Il rifugio dello scrittore

Principio di precauzione

prologo: abduzione (1)

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. mister bradipo
     
    .

    User deleted


    Buongiorno a tutti! Eccomi dopo un po' di silenzio, con un nuovo viaggio appena iniziato. Gli ormeggi sono stati mollati da pochi giorni, e questa volta spero di poter assemblare un romanzo più maturo rispetto al mio primo tentativo fantasy (che sto curando nell'editing al momento).
    Questo è il prologo della mia prossima creatura. Come sempre confido nel vostro parere.

    Nel momento in cui Jonathan Wilson aprì gli occhi, non percepì alcuna variazione d’intensità luminosa, scoprendosi immerso in una tenebra uniforme, soffocante, densa come l'inchiostro. L'unica certezza di essere vivo gli veniva dal battito furioso del cuore, che martellava il petto quasi a volerlo sfondare. Per il resto, avrebbe potuto benissimo trovarsi in qualche dimensione fuori del tempo e dello spazio, o semplicemente in una stanza buia.
    L'ultima possibilità si dimostrò quella esatta non appena le pupille, adattatesi alla mancanza di luce, gli mostrarono i contorni sfocati di quattro pareti, interamente percorse da un complicato intreccio di tubi, quadri ricolmi di pulsanti, levette e altre strutture poligonali di natura ignota.
    Alzatosi in piedi con un certo sforzo, il giovane raggiunse quella che sembrava una porta e appoggiò le mani contro la superficie algida della lastra di metallo. Il gesto gli procurò un sottile brivido elettrostatico ai palmi, non doloroso, ma talmente inatteso da costringerlo a ritrarsi. Superato quel motto d’incertezza, riaccostò le dita alla porta e percorse l’intercapedine che ne delimitava il profilo fino al punto in cui la lunghezza del suo braccio gli permetteva di arrivare. Ripeté la stessa azione sull’altro lato, ma non trovò niente. L’uscita, se di un’uscita si trattava, era priva di maniglie o altri meccanismi di apertura, e sembrava sigillata dall’esterno.
    «C’è qualcuno? Mi sentite?» disse, con un tono di voce altalenante, sostenuto da un’istintiva ricerca di aiuto ma allo stesso tempo smorzato dalla sensazione di un pericolo incombente, nascosto nell’ombra.
    Una luce scarlatta, sottile come un capello, si accese sopra la sua testa e, serpeggiando attraverso il soffitto, ne descrisse gli angoli fino a ricongiungersi al punto da cui si era originata. Luci di emergenza, pensò. Nello stesso istante, una voce femminile si diffuse da un punto indefinito ed echeggiò nella stanza.
    «Riconoscimento vocale non attivo. Reimpostare la procedura.»
    Si guardò attorno. Il lucore che scendeva dall’alto definiva il profilo di una scrivania ingombra di carte, dietro la quale campeggiava un archivio metallico. Uno dei cassetti era aperto, ma da quella distanza era impossibile stabilire cosa contenesse. Sul lato opposto della stanza riconobbe un armadietto, un paio di poltroncine e un secondo tavolino, su cui poggiavano due computer portatili. Gli schermi erano sollevati ma spenti.
    «Chi ha parlato? C’è qualcuno? Mi sentite?»
    «Riconoscimento vocale non attivo. Reimpostare la procedura.»
    Era di sicuro una voce registrata. Inutile insistere. Si avvicinò alla scrivania e diede una rapida occhiata ai documenti che vi giacevano sparpagliati, ma la debole luce rosata del sistema di emergenza rendeva difficoltoso decifrarli. Da quel poco che riuscì a intuire, si trattava di protocolli di emergenza sanitaria, che descrivevano complicate procedure di quarantena da adottare in caso di contaminazione da agenti esterni. Quando scrutò il fondo del cassetto, il riflesso metallico di una sottile canna lo fece sussultare. Si ritrasse, turbato.
    Aveva già intuito di trovarsi negli uffici della sicurezza, ma il fatto che un’arma fosse stata abbandonata in quel modo suggeriva la possibilità che dovesse essere accaduto qualcosa di drammatico, mentre lui era privo di conoscenza. Ma cosa?
    Un rumore metallico attirò la sua attenzione: solo in quel momento si accorse di una seconda porta, semi nascosta dal cono d’ombra proiettato dall’armadietto, che si stava lentamente aprendo, scivolando dentro alla parete con un sibilo quasi impercettibile. Ciò che comparve sulla soglia gli strappò un grido acuto.
