Il rifugio dello scrittore

La mia amica Nanuzza

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  1. Esterella
     
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    La mia amica Nanuzza



    Avevo nove anni e tante paure irrisolte che diventavano giganti, rapportate alla mia età, e finivano per causarmi sofferenza e fastidiosi disagi.
    Una delle mie paure era quella di parlare in pubblico.
    A scuola, per interrogarmi, l’insegnante Cavelli, che sapeva del mio problema, era costretta a farmi mettere di spalle alla classe per far sì che dalle mie labbra, altrimenti cucite, uscissero quelle parole che sembrava volessi tenere solo per me.
    La supplente che la sostituì, quando si ammalò, non poteva saperlo.
    «Lucci Alice, vieni a ripetere la lezione di storia!» disse decisa.
    Raggiunsi la cattedra e girai le spalle ai miei compagni, dicendo che solo così potevo parlare, ma lei non volle sentire ragioni.
    Mi costrinse a fronteggiare la classe che cominciò a ridacchiare e a ripetere:
    «Elica, gira, gira.»
    «Ah, ah, devi girare per funzionare!»
    Le loro battute rimbombavano nell’aula e mi ferivano profondamente.
    Andai in panico. Non aprii bocca.
    Mi sentivo smarrita, emettevo perle di sudore acido e d’improvviso mi sentii bagnata in mezzo alle gambe. Un rivolo di urina mi scese lungo le gambe e si fermò sulle scarpe.
    Il mattino dopo non ebbi il coraggio di andare a scuola.
    Rimasi a vagabondare nella campagna vicina.
    Era una calda giornata d’aprile.
    Poggiai la schiena contro un albero; sentivo contro di me il calore della corteccia riscaldata dal sole, ma non riuscivo ad apprezzare tutto questo.
    Chiusi gli occhi.
    Avevo un groppo in gola che si sciolse in lacrime e singhiozzi.
    Quando li riaprii vidi, poco lontano da me, una ragazza che sembrava camminare nell’aria.
    I capelli neri e corti le davano un aspetto infantile.
    Il viso e gli abiti coperti di lustrini brillavano e anche i suoi occhi luccicavano.
    Un passo dopo l’altro avanza, poggiando il tallone davanti alla punta dell’altro piede come su un’asse d’equilibrio.
    Non credevo ai miei occhi. Era una fata?
    Rapita mi avvicinai e vidi che la ragazza non camminava sul nulla, ma si poggiava, leggera, su una fune sospesa tra due alberi.
    Quando arrivò alla fine del suo percorso, con un balzo elegante atterrò sul prato.
    «E tu che fai qui, non dovresti essere a scuola?» disse vedendomi.
    «Non voglio più andarci. Nessuno mi capisce. Quelli dicono solo: Elica, gira, gira. E io…»
    Scoppiai a piangere di nuovo.
    «Forse è meglio che ci sediamo, così mi racconti tutto dall’inizio. Io sono Sebastiana, per gli amici: Nanuzza.»
    «Io sono Alice» feci con la voce impastata dal pianto.
    Ci sedemmo accanto all’albero e le raccontai delle mie sofferenze e delle mie paure.
    «Devi imparare a guardarli negli occhi, tutti hanno qualcosa di buono!»
    «E se poi mi prendono in giro lo stesso?»
    «Non crucciarti, vuol dire che sono loro a sbagliare, non tu.»
    «Ma come faccio a trovare la forza di affrontarli?»
    «Devi, per prima cosa, sentire amico lo spazio intorno a te» disse seria.
    «Già, per te è facile! Sei una fata..
    Scoppiò a ridere. «Ma che dici? Sono una funambola, lavoro al circo.»
    «Deve essere un lavoro straordinario.»
    «Beh, abbastanza. A volte, sì.»
    «M’insegni come si fa? Il fatto dello spazio, che deve diventare mio amico, insomma, quella cosa lì.»
    «Alzati, apri le braccia e chiudi gli occhi, come ti sembra intorno a te?»
    «Immenso.»
    «Adesso, muovi un passo dopo l’altro, come facevo io sulla fune, e non aver paura.»
    Ridevo e camminavo barcollando, ma mi fidavo della sua voce che seguiva i miei movimenti.
    Mi disse che sarebbe ritornata l’indomani con una sorpresa. Ci saremmo riviste solo nel pomeriggio, perché mi fece promettere che la mattina sarei andata a scuola.
    Il giorno dopo arrivò con un pony.
    «Ti presento Firù» mi disse e, siccome ero titubante, aggiunse: «Accarezzalo, muore dalla voglia di fare un giro con te.»
    Mi tremava un po’ la mano, quando la posai sulla criniera dorata.
    Se ne stava lì docile e mi guardava.
    Nanuzza mi fece salire sulla sua groppa.
    Prendendolo per le redini lo fece camminare.
    Non ero mai salita su un pony, provavo una strana sensazione di calore, tenerezza, che mettevano in fuga ansia e tensione, mi sentivo coccolata dall’animale e da quella ragazza esile che mi camminava accanto.
    Poi Nanuzza lasciò che procedessimo da soli e andò ad aspettarci sotto un albero.
    Firù cominciò ad aumentare l’andatura, io mi strinsi alle redini con decisione. Sentivo il vento sussurrare tiepido, la natura, che abitava nello spazio intorno, cantava nenie di primavera.
    Quando tornammo da Nanuzza, ferma accanto all’albero, mi sentivo rinata.
    Lei sembrava divertita, lasciò libero Firù di brucare l’erba lì vicino e andò ad annodare la fune tra due alberi, come aveva fatto il giorno prima.
    Quando il piccolo piede si poggiava sulla corda era come se diventasse un prolungamento della fune stessa e io non potevo fare a meno di rimanere estasiata a ogni suo passo.
    Poi sedette accanto a me, sotto l’albero.
    «Brava Nanù! Chi te l’ha insegnato?»
    «Mio nonno. Ti svelerò un segreto. Anch’io avevo paura di tante cose, ma ho dovuto imparare a vincerle. È stato lui a farmi capire che lo spazio intorno mi era amico. Le prime volte avevo appena sei anni. Mi faceva salire sulla corda a piedi nudi e mi teneva la mano fino a che non terminavo il percorso. Sapeva darmi tanta forza con la sua voce burbera…»
    «E adesso dov’è?»
    «È morto l’anno scorso…»
    Rimase in silenzio, inseguendo i suoi pensieri che la portavano lontano.
    «Devo andare, Alice. Ci vediamo domani.»
    Il giorno dopo non riuscivo a contenere la gioia per l’incontro con la mia nuova amica.
    La vidi arrivare cavalcando un pony grigio, mentre Firù trotterellava al suo fianco.
    «Monta su, Alice, andiamo a passeggio insieme.»
    In sella a Firù ero proprio felice, mi sembrava di essere una cavallerizza e lo spazio intorno a me stava davvero diventando amico.
    Quando venne il momento di salutarci la mia amica disse: «Domani vado via. Se vuoi, stasera, puoi venire a vedere il mio spettacolo.»
    Fu come se mi avessero schiaffeggiata.
    «Non andartene Nanù. Proprio adesso che stavo così bene con te… perché?» Farfugliai.
    «Scusa Alice, ma devo, questa è la mia vita. Andrò in altri luoghi, ma mi ricorderò sempre di te.»
    Rimasi a guardarla, mentre si allontanava lentamente con i due pony.
    La sera mi feci portare al circo da mia madre.
    Nanuzza luccicava nei suoi abiti di scena.
    Le luci, la musica, l’atmosfera magica facevano da sfondo a una ragazza che sembrava camminare sospesa per aria.
    Poi arrivò un pony sbilenco, Firù, che faceva ridere i bambini.
    Mia madre mi guardava strano, mentre ridevo, piangevo e non sapevo più come trattenere la mia commozione.
    Quando andai a scuola il giorno dopo, la Cavelli, che era guarita, mi chiamò per l’interrogazione.
    Con suo grande stupore non volli girarmi con la faccia al muro e feci una brillante esposizione guardando negli occhi i miei compagni di classe, che rimasero ammutoliti.
    Percepivo ogni molecola attorno a me.
    Passo dopo passo stavo conquistando il mio mondo.
    E la mia amica Nanuzza era lì da qualche parte, in uno spazio amico.
     
