Il rifugio dello scrittore

la lacrima dell'ibisco

capitolo 1. primo paragrafo. Prima revisione

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  1. mister bradipo
     
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    Buonasera a tutti.
    Come molti sapranno ho terminato la prima stesura del libro. Ho iniziato la revisione, ma è apparso subito necessario riscrivere i primi capitoli per intero, dal momento che il mio stile di scrittura in questi pochi mesi è - fortunatamente - un po' migliorato.
    Questo è l'inizio del libro, così come ora mi è venuto di scriverlo. Ho cambiato quasi tutto, cercando di mantenere i dettagli della trama e il senso logico della storia.


    “Glielo dirò domani mattina.” Pensò sorridendo lady Loreen. Una brezza tiepida scompigliò i lunghi capelli castani della principessa, ormai liberi dall’elaborata acconciatura del giorno.
    Il giardino era immerso nella quiete della sera. Una sera magnifica, accesa dai toni porpora e vermigli del tramonto che facevano da contrappunto alle varie gradazioni di blu delle colline.
    Le prime stelle lampeggiavano all’orizzonte sopra la linea scura delle montagne.
    La giovane scivolò con grazia tra i cespugli di gelsomino e le magnolie, assaporando i profumi lievemente amari che si diffondevano nell’aria asciutta.
    Si avviò lungo un sentiero di ghiaia luminosa, che percorreva l’intero perimetro del parco, si avvitava su sé stesso e infine terminava in uno spiazzo centrale, dove alcune panchine di abete circondavano un grande salice piangente.
    Mentre passeggiava, Lizabeth si accorse della presenza di un paggio. Un ragazzino dai capelli neri come l’inchiostro avvolto in una giubba di pelle troppo larga per le sue spalle ossute.
    Era sbucato da una porta di servizio che si apriva sul lato orientale del giardino e la fissava con aria intimorita.
    “Buonasera.” Disse la principessa, parlando nel consueto tono gentile.
    Il paggio rispose con un filo di voce, in evidente imbarazzo. “Vostra altezza, perdonate l’intrusione.”
    Era difficile sostenere lo sguardo di lady Loreen. Per chiunque. Le ciglia folte e ricurve, il taglio lievemente all’insù degli occhi e il colore scuro delle iridi conferivano al suo volto un’espressione magnetica e sensuale, in grado di turbare anche gli animi più insensibili. Quasi tutti arrossivano, molti s’infuocavano.
    “Non devi scusarti. Se sei qui ci sarà di sicuro un ottimo motivo, dico bene? Come ti chiami?”
    “Kian, mia signora.”
    Lizabeth notò che il ragazzo teneva le mani dietro la schiena, e continuava a percuotere il terreno con il piede sinistro, come se cercasse di scavare una buca.
    “È un bel nome, Kian. Vuoi riferirmi il tuo messaggio?”
    Il paggio rispose senza sollevare lo sguardo da terra. “Si, vostra altezza. Il principe vi raggiungerà tra un’ora. Si scusa per il ritardo.”
    La notizia la rabbuiò. Erano due settimane che Aheànder si tratteneva fino a tardi per discutere con i membri del suo stato maggiore.
    “Capisco.” Rispose, sorridendo “ti ringrazio, Kian. Ora puoi andare.”
    Il ragazzo colse al volo il suo invito e sparì in un attimo oltre la porta, sgusciando via come un furetto.
    Lizabeth rimase a fissare senza troppa convinzione la piccola area di terriccio smossa dal piede del paggio. Si accorse di avere la pelle d’oca. L’aria si era fatta più fredda, la sera aveva ceduto il passo alla notte.
    Strinse le braccia al petto, in cerca di tepore. La veste che indossava, nonostante aderisse al corpo e scendesse fino ai piedi era troppo leggera e inadatta a quell’ora della giornata.
    Tuttavia Lizabeth non aveva voglia di rientrare nelle sue stanze. Non da sola comunque. S’impose di resistere ancora un po’.
    Il giardino si apriva nel castello come una lunga terrazza, incastonandosi tra le basi delle torri e le merlature frastagliate dei palazzi. Il lato meridionale offriva una stupenda panoramica della valle sottostante.
    Di giorno, si potevano scorgere con facilità le linee contorte dei corsi d’acqua che s’insinuavano tra i meleti e le vigne per poi sparire dietro le macchie di salici e pioppi tremoli.
    Ampi boschi di querce e carpini punteggiavano la valle, alternandosi a campi incolti e villaggi.
    Lizabeth raggiunse il margine del parco. Appoggiò le braccia sul muretto che lo delimitava e lasciò lo sguardo libero di perdersi tra le sagome nere dei monti.
