Il rifugio dello scrittore

Prologo della sfida penna contro penna II

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    Quanto segue è il prologo comune a otto racconti, scritti da:

    Ankhor
    Neve

    Damjen
    De bello crepito

    KISHUSEIKO
    Il tempo degli uomini

    ¤Mamma Lupa¤
    Il mantra dell'amore

    Showmaster
    La mia speranza sei tu

    Stefanor94
    Il mondo che verrà

    stonestein
    Senza titolo

    Tramontana
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    che si sono sfidati nel gioco a premio Penna contro penna II

    Prologo
    (scenario su cui hanno basato i racconti)


    La civiltà umana, così come loro la conoscevano nel gennaio dell’anno 2017, è finita.
    La specie umana è ridotta a venticinquemila unità. Lo sterminio è avvenuto a causa di armi chimiche e batteriologiche. Nessuno sa per certo come e perché quelle migliaia di persone siano sopravvissute.
    Sono tutte in buona salute ma potrebbero ammalarsi; alcune hanno scoperto di avere super poteri, dapprima possibili soltanto con l’immaginazione.
    Come da vizio arcaico, i sopravvissuti si sono aggregati in quattro gruppi etnici: i nordici, gli orientali, i subequatoriali e gli occidentali.
    Il caso, o forse un disegno superiore, ha fatto sì che ogni schieramento sia composto ugualmente da seimiladuecentocinquanta individui. I nordici vantano moltissime donne, i subequatoriali moltissimi bambini (0- 14), gli occidentali moltissimi anziani (75 - 110), gli orientali moltissimi giovani (15 - 40), sia maschi che femmine, in egual misura.
    Sebbene la tecnologia (tutta) sia rimasta intatta, i sopravvissuti hanno il problema gravissimo della nuova produzione che, a causa dell’esiguo numero di individui rimasti, non può continuare: le centrali nucleari, e i laboratori bellici relativi alle armi di quel tipo, sono ingestibili, così come le centrali idroelettriche e anche quelle geotermiche. Sono salve le fonti ad energia solare: la poca manutenzione occorrente dà a quelle fonti un’autonomia di altri quarant’anni anni, dopodiché ogni pannello, o singola cellula, diventerà inutilizzabile. Non possono dunque gestire – non come facevano prima – gli apparati produttivi (fabbriche, industrie, centri commerciali, centri ex mondiali di distribuzione). Non c’è più la speculazione finanziaria: è scomparsa la validità di ciò che amavano chiamare denaro, o moneta di Stato. Tra i venticinquemila vige il baratto.
    I satelliti sono rimasti in orbita, ma le comunicazioni intercontinentali sono difficili e, giorno dopo giorno, sempre più evanescenti; gli individui che i sopravvissuti possono impiegare alla gestione di quella tecnologia sono pochissimi.
    Ognuno degli schieramenti ha deciso che non basta la sopravvivenza e il successivo abbandono estintivo. I terrestri pensano alla ricostruzione della civiltà, a un mondo nuovo, più sano, da approntare e donare alle generazioni successive.
    Circa sette miliardi di umani periti sono già stati sepolti da noi, in piena sicurezza. Abbiamo la capacità tecnologica che ci permette di piegare lo spazio-tempo: possiamo dunque coprire distanze intergalattiche in poche di quelle che gli umani chiamano, ancora in questo tempo, ore. Siamo intervenuti per mera misericordia, non torneremo da queste parti, mai più. Quello che loro denominavano: Sistema Sol, pianeta Sol III, all’estremità della galassia Via lattea, è stato eliminato dai nostri database.
    Le armi convenzionali che ognuno dei paesi terrestri custodiva nel momento dello sterminio, sono ancora disponibili, così come le scorte stipate di carburanti. Hanno scorte di: gas, derivati petroliferi, alcol, carbone vegetale e fossile, idrogeno, altri propellenti e… tutto ciò che, da vizio antico, riescono a bruciare.
    Le abitazioni proprie dei sopravvissuti sono rimaste intatte, ma le altre sono alla mercé “di chi se le prende”, così anche i negozi di ogni sorta, gli uffici, i garage, i magazzini, gli alberghi, e ogni altro tipo di rifugio.
    Al momento attuale, alla nostra imminente ripartenza verso casa, le scorte di cibo degli umani sono limitate a ciò che ognuno aveva conservato, ma non ci sono più le nazioni che possano rivendicarne la proprietà e, non essendoci stati disastri di tipo ambientale, anzi miglioramenti meteorologici in fatto di stabilità, i sopravvissuti si appropriano di tutto quel che riescono a trovare. Possono coltivare poiché tra le scorte ci sono anche semi di ogni tipo.
    Le riserve d’acqua sono salve, intatte; i fiumi sono così come li hanno ridotti nel tempo, così i laghi e così anche il mare, fauna e flora comprese.
    Gli animali selvatici (vedansi anche quelli delle riserve naturali) e metropolitani (ratti e parassiti d’ogni sorta) non sono stati coinvolti dalla strage; quelli da allevamento non ci sono più; massacravano in massa: maiali, struzzi, mucche, polli, galline, tacchini, conigli e altre forme di vita. Animali rimasti salvi: api, cani, gatti, cavalli, cammelli, dromedari, somari, muli e canarini.
    Forme di governo possibili che abbiamo ipotizzato: monarchia parlamentare e democrazia (rimasti in pochi e sbilanciati in risorse per: dittatura, autarchia, imperialismo, e altre “cose umane”).
    Religioni e culti sembrano tra loro preservati, tutti, nelle intenzioni.
    Forse parleranno di noi, ci descriveranno; forse ci racconteranno.
    Ce la faranno nei loro intenti?