    L’essere che avanzava verso di lui sembrava uscito da un incubo. Alto e sottile, si muoveva su quattro zampe ossute, articolate in più giunture che gli conferivano un andamento dinoccolato, innaturale, perverso. Simile a quella di un insetto, la testa glabra, vagamente triangolare, era dominata da due paia di grandi occhi composti sotto i quali si apriva una bocca in forma di mezzaluna rovesciata, armata di zanne sottili, affilate come lame. Escrescenze carnose, verdastre e umide, si agitavano come vermi al sole su ogni centimetro di quel corpo osceno.
    Jonathan, istintivamente, indietreggiò, tenendo i palmi delle mani protesi verso la creatura. «Sta lontano da me!»
    Furono le uniche parole che riuscì a pronunciare, mentre la gola inaridita si stringeva come un cappio e gli bloccava il respiro. Tanto era l’orrore, in quel momento, che non udì neppure la solita melopea metallica che si diffondeva sopra di lui e gli ricordava ancora una volta la necessità di reimpostare la procedura. A giudicare dal passo ciondolante con cui si muoveva, l’essere sembrava stupito quanto lui, anche se era impossibile attribuire un’espressione umana alle pieghe melmose che si contorcevano su quel volto belluino. Poteva benissimo essere furioso, o impaurito, o chissà cos’altro.
    Dalla sua bocca fuoriuscì un suono cavernoso, più simile a un’armonia di lamenti che non a una voce articolata. Mentre emetteva quel verso, sollevò una delle lunghe chele ossee che fuoriuscivano dal torace e la rivolse verso Jonathan. La propaggine terminava in una specie di mano ossuta, costituita da sottili falangi scheletriche e allungate, rinserrate intorno a una pistola.
    Il giovane lanciò un grido asciutto e balzò fino alla scrivania. Afferrò il primo oggetto che si trovò sotto le mani, una pesante cartellina azzurra, e lo scagliò contro il suo nemico, che sollevò l’altra chela per proteggersi ma, così facendo, perse l’iniziativa. Una danza di fogli ramati balenò nell’aria asfittica della stanza.
    La mano sprofondò nel cassetto e, un istante dopo, l’arma scintillava di rosa e blu tra le sue dita. Per qualche motivo, sapeva come togliere la sicura, e lo fece. E sapeva anche che si trattava di un’arma di ultima generazione, realizzata apposta per essere utilizzata all’interno di un’astronave, senza il rischio di danneggiare lo scafo con la sua detonazione.
    Svuotò l’intero caricatore, aizzato dall’adrenalina, senza pensare, senza fermarsi un istante. Una salva di colpi sibilò silenziosa sull’essere attonito, che si piegò sul busto in cerca di protezione. L’ultimo colpo raggiunse la punta del cranio, che esplose eruttando una pioggia di materia cerebrale e tessuti grigiastri tutt’intorno. Dal moncherino sopra al collo si sollevò un lungo schizzo di sangue vivido, rosso come le ciliegie, che imbrattò il soffitto e ricadde a terra in una pioggia di gocce vivide. Il corpo acefalo si abbatté sul pavimento con un tonfo secco, come un sacco di farina. La pistola scivolò dalla chela inerte e rimbalzò fino ai piedi di Jonathan, fermandosi a pochi centimetri da lui.
    Il giovane rimase immobile, l’arma stretta tra le mani tremanti, ansimando pesantemente come dopo una corsa sfrenata. Sentiva il sudore colargli lungo il collo e sulle tempie, il cuore pulsava come un martello, dietro lo sterno, quasi a voler fuggire dal corpo dopo averlo sfondato.
    Con un gesto istintivo raccolse la pistola che giaceva ai suoi piedi. La sicura era inserita.
    Aggirò il corpo crivellato, immerso in una pozza di sangue sempre più ampia, cercando di non guardarlo. Fu raggiunto però da un olezzo acre, dolciastro, vagamente metallico, che gli strappò un conato di vomito e lo piegò sulle ginocchia. Tossì a lungo, lacrime di sofferenza rigarono il volto. I capelli, impastati di sudore, aderivano alle tempie e gli coprivano gli occhi e la fronte.
    Quando riuscì a rimettersi in piedi, si accorse che la porta da cui era penetrato l’essere era ancora aperta. Tremando come un naufrago, si accostò al lato nascosto dall’ombra dell’armadietto. Poi, dopo aver rimosso la sicura dall’arma, oltrepassò la soglia.
     
