
    – Ti ringrazio, ma so cavarmela da sola
    Avevamo appena superato lo sperone di roccia che fummo costretti ad arrestarci a causa del grosso ramo che ostruiva il sentiero.
    – Visto se avevo ragione? – Esclamò lei – Ora dovremo tornare indietro. Sei il solito di testone
    – Qual è il problema? Ora gli affibbio un paio di spinte e vedrai come andrà giù
    – Ma come cavolo pensi di spingerlo? Non vedi che s'è impigliato nella siepe?
    – Ora vedrai
    – Accidenti a tutte le teste dure! Stai attento, non ho alcuna intenzione di raccoglierti giù nel meleto

    Fingendo di non averla udita poggiai la schiena alla roccia per acquistare più stabilità e poi provai a spingere il ramo con un piede, ma fatti tre o quattro inutili tentativi mi volsi verso di lei dondolando il capo.
    – Non va giù questo figlio di un cane – Borbottai
    – Allora cosa si fa? – Chiese lei con un malcelato sorriso sulle labbra
    – Si torna indietro – Rispose lui senza guardarla
    – Fai provare me, è sufficiente districare il ramo dalla siepe per mandarlo giù – Insistette lei sentendo di potersi prendere una rivincita

    Risentito, dal tono beffardo della sua voce, mi chinai nel tentativo di liberare con le mani il ramo, ma prima ancora di rendermene conto, con un guizzo improvviso, un serpente si avventò contro il mio braccio.

    In una frazione di secondo Sara vide il balenio dei denti della serpe e nello stesso istante sentì spingersi all'indietro dal mio corpo, che sotto la violenza dell'attacco ritrassi addossandomi alla parete di roccia.

    Pietrificata dallo spavento Sara restò ad osservare l'ombra screziata della serpe che, ritta sul corpo, spostava, ora a destra e ora a sinistra, la testa seguendo le mosse del mio ginocchio.

    Superato quel primo istante di panico e temendo che la serpe avrebbe nuovamente attaccato, con una rapida mossa Sara avanzò di un passo, sollevò un piede e lo abbassò con violenza schiacciando la testa della serpe sotto la grossa scarpa.
    – Mi ha morso! – Dissi con voce roca sollevando la manica della camicia per esaminare il braccio
    Con orrore vedemmo due punture sull'avambraccio leggermente macchiate di sangue
    – Sono un grosso imbecille. – Sussurrai – Avrei dovuto immaginarlo
    – Papà, mio Dio, cosa possiamo fare? – Esclamò lei tenendomi il braccio
    – Non è nulla, resta calma, so quello che debbo fare
    Sara annuì facendo fatica a controllare le sue emozioni – Lascia che provveda io, – Disse tirando a se il braccio – tu non puoi lasciarmi
    – Ssst, ti prego sii brava, so come cavarmela
    Senza dire altro m'inginocchiai, cavai il coltello dalla tasca del giubbotto, estrassi la lama e porsi avanti il braccio destro.

    L'avambraccio era già gonfio e stava annerendo rapidamente. Tirai un grosso respiro e, trattenendo il fiato, con la lama affilata praticai un'incisione a croce al centro delle due punture.

    Un fiotto di sangue nero sgorgò dalla ferita che rapido portai alle labbra succhiando e sputando alle mie spalle

    Ancora stordita e inorridita da quanto stava accadendo, Sara seguì ogni mossa nel più completo silenzio, ma quando comprese che stavo per praticare un'altra incisione nel punto di massimo gonfiore, esplose in un grido tentando d'impedirmelo
    – Papà no! Non farlo, non servirebbe a nulla
    – Silenzio – Dissi con voce roca
    – Non fare il bambino. Ti prego, non farmi morire di spavento
    Senza darle ascolto praticai l'incisione
    – Sono soltanto poche gocce di sangue, – Dissi con un sorriso stentato sulle labbra – è quello che contiene la maggior parte del veleno, sta tranquilla non è nulla – Sussurrai prima di riprendere a succhiare le ferite e a sputare alle mie spalle

    – Se vuoi fare qualcosa per me vai a casa, prendi il vaccino che è nella ghiacciaia e porta una coperta. Avrò bisogno di calore e per qualche ora non potrò muovermi. Sii brava, andrà tutto bene, ora va… e non dire nulla ad Amelia.

    Sara non se lo fece ripetere due volte, con un balzo superò il ramo che ostruiva il sentiero e si lanciò di corsa lungo il viottolo, per scoprire che quella non doveva essere la sua giornata migliore.
    Aveva appena percorsi una ventina di metri che, incespicando in una grossa radice, finì con un piede oltre il ciglio del sentiero.
    Con una torsione del busto tentò di recuperare l'equilibrio afferrandosi al fusto di un giovane arbusto, ma non fu abbastanza rapida e un secondo più tardi iniziò a ruzzolare lungo la scarpata.