    Arbdrekkenzilloxzder, fine rapporto.
     
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    "A trattar le persone secondo il merito, chi mai si salverebbe dalle frustate?"

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    Il tempo degli uomini

    A volte mi domando se tutto questo sia reale.
    Nonostante tutto sono qui, distesa su un prato, col polline che mi solletica il naso e migliaia di petali che sembrano danzare nell’aria solo per me. Mio nonno, con cui abito ad Akihabara, uno dei pochi anziani sopravvissuti, mi ha raccontato che prima della guerra, in questo periodo a Tokyo si celebrava il Festival dei ciliegi in fiore. Io sono troppo giovane per ricordare, ma a quanto pare mamma e papà mi ci portavano ogni anno. Forse è per questo che nonostante il mio nome sia Ai, tutti mi chiamano Sakura.
    Di solito passo quasi tutto il mio tempo qui a Ueno, a occuparmi dello zoo insieme a Ichiro e Mika; è il nostro compito, quello assegnato ai più giovani, e a me piace, forse perché come altri, riesco a percepire i pensieri di ogni essere vivente. Poco prima che se ne andassero, riuscii persino a comunicare con uno di quegli strani esseri venuti dallo spazio. Anche se ero ancora una bambina, percepii distintamente le loro intenzioni e il fatto che non sarebbero tornati. Quella è stata la prima volta che l’ho usato.
    Ho raccontato di questo dono solo al nonno. Quelli col mio stesso potere diventano “cercatori” e lo usano per cacciare, ma io non voglio: preferisco accudirli, gli animali, anche se so perfettamente per quale ragione, in un mondo che si sta lasciando alle spalle ogni tecnologia a vantaggio di uno stile di vita più rurale, qualcuno dovrebbe preoccuparsi di tenerli in vita.
    Dopo la guerra, tutti i sopravvissuti del continente orientale si sono radunati qui a Tokyo; non saprei dire se sia stata una scelta saggia quella di isolarci su un arcipelago -non sono certo un’esperta sul modo migliore per ripopolare il mondo- ma qui stiamo bene per ora. In fondo, le risorse di una metropoli in cui vivevano quasi quindici milioni di persone, messe a disposizione di poche migliaia, saranno sufficienti per diversi anni.
    Gli ingegneri, i pochi rimasti, oggi sono indispensabili, ma presto sarà impossibile anche per loro mantenere attive le fonti di energia di una città di simili dimensioni e col tempo, saremo costretti a spostarci in periferia, magari seguendo il percorso a monte del fiume Sumida, in cerca di spazi coltivabili e acqua potabile. Per fortuna, negli anni il clima si è modificato, dando origine a una sorta di eterna primavera. Grazie a questo particolare, i “coltivatori” potranno essere mandati avanti, per preparare i terreni all’arrivo del resto di noi.
    Domani è il “Giorno del grande ricordo” e come ogni anno, i sopravvissuti si recheranno nei templi per ringraziare gli Dei prima di radunarsi di fronte al Palazzo imperiale dove, al cospetto del Comitato, si celebrerà il consueto rito in memoria dei caduti e verranno narrati gli eventi che ci hanno portato a tutto questo, per non dimenticare. Se l’Imperatore fosse ancora vivo, probabilmente in questa ricorrenza avrebbe tenuto un bellissimo discorso, ricordando come il nostro popolo sia sempre stato in grado di risollevarsi dopo ogni tragedia e, facendo leva sul nostro pragmatismo, ci avrebbe esortato a gettare le basi di quella che sarà per noi una vita diversa, ma pur sempre vita.
    Il nonno mi ha sempre detto che non siamo stati noi a iniziare la guerra, ma che a un certo punto, come tutte le altre nazioni, siamo diventati vittime del conflitto; io gli credo, ma non capisco come si sia potuto arrivare a tanto: possibile che solo noi giapponesi avessimo già da tempo compreso l’inutilità della guerra?
    Ma oggi tutto è cambiato. Alcuni mesi fa abbiamo ricevuto una trasmissione radio; da tempo non avevamo contatti con altri umani, tanto che si faceva sempre più forte la convinzione che fossimo noi gli unici sopravvissuti. Il contenuto di quel messaggio non è mai stato diffuso, ma ieri, con grande stupore di tutti, un gruppo composto da tre donne e un uomo è comparso all’orizzonte. Alti, biondi e dalla pelle chiara, tutti ormai parlano di loro definendoli “i nordici” e a me è bastato un istante per percepire che domani, le nostre vite cambieranno nuovamente.