    Top
    .
  2.  
    .
    Avatar

    Editor

    Group
    Amministratore
    Posts
    5,138
    Location
    Verona

    Status
    Ciao mister bradipo,
    è un buon brano, perché le cose "si vedono", però sembra un po' generoso in fatto di dettagli, nel senso che in alcuni punti lasci notare "in chiaro" le strategie della costruzione (gli intenti sviluppati per il costrutto).
    Quello immediatamente sotto, per comodità di confronto nello stesso post, è il brano originale; dopo c'è quello a cui ho fatto un editing diretto. Si tratta della semplificazione di alcuni periodi che contengono "complicazioni", ovvero l'uso di giri di parole che nulla aggiungono alle immagini. C'era un refuso: motto in sede di moto. In una nota c'è la spiegazione per l'uso inadatto di un lemma. In altre due ci sono fatti di logica costruttiva. Al riguardo di una, c'è anche una domanda.

    Originale
    Nel momento in cui Jonathan Wilson aprì gli occhi, non percepì alcuna variazione d’intensità luminosa, scoprendosi immerso in una tenebra uniforme, soffocante, densa come l'inchiostro. L'unica certezza di essere vivo gli veniva dal battito furioso del cuore, che martellava il petto quasi a volerlo sfondare. Per il resto, avrebbe potuto benissimo trovarsi in qualche dimensione fuori del tempo e dello spazio, o semplicemente in una stanza buia.
    L'ultima possibilità si dimostrò quella esatta non appena le pupille, adattatesi alla mancanza di luce, gli mostrarono i contorni sfocati di quattro pareti, interamente percorse da un complicato intreccio di tubi, quadri ricolmi di pulsanti, levette e altre strutture poligonali di natura ignota.
    Alzatosi in piedi con un certo sforzo, il giovane raggiunse quella che sembrava una porta e appoggiò le mani contro la superficie algida della lastra di metallo. Il gesto gli procurò un sottile brivido elettrostatico ai palmi, non doloroso, ma talmente inatteso da costringerlo a ritrarsi. Superato quel motto d’incertezza, riaccostò le dita alla porta e percorse l’intercapedine che ne delimitava il profilo fino al punto in cui la lunghezza del suo braccio gli permetteva di arrivare. Ripeté la stessa azione sull’altro lato, ma non trovò niente. L’uscita, se di un’uscita si trattava, era priva di maniglie o altri meccanismi di apertura, e sembrava sigillata dall’esterno.
    «C’è qualcuno? Mi sentite?» disse, con un tono di voce altalenante, sostenuto da un’istintiva ricerca di aiuto ma allo stesso tempo smorzato dalla sensazione di un pericolo incombente, nascosto nell’ombra.
    Una luce scarlatta, sottile come un capello, si accese sopra la sua testa e, serpeggiando attraverso il soffitto, ne descrisse gli angoli fino a ricongiungersi al punto da cui si era originata. Luci di emergenza, pensò. Nello stesso istante, una voce femminile si diffuse da un punto indefinito ed echeggiò nella stanza.
    «Riconoscimento vocale non attivo. Reimpostare la procedura.»