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    Estrella, accidenti! Ma questa storia è bellissima :wub:
    Molto sensibile, molto vera! Riesci a immedesimarti molto bene nella piccola Alice, del resto chi non è mai stato un bambino spaventato? Paure che a quell'età sembrano montagne e che a riguardanti indietro non puoi fare altro che sorridere di malinconia.
    Nanú è un personaggio che avrei voluto incontrare io a nove anni, mi sarebbe servito, eh sì! :D
    Apprezzo molto la scelta di far superare la paura di Alice e il pensiero che la sua amica sia in "uno spazio amico"
    Insomma, mi è piaciuto molto complimentoni
    :abbraccio:
     
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    Che storia dolce, bellissima, l'ho letta molto volentieri.
    L'uso della prima persona mi sembra appropriato, la tua scrittura è molto buona.
    Ottima lettura, grazie :)
     
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    La poesia non ha bisogno di seguaci, ma ... di amanti

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    Molto bello questo tuo racconto Esterella! Ognuno di noi attraversa prima o poi quella fase adolescenziale che tu hai così ben rappresentato.
    Prendere possesso dello spazio che ci circonda, del nostro spazio, e sentirci pronti ad affrontare la vita è descritto qui con grande sognante dolcezza.
    E brava la tua amica Nanuzza!
     
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  5. Esterella
     
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    Grazie per i commenti.Ci sono in questo racconto tracce d' infanzia e la consapevolezza che se qualcuno ti da una mano tutto diventa più semplice. L' amicizia è un dono grande e la conquista del proprio spazio comincia in tenera età e poi continua per tutta la vita. Vi abbraccio tutti. :abbraccio:
     
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4 replies since 5/2/2018, 17:42   51 views
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