    Cantiamo.
    Cantiamo a squarciagola e saltiamo, disposti in cerchio sotto al refrigerio che ci regala il Grande Albero. Per i bambini è come un gioco, ma Kimani, una delle donne che si occupano di me, anni fa mi ha spiegato che lo facciamo per ringraziare Akuj, la Divinità suprema, per averci protetti.
    Una volta non era così; la Dea si arrabbiava spesso con gli uomini e la pioggia non cadeva per intere stagioni. Toccava così a Iruva, il Dio del sole, occuparsi del cielo. Ma gli Dei sono spesso capricciosi: il suo passaggio spaccava la terra e prosciugava i fiumi; ogni tanto, prendeva anche con sé qualcuno del villaggio. Poi, un giorno, Iruva sparì e Akuj si riprese il cielo e nei giorni seguenti, portò via quasi tutti, sia nel nostro villaggio sia in quelli vicini. Fu allora, in piena notte, che per la prima volta gli Dei decisero di mostrasi, scendendo sulla Terra a cavallo delle stelle più luminose.
    Dopo quel giorno, non tornarono più, ma Akuj, forse per premiare la devozione degli esseri umani, mandò con maggior generosità l’acqua dal cielo, rendendo il terreno fertile e facendo persino crescere alberi con frutti che non avevano mai visto. Alcuni bambini inoltre, scoprirono di essere diventati più veloci e più forti persino dei grandi leoni, i mangiatori di uomini, ma smisero di crescere. È trascorso tanto tempo e da allora molti altri figli degli Dei -così li chiamiamo- sono nati. Io non sono uno di loro pur essendo il figlio del capo del villaggio, ma il rispetto che mi portano, forse per il mio ruolo o forse perché sono già più grande di quanto diventeranno mai, compensa il mio rammarico di non possedere il dono.
    Oggi diventerò un uomo. Lo sciamano sgozzerà una mucca e dopo essermi bagnato nel fiume, procederà con la circoncisione. Stanotte poi, andrò a caccia nella pianura con i figli degli Dei, per dimostrare il mio valore. Non sarebbe dovuto accadere così presto, ma mio padre ha dovuto prendere questa decisione per il bene della tribù. Nonostante siano valorosi guerrieri e cacciatori, i figli degli Dei restano pur sempre dei bambini, quindi noi giovani siamo costretti a effettuare il rito di passaggio sempre prima.
    Domani, rappresenterò il mio villaggio alla riunione cui parteciperanno tutte le tribù e non avrei potuto farlo come un ragazzo. Tra i villaggi vige la pace, ma anche se siamo rimasti in pochi, gli altri capi non accetterebbero un simile affronto, soprattutto vista la ragione dell’incontro.
    Gli uomini bianchi sono tornati. Non lo facevano da tanto tempo, da prima che nascessi. Perfino mio padre fatica a ricordare, ma è certo che sia avvenuto prima dell’arrivo degli Dei. Dicono di venire da lontano, dal nord, e hanno chiesto di incontrare i capi delle sessanta tribù. L’ultima volta portarono cibo e doni -qualcosa che lo sciamano ha chiamato medicine- affermando di volerci aiutare. Stavolta invece, forse saremo noi a dover aiutare loro.

    Osservo le vie di Stadsholmen e Ostelmalm e la tristezza mi assale. Kungsholmen poi, ormai deserta e priva di vita, non fa che alimentare i miei sensi di colpa. Stoccolma non è più la stessa. E come potrebbe in fondo? Il mondo intero è cambiato e la colpa è anche nostra. Prima della guerra, venivamo considerati all’avanguardia per il nostro sistema scolastico, per il senso civico dei nostri cittadini, per la saggezza della nostra classe politica. Ma quale saggezza abbiamo dimostrato quando abbiamo reagito alle provocazioni di uno Stato belligerante e senza scrupoli? Oh, certo, dopo un secolo trascorso a diffondere la paura dell’atomo, così come i nostri avversari abbiamo optato per armi in grado di non arrecare danno al pianeta: quanta civiltà in tutto questo…
    In quanto prima donna ad assumere la carica di Primo ministro svedese, avevo sulle mie spalle il peso delle aspettative di tutta l’Europa, soprattutto dopo che, sotto la nostra guida, l’Unione europea riscoprì un’insperata coesione. Nacquero gli Stati Uniti d’Europa, una nuova nazione ricca, potente, coesa. L’economia continentale divenne la prima al mondo, cosa che ci procurò nuovi nemici tra quelli che una volta chiamavamo alleati.
    L’escalation fu rapida e il fatto che, forse per la prima volta nella storia, a fronteggiarsi fossero due nazioni con eguale potenziale bellico, convinse il nostro avversario a utilizzare armamenti che noi stessi avevamo contribuito a creare. E fu proprio nel momento del nostro zenit, all’apice della nostra cultura, che prendemmo la peggior decisione possibile: rispondere agli attacchi utilizzando lo stesso arsenale. Visto il poco tempo a disposizione però, non riuscimmo a concepire nulla di meglio del canonico “prima le donne e i bambini” e la carenza di possibili rifugi fece il resto.
    Terminato l’isolamento, ritrovammo il mondo esattamente come lo avevamo lasciato, ma nel nostro tornare alla vita, fummo costretti a camminare sui cadaveri. Poi, una notte, vedemmo le luci nel cielo e la speranza sembrò tornare a riscaldarci l’anima. Ma ci sbagliavamo.
    Durante il suo flemmatico e meticoloso lavoro, quella misericordiosa razza aliena sembrava dedicare ogni attenzione ai morti a scapito dei vivi. Ci ignoravano, come genitori delusi dai propri figli, e una volta terminato lo smaltimento dei corpi, se ne andarono.
    Nonostante tutto, cercammo di mantenere intatta una parvenza di società, basandoci sulle nostre nuove e mutate necessità. Col tempo, ci rendemmo conto che alcune di noi avevano sviluppato la capacità di teletrasportarsi, fenomeno che, non potendo essere studiato, ci limitammo ad accettare come un dono, un’occasione per ritrovare quell’unione che non eravamo riusciti a costruire in precedenza. Con tutti.
    Le comunicazioni, per quanto limitate, ci hanno permesso di individuare i superstiti e la nostra nuova capacità ci aiuta a raggiungerli, ma questo ci ha fatto comprendere che il nostro desiderio di pace non è, neppure ora, universalmente condiviso: il nemico è rimasto tale ed è più potente che mai.
    Oro e denaro non hanno più alcun valore di fronte alla rinnovata fertilità del pianeta e noi non rappresentiamo certo una minaccia, per cui -tralasciando l’umana e masochistica propensione all’autodistruzione- le motivazioni che spingano i nostri avversari a proseguire con questa follia ci sono ignote. Vogliamo andare avanti; vogliamo lasciarci alle spalle quell’incubo nero e cercare di costruire un mondo diverso, forse migliore. Per questo ora cerchiamo alleati tra le popolazioni superstiti: ormai non si tratta più di una guerra per l’egemonia economica, ma di una vera e propria battaglia per la sopravvivenza.