    Si guardò attorno. Il lucore che scendeva dall’alto definiva il profilo di una scrivania ingombra di carte, dietro la quale campeggiava un archivio metallico. Uno dei cassetti era aperto, ma da quella distanza era impossibile stabilire cosa contenesse. Sul lato opposto della stanza riconobbe un armadietto, un paio di poltroncine e un secondo tavolino, su cui poggiavano due computer portatili. Gli schermi erano sollevati ma spenti.
    «Chi ha parlato? C’è qualcuno? Mi sentite?»
    «Riconoscimento vocale non attivo. Reimpostare la procedura.»
    Era di sicuro una voce registrata. Inutile insistere. Si avvicinò alla scrivania e diede una rapida occhiata ai documenti che vi giacevano sparpagliati, ma la debole luce rosata del sistema di emergenza rendeva difficoltoso decifrarli. Da quel poco che riuscì a intuire, si trattava di protocolli di emergenza sanitaria, che descrivevano complicate procedure di quarantena da adottare in caso di contaminazione da agenti esterni. Quando scrutò il fondo del cassetto, il riflesso metallico di una sottile canna lo fece sussultare. Si ritrasse, turbato.
    Aveva già intuito di trovarsi negli uffici della sicurezza, ma il fatto che un’arma fosse stata abbandonata in quel modo suggeriva la possibilità che dovesse essere accaduto qualcosa di drammatico, mentre lui era privo di conoscenza. Ma cosa?
    Un rumore metallico attirò la sua attenzione: solo in quel momento si accorse di una seconda porta, semi nascosta dal cono d’ombra proiettato dall’armadietto, che si stava lentamente aprendo, scivolando dentro alla parete con un sibilo quasi impercettibile. Ciò che comparve sulla soglia gli strappò un grido acuto.
    L’essere che avanzava verso di lui sembrava uscito da un incubo. Alto e sottile, si muoveva su quattro zampe ossute, articolate in più giunture che gli conferivano un andamento dinoccolato, innaturale, perverso. Simile a quella di un insetto, la testa glabra, vagamente triangolare, era dominata da due paia di grandi occhi composti sotto i quali si apriva una bocca in forma di mezzaluna rovesciata, armata di zanne sottili, affilate come lame. Escrescenze carnose, verdastre e umide, si agitavano come vermi al sole su ogni centimetro di quel corpo osceno.
    Jonathan, istintivamente, indietreggiò, tenendo i palmi delle mani protesi verso la creatura. «Sta lontano da me!»
    Furono le uniche parole che riuscì a pronunciare, mentre la gola inaridita si stringeva come un cappio e gli bloccava il respiro. Tanto era l’orrore, in quel momento, che non udì neppure la solita melopea metallica che si diffondeva sopra di lui e gli ricordava ancora una volta la necessità di reimpostare la procedura. A giudicare dal passo ciondolante con cui si muoveva, l’essere sembrava stupito quanto lui, anche se era impossibile attribuire un’espressione umana alle pieghe melmose che si contorcevano su quel volto belluino. Poteva benissimo essere furioso, o impaurito, o chissà cos’altro.