    Si arrestò a ridosso del primo melo con un tonfo che non lasciò prevedere nulla di buono e quando poco dopo riprese fiato e tentò di rimettersi in piedi, un acuto dolore alla caviglia la costrinse ad aggrapparsi all'albero per non finire nuovamente in terra.
    Con la manica del maglione asciugò il rivolo di sangue che colava da una ferita poco sopra il sopracciglio, poi, serrando i denti per non urlare dal dolore, si avviò verso casa saltellando sul piede sano.

    Bene o male raggiunse la sua camera, prese dal letto due coperte e in cucina l'antidoto, poi, prima di riprendere il cammino saltellando verso la collina, applicò una manciata di sale sulla ferita.

    Se per ruzzolare giù dal pendio aveva impiegato pochi secondi, per inerpicarsi con le due coperte sulle spalle e la caviglia dolorante, la cosa si fece decisamente più lunga.
    Un paio di volte le sfuggirono di mano le coperte obbligandola a tornare indietro e quando finalmente stava per issarsi sulla cima, le sfuggì l'appiglio dalla mano.
    Piena di dolori e colma di rabbia si sentì persa.
    – Dio aiutami – Singhiozzò riuscendo ad arrivare sulla cima.

    Io ero disteso in terra e mi lamentavo debolmente.
    Seguendo l'istinto Sara mi iniettò nel braccio il siero senza troppi complimenti, mi coprì con le coperte e dopo essersi tolta il maglione che indossava me lo pose sotto il capo.
    Per un attimo aprii gli occhi e le sorrisi.
    – Cos'altro posso fare? – Chiese lei con voce tremante
    – Porta dell'acqua, dovrai darmi spesso da bere

    Singhiozzando Sara tornò nuovamente a valle tentando di escludere dalla mente il dolore alla caviglia. Raggiunto il pozzo riempì d'acqua una fiasca e poi di nuovo su per il sentiero mordendosi le labbra ad ogni passo.

    Quando risalì ero caduto in una sorta d'incoscienza smaniosa e la temperatura del mio corpo era salita vertiginosamente. Sara mi bagnò continuamente le labbra e la fronte cercando di tenermi sveglio.
    Un'intollerabile paura s'impossessò di lei e quando comprese di non essere più in grado di combatterla, si inginocchiò e sollevati gli occhi al cielo gridò con quanta voce avesse in corpo
    – "Mamma Amelia" aiutaci.

    Forse non fu quella la volta che mi avvicinai alla morte, perché trascorremmo le prime ore aggrappandoci entrambi ai ricordi più belli.

    D'un tratto, risvegliatomi da uno stato di sonno agitato, mi resi immediatamente conto che le mie condizioni stavano velocemente peggiorando.
    A quel punto Sara non volle pensare, raccolse ogni sua energia e cominciò a pregare rovesciando il capo all'indietro urlando con voce roca
    – «Ti prego, non punirmi ancora...aiutami!»
    L'eco di quelle parole non si era ancora perso nel buio che la valle si arrestò come pietrificata e mentre i nostri corpi furono avvolti da una debole luminosità, lei riprese a pregare a voce alta «Non abbandonarci, salvalo» – Sussurrò ormai svuotata di energie mentre anche l'aria parve farsi di pietra
    Da quell'istante trascorse un tempo infinito, poi, improvvisamente, un raggio di luce vivissima saettò dall'alto avvolgendoci, mentre il silenzio fu infranto da un tuono possente.

    Pochi attimi dopo era nuovamente china sul mio corpo
    – «Papà» – Sussurrò con voce sommessa
    – Sei tu? – Reagii al suono della sua voce
    – «Si» – Bisbigliò lei con una voce le cui emanazioni produssero sul mio cuore un effetto simile ad una carezza
    – Aiutami se mi ami, non ce la faccio più. Questo dolore mi uccide… – Riuscii a mormorare
    – «Ssst, – Sussurrò lei accostando le labbra al mio orecchio – Sta salendo "mamma Amelia"...voi non potete saperlo, – Riprese lei – ma la vostra vita è la mia stessa vita e non dovrete temere… io raggiungerò il cielo se sarà necessario… ma non vi lascerò mai»
    Poi soffiò sulla mia fronte e mi sentii sprofondare in una stanchezza indicibile, ma prima ascoltai le sue parole.
    – «Ora dormi, riposa e non temere mio dolcissimo padre, quando ti sveglierai io sarò con te»

    Trascorse la notte, poi al mattino aprii gli occhi sui visi cerei e preoccupati di Sara e di Amelia.
    – Tesoro come stai? – Chiese Amelia sorridendomi
    – Molto meglio di ieri sera – Sussurrai sfiorando le mani di Sara che piangendo disse – Papà! Non farci più di questi scherzi, la prossima volta potremmo non farcela.