    “Siamo sopravvissuti e questo può essere stato solo il volere di Dio. Quello che è accaduto è tragico, ma si è trattato di una conseguenza della nostra costante lotta contro i nemici della democrazia. Siamo stati poco lungimiranti, rimanendo a guardare la nascita di una nuova potenziale minaccia in seno a quelli che consideravamo alleati. La loro politica economica, ovvero ottenere il monopolio delle materie prime, non era altro che un’arma, un nuovo genere di guerra adatto al terzo millennio, in grado di annichilire nazioni che credono nella libertà di parola, pensiero e azioni.
    La diplomazia non ha ottenuto alcun risultato, quindi siamo dovuti intervenire con una decisa azione preventiva. Non potevamo stare a guardare mentre, una seconda volta, uno Stato si ergeva a tiranno del mondo per prevaricare gli inalienabili valori di ogni essere umano. Ne siamo usciti sconfitti, ma più forti e consci che il nostro compito non sia ancora terminato.
    Recentemente, abbiamo sventato un tentativo d’infiltrazione. Due donne, apparentemente di origine scandinava, sono state arrestate mentre tentavano d’intrufolarsi nel Campidoglio con il presumibile intento di compiere un atto terroristico ai danni dei membri del Congresso. Condannate alla pena capitale, sono riuscite a fuggire svanendo nel nulla. Forte della sua nuova capacità, il nemico si crede imbattibile ed è per questo che noi dobbiamo attaccare e neutralizzarlo, una volta e per sempre. È tuttavia evidente che la nostra egemonia bellica sia ormai un ricordo, ma Dio ci ha voluto donare un nuovo modo per difenderci. In passato l’avrebbero definita magia o, in tempi più recenti, telecinesi, ma comunque lo si voglia chiamare, sarà proprio lo strumento con cui riporteremo la pace in questo mondo sempre più confuso.
    Successivamente, la creazione di una nuova economia, più rurale e meno invasiva, a supporto di un graduale ripopolamento, diverrà la nostra priorità. Ma ciò non significa che, un giorno, non si possa tornare a riconsiderare un percorso basato sull’industria e la possibilità di ricondurre la civiltà fino al punto in cui l’abbiamo persa, riportando le lancette indietro di dieci anni e sperando di non commettere più gli errori del passato.”
    Con questo discorso, il Presidente ieri ha esposto in modo chiaro e diretto, a noi senatori, la strada da seguire e ciò dimostra quanto la linea d’azione tenuta durante il conflitto, ovvero preservare il potere esecutivo ad ogni costo, sia stata la migliore. In tempi bui come questi, solo un gruppo di menti pensanti è in grado di guidare i sopravvissuti, il cui impegno sarà fondamentale per riportare l’occidente ai fasti di un tempo.
    I pochi giovani rimasti, quelli che non hanno subìto gli effetti della guerra, sono confusi, spaventati, in cerca di un faro che gli indichi la strada. Il Presidente, per ora, riesce a personificare l’autorevole leader di cui hanno bisogno, ma dopo aver vinto la guerra, le priorità cambieranno e il nuovo mondo non avrà più bisogno di un soldato, ma di qualcuno con una visione imprenditoriale. Io sono pronto ad assumermi questa responsabilità e presto avrò l’appoggio del Congresso. Se poi non dovessi ottenerlo con la persuasione, ho altri metodi: nessuno, né gli altri senatori né lo stesso Presidente, è al corrente del fatto che anch’io possieda la telecinesi, un potere molto convincente.
    Si dice che Dio, per giudicare gli uomini, li metta alla prova per sette minuti, che per il nostro concetto di tempo equivalgono a settant’anni. Forse, siamo rimasti così in pochi perché anche lui sta morendo e non ha intenzione di sprecare i suoi ultimi anni a osservarci. Siamo soli, ormai; questo è il tempo degli uomini e gli uomini hanno bisogno di una guida. O magari, più semplicemente di un nuovo Dio.
     