    Dalla sua bocca fuoriuscì un suono cavernoso, più simile a un’armonia di lamenti che non a una voce articolata. Mentre emetteva quel verso, sollevò una delle lunghe chele ossee che fuoriuscivano dal torace e la rivolse verso Jonathan. La propaggine terminava in una specie di mano ossuta, costituita da sottili falangi scheletriche e allungate, rinserrate intorno a una pistola.
    Il giovane lanciò un grido asciutto e balzò fino alla scrivania. Afferrò il primo oggetto che si trovò sotto le mani, una pesante cartellina azzurra, e lo scagliò contro il suo nemico, che sollevò l’altra chela per proteggersi ma, così facendo, perse l’iniziativa. Una danza di fogli ramati balenò nell’aria asfittica della stanza.
    La mano sprofondò nel cassetto e, un istante dopo, l’arma scintillava di rosa e blu tra le sue dita. Per qualche motivo, sapeva come togliere la sicura, e lo fece. E sapeva anche che si trattava di un’arma di ultima generazione, realizzata apposta per essere utilizzata all’interno di un’astronave, senza il rischio di danneggiare lo scafo con la sua detonazione.
    Svuotò l’intero caricatore, aizzato dall’adrenalina, senza pensare, senza fermarsi un istante. Una salva di colpi sibilò silenziosa sull’essere attonito, che si piegò sul busto in cerca di protezione. L’ultimo colpo raggiunse la punta del cranio, che esplose eruttando una pioggia di materia cerebrale e tessuti grigiastri tutt’intorno. Dal moncherino sopra al collo si sollevò un lungo schizzo di sangue vivido, rosso come le ciliegie, che imbrattò il soffitto e ricadde a terra in una pioggia di gocce vivide. Il corpo acefalo si abbatté sul pavimento con un tonfo secco, come un sacco di farina. La pistola scivolò dalla chela inerte e rimbalzò fino ai piedi di Jonathan, fermandosi a pochi centimetri da lui.
    Il giovane rimase immobile, l’arma stretta tra le mani tremanti, ansimando pesantemente come dopo una corsa sfrenata. Sentiva il sudore colargli lungo il collo e sulle tempie, il cuore pulsava come un martello, dietro lo sterno, quasi a voler fuggire dal corpo dopo averlo sfondato.
    Con un gesto istintivo raccolse la pistola che giaceva ai suoi piedi. La sicura era inserita.
    Aggirò il corpo crivellato, immerso in una pozza di sangue sempre più ampia, cercando di non guardarlo. Fu raggiunto però da un olezzo acre, dolciastro, vagamente metallico, che gli strappò un conato di vomito e lo piegò sulle ginocchia. Tossì a lungo, lacrime di sofferenza rigarono il volto. I capelli, impastati di sudore, aderivano alle tempie e gli coprivano gli occhi e la fronte.
    Quando riuscì a rimettersi in piedi, si accorse che la porta da cui era penetrato l’essere era ancora aperta. Tremando come un naufrago, si accostò al lato nascosto dall’ombra dell’armadietto. Poi, dopo aver rimosso la sicura dall’arma, oltrepassò la soglia.



