Il rifugio dello scrittore

Streghe

Racconto noir

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    Orbetello

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    Era il 26 di Ottobre del 1967, lo ricordo bene dato che era il giorno del mio decimo compleanno. Ero felice perché mia madre mi aveva permesso di invitare delle amiche a casa nostra e non succedeva spesso. Le mie ospiti erano Catia, chiamata Catina per la sua piccola statura, Stefania detta Stefy e Cinzia, la mia cugina. Insieme a noi c'era la mia sorella minore, Enza.
    Ci ritrovammo verso le quattro del pomeriggio, dopo i compiti. Non era una bella giornata, faceva freddo e prometteva pioggia quindi decidemmo di non uscire.
    Il nostro passatempo preferito era giocare con le Barbie ma quel giorno, Stefy decise che non ne aveva voglia proponendoci di giocare alle streghe.
    "Vedrete che ci divertiremo un sacco, è un gioco strafico" ci disse. Di nascosto presi una candela e dei fiammiferi. Ci rifugiammo nel sottoscala del palazzo, il luogo più tetro e polveroso nonché il più proibito, se mamma ci avesse viste ci avrebbe sicuramente sgridate, ma lei era impegnata con le altre donne in cucina e non faceva caso a noi.
    Stefy ci spiegò che per diventare delle vere streghe dovevamo fare un giuramento: prima di tutto di rimanere sempre amiche, e quella era una cosa scontata. Poi di mantenere il segreto con chiunque e anche questo andava benissimo. La cosa stava diventando eccitante, ci sentivamo delle piccole carbonare, nascoste sotto un vecchio tavolo dimenticato da chissà chi, con la candela accesa che distribuiva strane ombre tutte intorno a noi.
    Da fuori, dove nel frattempo era iniziato a piovere, ogni tanto arrivavano dei bagliori di lampi in lontananza che contribuivano a rendere l'atmosfera ancora più adeguata al nostro gioco. Guardandoci con i suoi occhi scuri, Stefy tirò fuori il suo asso dalla manica, anzi, dalla tasca dei pantaloni.
    Era una vecchia pergamena scritta a mano, la carta ingiallita e sgualcita, la calligrafia curata, con le maiuscole tutte lavorate come nei libri per bambini. Ci raccontò di averlo trovato nascosto in un vecchio baule della soffitta, disse anche che quel foglio l'aveva chiamata, attirandola.
    Di certo noi non credevamo a quella strana storia, un foglio parlante, figuriamoci! Però la cosa ci piaceva e quel gioco era diventato decisamente interessante. Avvicinammo la pergamena alla luce della candela per poterlo leggere meglio. Sembrava proprio una formula magica, parole in una lingua a noi sconosciuta.
    Stefy, che aveva due sorelle maggiori e quindi era informatissima su tutto, disse che probabilmente si trattava della lingua latina o greca o forse sanscrito. Senza capire quello che stavamo leggendo, tenendoci per mano iniziammo a recitare la formula aggiungendo solo qualche risatina di tanto in tanto.
    Arrivate verso la fine sentii un gelo addosso, come se una mano freddissima mi stesse accarezzando dappertutto, sul viso, sul collo e poi giù, sotto la maglia, sulla pancia, nella schiena.
    Non lo sentii solo io perché vidi le espressioni terrorizzate di tutte la mie amiche. Mia sorella si mise a piangere e scappò all'istante rifugiandosi dentro casa. Noi ci guardammo divertite dalla sua paura ma al tempo stesso inquiete, comunque decise a continuare, eravamo grandi, noi, io in particolare ero la prima a compiere 10 anni, non potevo vacillare.
    In quel momento un tuono ruppe il silenzio che si era creato e uno spiffero di vento spense la candela. Nel buio cercai i fiammiferi, il respiro affrettato delle mie compagne era tutt'uno con il mio.
    Sforzandomi di pensare che si trattava solo di un gioco riaccesi la candela ma il cuore era arrivato a chiudere la gola e l'istinto era quello di fuggire il più lontano possibile.
    Alla fioca luce ci guardammo, Stefy, Catina, Cinzia e io, tacitamente decidemmo di continuare, in fondo era proprio il brivido quello andavamo cercando. Finita la lettura della formula, Cinzia si affrettò ad accendere la luce che contribuì a sdrammatizzare il momento, alla svelta raccogliemmo la candela, i fiammiferi e la pergamena, ansiose di risalire in casa a rielaborare quello che era successo, le sensazioni che avevamo provato, la paura che ci aveva prese.
    Davanti a una fetta di pane burro e marmellata, sedute sul tappeto di sala, pensavamo che in fondo quel gioco non ci era piaciuto così tanto, di certo non lo avremmo ripetuto. Misi il papiro dentro al mio diario segreto, promettendo alle mie amiche che non l'avrei fatto leggere a nessuno mai.