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    “Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi.” Albert Einstein

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    «Stai giù, accidenti!»
    «Più giù di così, non posso. Sto respirando fango!»
    «Attento, li sento arrivare! Non fiatare!»
    Red e Mika, erano di pattuglia in avanscoperta quando spuntarono inaspettati i Nordici.
    «Accidenti a voi, bastardi!»
    «Zitto e immobile! Se ci beccano c’ammazzano!»
    Arrivarono degli elicotteri con fari che illuminavano a giorno la boscaglia.
    Riuscirono a percepire lo spostamento d’aria e il frastuono assordante dei rotori, quando furono sorvolati a pochissimi metri.
    Il loro cuore pompava in maniera esasperata.
    «Li senti Red?»
    Voleva rispondere ma non vi riuscì.
    «Cani! Sono latrati di cani!»
    Si buttarono nell’acqua gelata di un canale scrutando il buio.
    «Eccoli!» bisbigliò Red.
    -
    Alcuni giorni prima.
    -
    «Vi ho fatto convocare per una missione pericolosa, ma indispensabile al nostro futuro.»
    Chi parlava era uno dei vecchi saggi.
    Axum.
    Dopo la guerra, della civiltà rimaneva ben poco, e le splendide città, Roma, Parigi, Londra, ridotte ad un cumulo di niente, deserte e alla mercé della riconquista da parte della natura.
    Red e Mika, con i loro sessant’anni erano tra i più giovani e in forze.
    Il vecchio, dopo averli squadrati come per sincerarsi della loro idoneità, proseguì con la voce tremula tipica degli ultracentenari.
    «Come ben sapete, la nostra civiltà aveva portato la vita a oltre cento anni per tutti, e quando iniziò il conflitto tra il nord opulento e il sud alla fame, la nostra età media era molto alta. Da allora, sono passati tanti anni, e le nostre donne hanno raggiunto il momento in cui non sono più in grado di procreare.»
    La stanza dove si trovavano, era all’interno del loro quartier generale, un parcheggio in cemento armato, sei piani sotterranei e tre sopra, dove vi avevano trovato sistemazione gli alloggi e i loro magazzini stipati di tutto, dalle armi ai viveri, da attrezzature a vestiari, da automezzi a medicinali; il tutto razziato in grandi centri commerciali e diligentemente stivato e catalogato.
    Veniva chiamato “il Castello”.
    Una vera fortezza pulsante di vita propria.
    Vita che stava per terminare.
    «Vengo subito al dunque.»
    La voce del vecchio lambiva lo spazio, tenue come la luce dell’unica candela accesa al centro della stanza in mezzo a una decina di membri del gran consiglio.
    «Abbiamo bisogno di donne in grado di donarci la vita!»
    «Ma dove diavolo le trov… », tentò d’intervenire Red interrotto dal vecchio che continuò imperterrito: «abbiamo saputo da alcuni cacciatori spintisi molto a nord, dell’esistenza di un gruppo di persone nel quale la maggioranza sono donne, belle e giovani. Tanto a nord che li abbiamo chiamati “I Nordici”.»
    -
    Immersi nell’acqua fino al collo, scampati all’olfatto dei mastini e semi assiderati, riuscirono a intravedere di chi erano prede: non i Nordici, ma volti con lineamenti orientali.
    Lo stupore fu tale che abbassarono la guardia, non avvedendosi della figura che si stava velocemente avvicinando alle loro spalle.
    Una mano emerse dall’acqua pronta a colpirli.
    -
    Il vecchio saggio prosegui lentamente, quasi a non voler provocare reazioni negative.
    «Dovrete raggiungere i Nordici e portarci delle donne. Non importa come e quante, ma il vostro compito sarà quello. Avete carta bianca: l’importante è la nostra rinascita!»
    «Quando dobbiamo partire?» chiese curioso Mika.
    «Siete già partiti!» fu la lapidaria risposta del vecchio dal tono che non ammetteva repliche.
    -
    La prima parte del viaggio fu monotona, attraverso lande sconosciute.
    I due erano alla testa di una squadra di venti uomini attrezzati e armati di tutto punto.
    Il mondo al di fuori del Castello si era fatto molto pericoloso e pieno di incognite: insidie continue rappresentate da animali pericolosi o da qualche umano impazzito e aggressivo.
    Una non facile marcia di veicoli su strade ormai tramutate in poco più che sentieri, una lunga settimana di tappe forzate, bivacchi improvvisati.
    Per Red e Mika, piantato il campo, la perlustrazione era diventata una routine.
    -
    Una mano veloce, femminile, brandiva un bastone.
    Due colpi veloci e fu il buio.
    -
    «Ci dispiace per voi, ma era l’unico modo per sottrarvi ai “Cinesi”!»
    Quella dolce voce femminile interruppe il buio.