    Testo dopo l'editing
    Nel momento in cui Jonathan Wilson aprì gli occhi, si scoprì immerso in una tenebra fitta, soffocante, densa come l'inchiostro.
    L'unica certezza di essere vivo gli veniva dal battito furioso del cuore, che martellava il petto quasi a volerlo sfondare. Avrebbe potuto trovarsi in qualche dimensione fuori dal tempo e dallo spazio, o semplicemente in una stanza buia.
    La seconda possibilità si dimostrò quella esatta quando le pupille, adattatesi al buio, gli mostrarono i contorni delle pareti, percorse da un complicato intreccio di tubi, pannelli ricolmi di pulsanti, levette e altre strutture poligonali di natura ignota.
    Alzatosi in piedi con un certo sforzo, il giovane raggiunse quella che sembrava una porta e appoggiò le mani contro la superficie algida della lastra di metallo. Il gesto gli procurò un sottile brivido elettrostatico ai palmi, talmente inatteso da costringerlo a ritrarsi. Superato quel moto d’incertezza, riaccostò le dita alla porta e tastò l’intercapedine che ne delimitava il profilo, fino al punto in cui la lunghezza del braccio gli permetteva di arrivare. Fece lo stesso sull’altro lato, ma non trovò nulla che sporgesse. L’uscita, se di un’uscita si trattava, era priva di maniglie o altri meccanismi di apertura: sembrava sigillata dall’esterno.
    «C’è qualcuno? Mi sentite?» provò con tono stridulo, dovuto alla sensazione di un pericolo incombente, nascosto nell’ombra.
    Un raggio scarlatto, sottile come un capello, si appalesò sulla sua testa e, serpeggiando sul soffitto, ne descrisse gli angoli, fino a chiudere il perimetro, ricongiungendosi al punto da cui si era originato. Luci di emergenza, pensò.
    Nello stesso istante, una voce femminile echeggiò nella stanza.
    «Riconoscimento vocale non attivo. Reimpostare la procedura
    Si guardò attorno. Il lucore che scendeva dall’alto definiva il profilo di una scrivania ingombra di carte, e un archivio metallico. Uno dei cassetti era aperto. Sul lato opposto della stanza riconobbe un armadietto, un paio di poltroncine e un tavolino su cui poggiavano due computer portatili. Gli schermi erano sollevati ma spenti.
    «Chi ha parlato? C’è qualcuno? Mi sentite?»
    «Riconoscimento vocale non attivo. Reimpostare la procedura.» Era di sicuro una voce registrata; inutile insistere.
    Si avvicinò alla scrivania e diede una rapida occhiata ai documenti che vi giacevano sparpagliati, ma la debole luce rosata rendeva difficoltosa la comprensione del contenuto. Tuttavia credette di intuire: poteva trattarsi di protocolli di emergenza sanitaria, procedure di quarantena in caso di contaminazione da agenti esterni. Quando scrutò il fondo del cassetto, il riflesso metallico di una sottile canna lo fece sussultare. Si ritrasse, turbato.
    Aveva intuito di trovarsi in un ufficio della sicurezza, ma il fatto che l’arma fosse lì, abbandonata, suggeriva la possibilità di un fatto drammatico, avvenuto mentre lui era privo di conoscenza.
    Un rumore metallico attirò la sua attenzione: solo in quel momento si accorse di una seconda porta, semi nascosta dal cono d’ombra proiettato dall’armadietto. Si apriva lentamente, scivolando nella parete con un fruscio quasi impercettibile. Ciò che comparve sulla soglia gli strappò un grido acuto.
    L’essere che avanzava verso di lui sembrava uscito da un incubo. Alto e sottile, si muoveva su quattro zampe ossute, articolate in più giunture che gli conferivano un andamento dinoccolato, innaturale. Simile a quella di un insetto, la testa glabra, col volto triangolare, era dominata da quattro grandi occhi composti, come quelli delle mosche, e sotto si apriva ritmica una bocca in forma di mezzaluna rovesciata, armata di zanne sottili, affilate come lame. Escrescenze carnose, verdastre e umide, si agitavano come vermi al sole su ogni centimetro di quel corpo orrendo.
    Jonathan indietreggiò, tenendo i palmi delle mani protesi verso la creatura. «Sta lontano da me!»