    Stefania fu la prima ad andarsene, quella sera stessa. Un fulmine si abbatté su un albero del giardino di casa sua prendendola in pieno proprio mentre rientrava con sua sorella, questa, in stato ci shock disse che sembrava che l'albero avesse preso vita e la rincorresse per colpirla.
    Eravamo delle bambine ed eravamo rimaste in tre. Stefy se ne era andata senza nemmeno salutarci. Eravamo arrabbiate e tristi, non riuscivamo a capire fino in fondo il senso della vita e quello della morte. Ogni tanto, passando per la strada Cupa andavamo al cimitero a salutare Stefania, raccoglievamo i ciclamini selvatici lungo la strada e gliene portavamo, cogliendo l'occasione per fermarci sulla sua tomba a raccontarle le nostre avventure; la scuola, i ragazzi, i primi baci.

    Era Settembre ed erano passati quasi tre anni da quel giorno. Stavamo tornando dal cimitero, io, Catia e Cinzia. All'inizio della strada Cupa, andando verso la chiesa della Madonna c'erano degli alberi, ho motivo di pensare che ci siano ancora. Erano alberi grandi che facevano dei frutti piccoli e neri, di forma sferica, come un chicco di pepe ma dolci e con un nocciolo interno, noi facevamo a gara a chi lo sputava più lontano. L'albero si chiamava Pippo e i Pippi erano il suo frutto.
    Toccò a Cinzia arrampicarsi quel giorno, saliva sul tronco e cercava di abbassare le fronde per permetterci di raccogliere i frutti. Non so come successe, forse il ramo era esile o forse Cinzia perse la presa. Venne giù come un frutto maturo, il rumore che fece quando cadde sembrò quello di una noce che si rompe. Rimase lì, immobile, con gli occhi fissi verso il cielo, quasi sorpresi. L'ambulanza la portò di corsa all'ospedale di Grosseto dove rimase in coma per circa un mese. Cinzia morì il 26 di Ottobre 1980, era il giorno del mio tredicesimo compleanno ed eravamo rimaste in due.
    Io e Catina questa volta eravamo sconvolte, a 13 anni inizi a capire anche la morte, non gli dai ancora un senso, ancora pensi che sia una cosa lontana ma percepisci l'assenza della persona amata. Da allora non abbiamo più mangiato i pippi.
    C'era la scuola, c'erano gli amici, gli amori. Ogni tanto andavamo al cimitero a salutare le nostre amiche ma non passavamo più per la Cupa, facevamo il giro lungo con i motorini, a volte si arrivava a San Bruzio per fumarci una sigaretta e fare qualche foto in posizioni da grandi.
    La vita continuava insomma e le nostre amiche non erano più al centro dei nostri pensieri.
    Finite le medie iniziarono le superiori a Grosseto che frequentavamo con poca voglia e scarso rendimento, avevamo altre cose per la testa. Un pomeriggio assolato d'autunno prendemmo i motorini, io con il mio Califfone e Catia con il suo Ciao, volevamo andare al cimitero salutare le nostre amiche, ci andavamo spesso, ci sembrava giusto così.
    Andavamo una accanto all'altra parlando forte per sovrastare il rumore dei motorini, non ci accorgemmo della macchina che ne superava un'altra nel senso opposto al nostro e la macchina non si accorse di noi. Uno schianto e poi più niente. Quando riemersi dal buio mi trovavo in ospedale, mi dissero che me l'ero cavata con qualche graffio e una commozione cerebrale. Non vollero dirmi cosa era successo a Catina ma io lo sapevo, quel giorno compivo 16 anni ed ero rimasta sola.