    Mika, che non si rendeva ancora conto di quanto accaduto sbiascicò «Cinesi?»
    Red intervenne «si Mika, Cinesi.»
    Nel tempo che Mika era rimasto privo di sensi, Red ripresosi prima, ebbe il modo di dialogare con i Nordici, venendo a conoscenza di molti dettagli.
    Una società matriarcale dove le leve del comando erano in mano alle donne.
    Gli uomini, per uno strano gioco del destino nascevano con il rapporto di uno a dieci, e ben presto i Nordici si ritrovarono con il problema opposto al loro: pochi uomini per riprodursi.
    Red proseguì senza troppi preamboli.
    «I Cinesi sono alla ricerca miniere.»
    «Miniere di che?»
    «Ossa umane!»
    Mika reagì come fosse stato colpito da una secchiata di acqua gelida in faccia.
    «Si Mika, hai capito benissimo, ecco cosa cercavano quegli uomini con gli occhi a mandorla. Alcuni di loro sono giovanissimi. Dopo averne catturato uno, i Nordici lo costrinsero a parlare. Ne venne fuori una triste realtà: dall’oriente, si erano spinti verso l’Europa alla ricerca delle enormi fosse comuni che gli alieni avevano usato per far sparire miliardi di cadaveri, conseguenza della guerra di più di quarant’anni fa. I Cinesi, una popolazione giovane con un futuro, quando si resero conto che le scorte rimaste erano agli sgoccioli, si dedicarono allo studio di fonti energetiche alternative. Quando ormai sembrava tutto perso, un ricercatore ottenne una fonte di energia poco meno potente del nucleare, utilizzando come materia prima, il calcio. Processo complicato ma possibile. Rimaneva il problema di dove trovare il calcio necessario. Casualmente a qualcuno di loro venne in mente che le ossa sono formate in gran parte da sali minerali tra cui appunto il calcio.»
    «…e, uno più uno fa due! Ma in Asia non esistono queste fosse comuni?»
    «Si, ma le poche presenti andarono ad esaurirsi in pochi anni, e per qualche motivo cui non potremo mai trovare risposta, gli alieni le hanno concentrate da noi. Miliardi e miliardi di scheletri!»
    «Per cui» aggiunse Mika, «si sono spinti fin qui per cercare nuove fosse comuni.»
    Il suo ragionamento fu seguito da un collettivo annuire di tante teste.
    Solo allora si accorse di essere al centro di una folla tutta al femminile.
    Chiuse gli occhi.
    Avevano trovato le donne!
    La sua gioia fu tale che gli parve di volare.
    Si sentiva leggero, fluttuava nel vuoto…
    Aprì gli occhi.
    Incredibile, stava guardando tutti dall’alto, vide tante testa all’insù che lo stavano osservando con occhi sgranati.
    Stava volando…
    -
    La prua fendeva le onde agitate con ampi spruzzi bianchi.
    Al timone dell’imbarcazione un ragazzo, sguardo fiero e pelle scura.
    Dumè.
    Prolungate carestie e devastanti epidemie avevano decimato quel che rimaneva della popolazione in quella parte di Africa subequatoriale.
    Un pugno di uomini, o meglio di ragazzi avevano deciso d’intraprendere un viaggio della speranza, alla ricerca di un luogo meno malsano e con futuro.
    -
    Mika sorpreso e spaventato perse la concentrazione e cadde di peso davanti agli occhi esterrefatti anche di Red che non sapeva capacitarsi dell’accaduto.
    Seguirono intensi giorni di trattative.
    Giunsero ben presto a un accordo, aiutati in questo dall’effetto soprannaturale creato dall’inspiegabile potere scoperto da Mika: alla fine sarebbero ripartiti con un centinaio di giovani donne con la promessa di organizzare una situazione che avrebbe coinvolto le due comunità nella fusione in una unica grande famiglia, dove unendo le forze avrebbero gettato le basi di una nuova nazione.
    Noemi, una valchiria di un metro e ottanta all’apice della maturità, prese il comando delle sue compagne di viaggio.
    Red la mattina seguente si mise in marcia con le donne per ricongiungersi ai loro compagni rimasti ad aspettarli ai mezzi; a Mika il compito di volare verso i compagni per aggiornarli, e preparare un rientro veloce al Castello.
    -
    Dumè aveva seguito una delle rotte dall’Africa verso l’Europa, una di quelle che avevano portato migliaia di fratelli spesso a morire nei flutti, nel vano tentativo di cercare una vita migliore, in quei lontani anni di inizio secolo; ne aveva sentito i racconti dai vecchi, la sera davanti al fuoco.
    Ora capiva il terrore che dovevano aver provato: onde altissime, notte buia illuminata a tratti da lampi, pioggia fitta. Molti di loro, nati e cresciuti nelle savane non sapevano neppure nuotare.
    Ma come loro, non avevano avuto scelta.