    Furono le uniche parole che riuscì a pronunciare, mentre la gola inaridita si stringeva come un cappio e gli bloccava il respiro. Tanto era l’orrore, che non udì neppure l'ennesima melopea artificiale (nota: dapprima, la voce femminile, sembra normale benché registrata; in seguito la fai diventare "metallica", che genera ossimoro sconsigliabile con "melopea".) che si diffondeva sopra di lui e gli ricordava ancora una volta la necessità di reimpostare la procedura. A giudicare dal passo ciondolante con cui si muoveva, l’essere sembrava stupito quanto lui, anche se era impossibile attribuire un’espressione umana alle pieghe melmose che si contorcevano su quel volto belluino. Poteva essere furioso, o impaurito, o chissà cos’altro.
    Da quella bocca fuoriusciva un suono cavernoso, simile a un concerto di lamenti. Sollevò un arto osseo che partiva dal torace e lo rivolse verso Jonathan. La propaggine terminava in una specie di mano ossuta, costituita da sottili falangi scheletriche e allungate, rinserrate attorno a una pistola. (nota: la chela è già "la mano a pinza"; non è un arto". Molto bello l'uso di propaggine.)
    Il giovane lanciò un grido asciutto e balzò fino alla scrivania. Afferrò il primo oggetto che si trovò a portata di mano: un faldone pesante, e lo scagliò contro il suo nemico, che sollevò l’altro arto per proteggersi, e impattò contro il plico ma, così facendo, perse il vantaggio. Una danza di fogli ramati balenò nell’aria asfittica della stanza. (bella anche questa immagine)
    La mano sprofondò nel cassetto e, un istante dopo, l’arma scintillava di rosa e blu tra le dita di Jonathan. Sapeva come togliere la sicura, e lo fece. Sapeva anche che si trattava di un’arma di ultima generazione, realizzata per essere utilizzata con sicurezza all’interno di un’astronave, senza il rischio di danneggiare lo scafo. (nota: avevi usato "detonazione", ma poi, dopo, parli di salva silenziosa. Credo tu abbia voluto mostrare i proiettili che l'essere è riuscito a schivare, ma nemmeno quelli sono silenziosi, poiché sibilano a frequenza uditiva altissima.)
    Svuotò l’intero caricatore, aizzato dall’adrenalina, senza pensare, senza fermarsi un istante. Una salva di colpi sibilò silenziosa sull’essere attonito, che si accovacciò in cerca di protezione. L’ultimo colpo raggiunse la sommità del cranio ovoidale, che esplose eruttando una pioggia di materia cerebrale tutt’intorno. Dal moncherino sopra al collo si sollevò un lungo schizzo di sangue vivido, rosso come le ciliegie, che imbrattò il soffitto e ricadde a terra in una pioggia di gocce vivide. Il corpo, ormai acefalo, si abbatté sul pavimento con un tonfo cupo, come un sacco di farina. (Credo di vedere il perché del paragone col sacco di farina: il corpo, al contrario degli arti e la dentatura, è flaccido poiché rivestito da quelle cose schifose mostrate prima, giusto?) La pistola scivolò dalla mano ossuta e rimbalzò fino ai piedi di Jonathan.
    Il giovane rimase immobile, l’arma stretta tra le mani tremanti, ansimando pesantemente, come dopo una corsa sfrenata. Sentiva il sudore colargli lungo il collo e sulle tempie, il cuore che pulsava come un martello, quasi a voler sfondare lo sterno.
    Con un gesto istintivo raccolse la pistola della creatura mostruosa.
    Aggirò il corpo crivellato, immerso in una pozza di sangue che si allargava, cercando di non guardarlo. Un olezzo acre, dolciastro, vagamente metallico, gli strappò un conato di vomito e lo ridusse in ginocchio. Tossì a lungo, e lacrime di sofferenza rigarono il volto. I capelli, impastati di sudore, aderivano alle tempie e gli coprivano gli occhi.
    Quando riuscì a rimettersi in piedi, si accorse che la porta da cui era penetrato l’essere era rimasta aperta. Tremando come un naufrago, si accostò al lato nascosto dall’ombra dell’armadietto. Poi, dopo aver rimosso la sicura dalla seconda arma, oltrepassò la soglia.
     