    Di tanto in tanto una luce si accendeva, tremolava per qualche istante e infine si spegneva, restituendo la valle all’oscurità. Il cielo era una tavola di vetro lucido punteggiata di stelle e macchiata dalla striatura luminosa della via lattea. Solo la luna era la grande assente in quel mosaico di riflessi.
    La presenza di uno scarabeo rinoceronte catturò l’interesse della principessa.
    “E tu cosa ci fai qui.” Disse. Si avvicinò all’animaletto piegandosi sulle ginocchia.
    L’insetto, del tutto ignaro di essere osservato, marciava sull’erba oscillando come un carro carico di merci. Dopo aver raggiunto il bordo del prato, iniziò ad arrampicarsi sul muretto, sfruttando le intersezioni e le irregolarità della pietra per trovare un appiglio.
    Lizabeth lo aiutò nell’impresa, sostenendo il suo peso con un dito. La corazza laccata dello scarabeo restituì i riflessi della notte limpida.
    “E adesso, dove te ne andrai?” Gli domandò. Non si era mai sentita stupida a rivolgersi ad alta voce agli animali.
    Lo scarabeo assaggiò l’aria agitando le antenne flabellate poi, con un movimento repentino, aprì le elitre coriacee e dispiegò un paio di ali membranose, simili a quelle di una libellula.
    Si alzò in volo lentamente, con movenze scattose e incerte. In pochi istanti acquisì velocità e sicurezza. Tracciando un ampio semicerchio nell’aria scomparve, inghiottito dalla notte.
    Lizabeth lo seguì con lo sguardo. “A volte anch’io vorrei poter contare su di un paio d’ali nascoste e librarmi nel cielo così, solo per il piacere di poterlo fare…” Pensò, con un filo di malinconia.
    Non che disprezzasse trascorrere la vita tra le mura del palazzo, ma c’erano momenti in cui l’etichetta di corte le stava più stretta del corsetto inamidato che doveva indossare durante le cerimonie ufficiali.
    Lizabeth amava il suo popolo, e aveva accettato di buon grado i doveri che il titolo nobiliare implicava. Alcuni addirittura con entusiasmo, come incontrare i propri sudditi, presenziare all’apertura di fiere e mercati, verificare la consistenza delle scorte alimentari per l’inverno.
    Ma una parte di lei coltivava un desiderio di libertà che difficilmente trovava soddisfazione nel ruolo che il destino le aveva riservato. Quando la tristezza la coglieva, la principessa amava rifugiarsi sulle guglie meno accessibili del castello, dove trascorreva interi pomeriggi a fantasticare sul futuro.
    Il desiderio d’intrecciare la propria esistenza con quella del suo sposo per dare vita a qualcosa di più grande cresceva ogni giorno, ed era tempo che il destino facesse il suo corso.
    Una folata di aria gelida interruppe l’onda dei suoi pensieri.
    “Sta arrivando una tempesta…” Pensò, mentre il suo sguardo coglieva le sfumature intense dei lampi che illuminavano l’orizzonte. Un fronte scuro si stava ammassando a sud, appena sopra la linea dei monti nalitasani, che separavano la valle di Eptagonìa dai restanti territori del regno.
    Esplosioni di luce si sovrapponevano le une sulle altre, restituendo per alcuni istanti un profilo alla linea delle montagne altrimenti avvolta dalle tenebre. Era troppo presto perché giungesse l’eco dei tuoni, probabilmente avrebbe piovuto solo a notte fonda.
    Lizabeth era sempre stata affascinata dai temporali. Ricordava di averne osservati molti attraverso le ampie vetrate della sua camera da letto o dalla cima delle alte torri di osservazione.
    La potenza della natura di cui erano espressione esercitava una grande attrazione su di lei, come la luce di una lampada a olio per le falene. L’anima del mondo pulsava più forte in quelle occasioni, e Lizabeth era sicura di percepirne il battito.
    Le tornò in mente un’antica poesia. Ricordava di averla letta alcuni anni prima sulle pagine ingiallite di un manoscritto elfico che sua madre, la regina Milabris, le aveva donato in occasione del suo dodicesimo compleanno.

    Dove sono le luci del crepuscolo
    in questo specchio di cenere?
    Reali come la luna in cielo,
    giganti di polvere mi sovrastano
    riflettendo il profumo del mondo.
    Smeraldi sottili,
    occhi grandi come il cielo,
    occhi nel cielo:
    squarci di eternità.
    Il cuore sanguina:
    è la fine del mio tempo.

    La frase finale di quel testo la rattristava ogni volta che la richiamava alla mente. Non poteva fare a meno di domandarsi cosa provasse l’autore quando l’aveva scritta, e quale triste destino lo stesse strappando alla vita.
    Un rumore proveniente dal lato opposto del giardino la costrinse a voltarsi. Qualcuno la osservava, fermo sull’ingresso dei suoi appartamenti.
     
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