    O morire di stenti e di fame, o rischiare.
    «Dumè, corri, imbarchiamo acqua!»
    «Dove Ndulu, dove?»
    Non fece in tempo ad avere risposta.
    -
    «Guardate, guardate lassù!”
    «Cos’è che vola, non si capisce. Attenzione!»
    «Accidenti a Red e Mika. Non sono ancora tornati, ma cosa stanno facendo?»
    «E noi adesso cosa facciamo? Cos’è quella cosa che vola? Non è un uccello, e nemmeno un elicottero!»
    Uno sparo alle loro spalle li zittì.
    Quella cosa cadde dopo essere stata colpita.
    Si voltarono di scatto e videro Al con in mano il fucile ancora fumante.
    «Non potevamo rischiare, accidenti!» disse Al concitato.
    Corsero tutti nel punto dove era precipitata quella cosa.
    Sembrava un uomo.
    Ma un uomo non può volare.
    Mica vola!
    Mika.
    Il corpo esanime davanti a loro era di Mika.
    -
    Lin squadrò penetrante i suoi compagni.
    Erano giorni che perlustravano la zona alla caccia di qualcuno che potesse dar loro un’indicazione di dove si trovasse esattamente la fossa E.C. 26 (European Cemetery).
    Avevano stilato una mappa abbastanza dettagliata di tutti i siti usati dagli alieni, prima che il satellite usato esalasse gli ultimi segnali.
    Dettagliata ma non precisa.
    In un centinaio, ben decisi a rientrare alla base carichi di ossa, erano atterrati a Oslo in quel che rimaneva dell’aeroporto, il meno danneggiato della zona, a bordo di dieci C-130, appositamente modificati per raggiungere l’autonomia necessaria.
    Tutta l’attrezzatura, compresi gli elicotteri, i fuoristrada e le armi, sarebbero stati abbandonati per far posto al carico. Presto, quegli strumenti sarebbero comunque divenuti inutili per mancanza di carburanti e pezzi di ricambio e munizioni.
    Gli elicotteri alcuni giorni prima avevano avvistato due persone, ma neppure con i cani addestrati erano riusciti a trovarli.
    Il comandante Lin prese la parola davanti ai suoi uomini.
    «Ho avuto ordine di non rientrare se non con il carico previsto!»
    Un brusio di dissenso si levò dagli uomini.
    Lin tuonò: «…altrimenti dovrò azionare la carica esplosiva posta su ogni aereo e condannarci all’esilio definitivo!»
    Una voce cautamente disse: «potremmo cercare un punto di contatto con la popolazione chiedendo la collaborazione, e…»
    «E cosa? Come pensi di giustificare la nostra ricerca? Impensabile!»
    Lin stava perdendo la calma.
    «Adesso datevi da fare. Trovatene uno e fatelo parlare. Il come sono affari vostri!»
    In quel mentre venne interrotto da un trafelato Tao arrivato di corsa: «Lin, abbiamo avvistato un gruppo di numerose donne e qualche uomo che si stanno allontanando dalla loro comunità!»
    In pochi minuti una decina di elicotteri Apache si alzarono in volo.
    -
    Un’ondata gigantesca scosse la barca facendola rovesciare.
    Dumè stava per lasciarsi andare, l’aria nei suoi polmoni finita, cominciava a sentire il freddo abbraccio della morte.
    Non rivedeva la sua vita scorrere in pochi attimi, anzi una dolce sensazione di benessere lo pervase.
    Si sentì afferrare all’improvviso.
    «Eccola è lei, pronta e prendermi per portarmi con lei nel regno degli Dei.»
    Si sentì trascinare sempre più veloce fin quando emerse, e respirò a pieni polmoni l’aria gelida della notte.
    Mani sconosciute lo issarono.
    Dumè era sdraiato sul ponte di un’imbarcazione e stava vomitando litri di acqua.
    Vide accanto a lui Ndulu e si abbracciarono increduli.
    Un peschereccio con l’equipaggio di vecchi, li aveva raccolti in mare.
    -
    Al si chinò sul corpo privo di vita di Mika.
    Erano attoniti.
    Dalla boscaglia spuntò correndo come un forsennato Red, seguito da decine di donne.
    Al spaventato e fraintendendo puntò il fucile verso di loro.
    Red si accorse in tempo e si scagliò su di lui con tutta la sua forza disarmandolo.
    Le donne li raggiunsero velocemente, ma non riuscirono nemmeno a iniziare le spiegazioni, che dal cielo alle loro spalle arrivarono con un tuono gli Apache.
    Si gettarono a terra.
    Red urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
    «Al idiota, spara. Adesso che devi, t’incanti?»
    Scoppiò un feroce conflitto a fuoco che ebbe termine poco dopo.
    Mentre gli elicotteri si allontanavano, Noemi comunicò a Red: «Ecco perché se ne svanno! Hanno catturato una delle mie compagne!»
    «Mi dispiace, non possiamo fare nulla per lei. Dobbiamo rientrare velocemente per evitare altri scontri!»
    «Lo so,» disse Noemi «mando una delle mie ad avvisare quanto accaduto e poi partiamo immediatamente.»