    Top
    .
  3. mister bradipo
     
    .

    User deleted


    Grazie Axum, sei una persona meravigliosa come sempre. Ogni volta che mi editi un brano, io leggo, studio, capisco e cresco!
    Un po' di me lo devo a te...

    Ps alla domanda rispondo sì. Corpo viscido, flaccido, arti legnosi, coriacei. Scelta non casuale in realtà, volevo trasmettere un certo dualismo nel tratteggio degli alieni, e questo simbolismo sarà giustificato alla fine del libro, dove si svelerà anche il titolo.
     
    Top
    .
  4.  
    .
    Avatar

    Editor

    Group
    Amministratore
    Posts
    5,138
    Location
    Verona

    Status
    E sei cresciuto di due metri, anche perché ora usi sintassi diverse per generi diversi, e dimostri di aver afferrato in toto il vero senso di "show, don't tell". Lo hai fatto in tutto, ma in modo speciale in quei periodi in cui il soggetto si scopre man mano che si legge, senza tuttavia doversi "perdere", perché hai assimilato la potenza delle parole quando assumono una sintassi anziché un'altra. Farei un elenco delle buone frasi, ma non ne ho voglia, perché si tratta di quasi tutte. :clap2:

    Avanti tutta!
     
    Top
    .
  5.  
    .
    Avatar

    Junior Member

    Group
    abilitati in shoutbox
    Posts
    44

    Status
    Ciao Bradipo,
    ho trovato il tuo testo scorrevole e piacevole, non commento quindi la forma, anche perché non ne ho gli strumenti.Ti confesso che non ho dimestichezza con il genere Fantasy; da questa tua prima pagina traggo la curiosità di sapere dove andrai a parare. Come si svilupperà il racconto, quali finalità ti sei prefisso? Voglio dire, tu affermi che si tratta dell'inizio di qualcosa, di cosa? Qual'è il progetto? Percepisco il genere Fantasy come un ambito surreale, onirico, che lascia la più ampia possibilità di spaziare senza i vincoli della credibilità nel mondo reale. Questa libertà immagino sia strumentale per poter più facilmente esprimere. Il tuo racconto, dove ci porterà?
     
    Top
    .
  6. mister bradipo
     
    .

    User deleted


    CITAZIONE (Edonista @ 25/3/2018, 15:04) 
    Ciao Bradipo,
    ho trovato il tuo testo scorrevole e piacevole, non commento quindi la forma, anche perché non ne ho gli strumenti.Ti confesso che non ho dimestichezza con il genere Fantasy; da questa tua prima pagina traggo la curiosità di sapere dove andrai a parare. Come si svilupperà il racconto, quali finalità ti sei prefisso? Voglio dire, tu affermi che si tratta dell'inizio di qualcosa, di cosa? Qual'è il progetto? Percepisco il genere Fantasy come un ambito surreale, onirico, che lascia la più ampia possibilità di spaziare senza i vincoli della credibilità nel mondo reale. Questa libertà immagino sia strumentale per poter più facilmente esprimere. Il tuo racconto, dove ci porterà?

    Ciao Edonista, grazie per il commento innanzitutto. Riguardo le tue domande, innanzitutto mi fa piacere di aver suscitato curiosità, perché è quello lo scopo del brano. In effetti si tratta del prologo di un romanzo di fantascienza e non fantasy. Il libro prevede un alternanza di capitoli intitolati Abduzione (N) e capitoli di flashback, dove via via si dipana tutta la storia del protagonista fino ad arrivare al momento iniziale e da lì avviarsi all'inaspettata conclusione!
    Mi chiedi dove ci porterà il mio racconto? Dovunque e in nessun luogo, potrei rispondere, e penso risponderebbe così chiunque. Quando penso a un romanzo mi domando io per primo dove voglio andare a parare, e solitamente accanto alla fabula mi immagino almeno un secondo piano di lettura. Chiunque (sicuramente Axum) mi conosca un pochino sa che uno dei miei temi preferiti è l'ecologia, e anche in questo nuovo libro il tema sarà sviluppato e anzi, diventerà l'ossatura fondamentale di tutto il romanzo.
    Ma non ti svelerò altro. Posterò qualche estratto dei capitoli come d'uso e, spero, forse un giorno potrò fregiarmi l'onore di vederlo pubblicato!

    CITAZIONE (Axum @ 25/3/2018, 03:14) 
    E sei cresciuto di due metri, anche perché ora usi sintassi diverse per generi diversi, e dimostri di aver afferrato in toto il vero senso di "show, don't tell". Lo hai fatto in tutto, ma in modo speciale in quei periodi in cui il soggetto si scopre man mano che si legge, senza tuttavia doversi "perdere", perché hai assimilato la potenza delle parole quando assumono una sintassi anziché un'altra. Farei un elenco delle buone frasi, ma non ne ho voglia, perché si tratta di quasi tutte. :clap2:

    Avanti tutta!

    E avanti si va! :drunk:
     
    Top
    .
5 replies since 15/3/2018, 10:21   81 views
  Share  
.