    Mi sollevai a sedere e la presi tra le braccia mentre lei piangendo mormorò
    – Non lasciarmi Papà, non lasciarmi mai più
    – Cosa avete fatto tutto questo tempo? – Chiesi
    – Cosa avremmo dovuto fare? Siamo rimaste con te
    – Mi dispiace… Avete avuto paura?
    – Non ne ho mai provata tanta – disse Amelia carezzando i nostri volti

    – Vi ho lasciate sole per una intera notte! Santo cielo, sono proprio un vecchio babbeo buono a nulla
    – Tu non lo sarai mai e poi non eravamo sole, un angelo era con noi
    – Sai che gran cosa? Non sarei potuto essere meno inutile. E dove avete dormito?
    – Qui! Sotto le coperte con te
    – Avreste dovuto tornare a casa e dormire nei vostri letti
    – E lasciarti solo? – Chiese Amelia scandalizzata
    – E allora?
    – Allora un accidente, quassù è pieno di lupi. Tu devi essere fuori di testa. Neanche per un posto in paradiso ti avremmo lasciato solo, avresti potuto avere bisogno di aiuto
    – Questa frase mi pare d'averla già udita. Cosa ne dici, vogliamo scendere?
    – Sei certo di riuscire a farcela?
    – No, ma non ho alcuna intenzione di rimanere qui in terra a fare il babbeo. E poi se ricordo bene ho un conto in sospeso con un certo ramo. Ohi ohi! Il mio stomaco brontola vergognosamente
    – Ora ce ne andremo a casa e ti metterai a letto
    – Letto? Con tutto quello che c'è da fare?
    – Se ho detto che andrai a letto, tu andrai...
    – ...a letto. Va bene! Basta che la smetta di brontolare
    – Lo farai? – Chiese Sara guardandomi sorpresa
    – Certo, a patto però che sia soltanto per un giorno
    – Niente da fare, rimarrai a letto fin quando non ti avrà visitato il dottore. Più tardi andrò a Middlebury col carro – Disse Amelia
    – Ehi ehi ferma tutto! Quale dottore?
    – Papà, hai dimenticato d'essere stato morso da una serpe?
    – Oh poverina! Sarà sicuramente morta per over dose
    – Accidenti a te! – Borbottò Amelia – Almeno una volta vuoi farmi stare tranquilla? Non sei più un ragazzo
    – Chi lo dice?
    – Lo hai detto tu che sei un vecchio babbeo... Scusa, però se non vuoi vedermi morire devi smetterla di fare sempre di testa tua
    – Mia madre me l'ha data per farla funzionare
    – Di questo ne sono certa, però deve essersi dimenticata di dirti che non serve soltanto per tenerci il cappello...
    – E va bene! – Urlò lei – Non volevo essere scortese con tua madre, scusami… Tu mi farai morire
    – Non mettere tutto in tragedia, non ho alcuna intenzione di privarmi della tua compagnia
    – Allora promettimi che te ne starai a letto
    – E il lavoro?
    – Una cosa alla volta, per ora il nostro lavoro sei tu
    – Anche voi non scherzate in fatto di testa dura
    – A furia di frequentare gli zoppi s'impara a zoppicare
    – Invece di dire scemenze perché non mi aiuti a rimettermi in piedi, sono stanco di stare sdraiato sul duro, ho tutte le ossa rotte – Brontolai sorreggendomi alle sue spalle.
    – Sapessi quanto pagherei per vedere cosa c'è in quella zucca che hai al posto della testa – Borbottò lei aiutandomi

    Senza degnarle di una risposta provai a camminare avviandosi lentamente verso il sentiero
    – Ora dove stai andando? – Chiese Sara
    – Dobbiamo scendere o no!
    – Maledizione, ma allora tu ce l'hai con noi! Vuoi farti entrare nella zucca che non sei in grado di scendere da quella parte
    – Va bene, sono un testone... però non c'è bisogno che me lo ripetiate continuamente – Risposi gridando quanto lei

    Stringendosi nelle spalle Sara sorrise, ma quando mi voltai verso di lei, dovette farsi venire un attacco di tosse per mascherare meglio la ferita sulla fronte.
    – Come te la sei procurata? Fa vedere
    Schivando la mia mano Sara si allontanò di corsa lungo il sentiero
    – Ehi dove vai? – Urlai
    – A preparare la colazione! Fate in fretta
    – Vai piano incosciente, potresti ruzzolare di sotto
    – Già fatto – Mormorò fra se Sara sfiorandosi la fronte con la mano

    Io e Amelia riprendemmo lentamente il cammino sorreggendoci l'un l'altra.
    Superato il meleto ci arrestammo a guardare lo scempio arrecato da Sara ai viticci.
    – Cosa vuoi farci, – Disse Amelia sorridendo – sai com'è quella benedetta figlietta, magari domani verrà a chiedere scusa a quelle piante.

    Quando raggiungemmo i gradini della veranda ero sfinito.
    – Dai lumaconi, cosa aspettate a salire? Ancora un po' e sarà tutto freddo – Gridò Sara dalla cucina

    Inspirai col naso l'aria profumata che proveniva dall'alto
    – Dovrebbero essere uova fritte con lardo... – Borbottai ad Amelia
    – ...e salsa piccante! – Terminò Sara affacciandosi alla porta

    Sorridemmo e scuotendo il capo riprendemmo a salire le scale mentre Amelia, grattandosi furiosamente la testa borbottò
    – Grazie a Dio è finita bene.

     
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