    Era difficile per me ritrovare la serenità, le mie migliori amiche se ne erano andate una dietro l'altra, sembrava una maledizione, gli altri ragazzi mi guardavano con sospetto, dietro alla mie spalle facevano gli scongiuri, erano arrivati alla conclusione che portavo male e che era meglio evitarmi. Non c'erano più amici per me, né amori, né baci sotto le mura. Le mie compagne se ne erano andate e tutti pensavano fosse colpa mia, alla fine ne ero convinta anche io e mi arresi. Fu durante quegli interminabili pomeriggi da sola che ritrovai il mio vecchio diario, anzi, a dire la verità fu lui a trovare me.
    Era lì, in mezzo ai libri di scuola, ancora non so come ci fosse finito, erano anni che non lo vedevo. Appena lo presi tra le mani una vecchia pergamena scivolò fuori dalle pagine ingiallite e ricordai. Con un tremore allo stomaco mi venne alla mente quel gioco alle streghe che iniziammo il giorno del mio decimo compleanno. Armata di vocabolario di latino tentai la traduzione, non fu facile, alcune lettere erano scolorite e le righe centrali erano ormai illeggibili.

    Tu sarai la prima strega,
    la prima strega divenuta nel mondo,
    ma tu sei nata per essere ancora
    mortale, e tu devi andare
    --------------------------------
    -------------------------------------
    Se questa grazia non mi farai,
    desidero tu non possa avere,
    più pace e ne bene,
    e che da lontano tu debba scomodarti.
    e a me raccomodarti.
    Che ti obri… che tu possa tornar
    presto al tuo destino.

    Avevamo fatto una promessa, questo lo avevo finalmente capito, ma non avevo idea di cosa ci fosse scritto nelle righe mancanti. Cosa voleva da noi, da me quel papiro?
    Tanti anni prima lo avevamo letto senza comprendere il significato e adesso mancavano quelle parole così importanti.
    Feci delle ricerche ma era difficile, non c'era ancora internet e nelle biblioteche trovavo libri che parlavano di riti e formule magiche ma non di quella che mi interessava.
    Mi arresi, pensai che forse era meglio se raggiungevo le mie amiche per raccontare loro direttamente la storia del papiro e di quel gioco maledetto.
    Smisi di studiare, di mangiare, di uscire. Chiusa in casa aspettavo che arrivasse il mio momento, mi chiedevo come sarebbe arrivato, immaginavo la mia morte.
    Preparai una lettera per la mia famiglia da leggere dopo la mia "partenza". Mi scusavo con loro per quel gioco stupido che aveva rovinato tante vite. I miei genitori insistevano perché mi curassi quella che per loro era depressione, non capivano, nessuno poteva.
    Era il 26 di ottobre del 1986, era il giorno del mio diciannovesimo compleanno e mi svegliai di buon’ora, mi sentivo bene perché finalmente avevo deciso cosa fare. Forse era meglio così, avrei finalmente rivisto le mie care amiche e soprattutto avrei smesso di soffrire. Presi il flacone ancora intonso e ingoiai una a una tutte le pillole che conteneva. Chiusi gli occhi e mi lasciai andare al torpore.
     
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    “Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi.” Albert Einstein

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    fredda come il vento di Tramontana
    e un brivido mi corre nella schiena...

    ben scritto e corre fluida ...
    come un cubetto di ghiaccio tra le scapole.

    piaciuta molto, mi ha incollato al pc
     
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    Molto carino, l'ho letto in un fiato ma... come fa la tizia a raccontare la storia se è morta?
     
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  4. jjackmore
     
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    Forse non è morta... non è precisato nel testo. Magari il rito compiuto l'ha resa in qualche modo immortale. Magari...
    Piaciuto moltissimo, adoro i racconti che mi lasciano un po' di spazio per giocare con la fantasia :D

    Jack
     
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    Grazie a tutti e tre per la lettura e per il gradimento :)
    @Amalasunta, in effetti è un finale aperto, forse non è morta o forse lo è ma è tornata a raccontare la sua storia ;)
     
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    Immaginavo. Sarà che non ho una grande passione per i finali aperti, mi lasciano sempre la sensazione che il narratore non abbia saputo come finire i racconto... il testo comunque mi è piaciuto molto. Ciao :)
     
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5 replies since 4/11/2017, 17:00   56 views
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