    Il viaggio di rientro non presentò altre sorprese e dopo circa una settimana arrivarono in vista del Castello.
    Tutto perfetto, tranne Mika.
    Red aveva il cuore gonfio di tristezza per la sua perdita: aveva dovuto abbandonarne il corpo.
    Non c’era stato il tempo.
    -
    Red, Naomi e Dumè seduti al centro di quella stanza da dove aveva avuto inizio tutto.
    Il prestigio derivato dal successo dell’impresa aveva conferito a Red un ruolo primario nella gerarchia del Castello, e il Consiglio dei Grandi Vecchi in seduta plenaria aveva nominato Red a capo della comunità fino alle elezioni che si sarebbero tenute quanto prima.
    Di comune accordo, i tre stabilirono delle linee guida a cui attenersi in futuro.
    In primo luogo dovevano concentrare la popolazione in un unico sito, per facilitarne sviluppo e difesa.
    Si decretò come luogo più adatto una zona vicino a dove sorgeva l’antica urbe, Roma: ideale come clima, territorio, vicinanza al mare, ricchezza di acque e fertile.
    Il luogo di nascita di una delle più grandi civiltà del mondo, poteva sicuramente diventare il luogo di rinascita dopo il suicidio del genere umano.
    «Ci aspetta un duro lavoro!» Esordì Red.
    «Non vedo l’ora di cominciare e comunicarlo ai mie… ai nostri fratelli rimasti in Africa.»
    Quello di Dumè fu più un pensiero ad alta voce che un intervento.
    Le parole di Naomi risuonarono determinate: «abbiamo un impegno preciso da portare avanti per cui forza, all’opera!» proseguendo con la stessa decisione, «dobbiamo stilare una Costituzione per il nuovo ordinamento…»
    Red l’interruppe immediatamente.
    «No Noemi. Non dobbiamo assolutamente farlo!»
    Tra i tre calò un gelo che sembrava spezzare l’armonia creatasi.
    Prontamente Noemi rispose: «Come sarebbe a dire? Mica ti sarai montato la testa e pensi di…»
    Seriamente Red portò l’indice sulle labbra.
    Sorrise.
    Quasi ridendo sentenziò: «No, non dobbiamo scrivere una Costituzione, ma memori degli sbagli dai quali dobbiamo trarre i giusti insegnamenti, dobbiamo…» ora calcò il tono su «…dobbiamo», pausa per dare maggior enfasi alle sue parole «scrivere una Sostituzione! Sostituire tutto quello che non ha funzionato nelle varie Costituzioni!».
    Una risata liberatoria ristabilì il giusto clima.
    «Ora al lavoro!» disse questa volta seriamente Red.
    «Dobbiamo basare la Sostituzione sui principi universali di cooperazione, fratellanza, giustizia, equità, il tutto sviscerando quanto di meglio si trova nelle fedi religiose e politiche del passato, tralasciando tutto quello che potrebbe corrompere ed ostacolare il nostro futuro, ostaggio della perversa mente umana!»
    Assaporando l’effetto ottenuto, aggiunse: «…e sarà duro, molto duro, in quanto non capisco per quale misterioso motivo il vecchio saggio Axum, abbia voluto porre il limite di 14.400 caratteri in un massimo di 8 cartelle! Forse per renderne più fluida la lettura e la comprensione. Forse.»
    -
    Il lavoro di stesura richiese alcune settimane, ma alla fine ne venne fuori un lavoro egregio.
    Ognuno s’impegnò di tornare alle proprie comunità come portavoce di quanto stabilito, e organizzare il trasferimento presso la nuova sede.
    Tutti avrebbero messo a disposizione del bene comune tutte le conoscenze acquisite, tutti i beni posseduti,
    tecniche e strumenti per innalzare la qualità della vita, dalle scoperte scientifiche al più piccolo dei semi.
    Alla fine non rimaneva altro che mandare un ambasciatore dai “Cinesi” per cercare un dialogo anche con loro.
    «Già, ma chi?» era diventato il chiodo fisso di Red.
    Ne stavano discutendo animatamente quando… una voce familiare li interruppe.
    «Perché non io?»
    «Ma questa voce... No! Non è possibile!»
    «Eccomi!»
    «Mika!» Urlò a pieni polmoni Red.
    «Guardami, l’ambasciatore perfett…»
    Non fece in tempo a finire la frase.
    Red lo strinse in un abbraccio quasi soffocandolo.
    -
    «…così quando la persona mandata da Noemi, inciampando quasi sul mio corpo si accorse ch’ero ancora vivo, mi portò con sé dai Nordici e mi curarono. Ed eccomi qui!»
    -
    Grazie all’azione di Mika, dopo alcuni mesi anche i Cinesi sottoscrissero la Sostituzione, e poco dopo si trasferirono al Castello.
    -
    «Fine!»
    L’anziano seduto in mezzo a decine di piccoli, di tutti i colori e razze, chiuse un vecchio e polveroso tomo.
    «Questo è l’inizio della storia del nostro popolo, tanti e tanti anni fa…»
    -
    Ogni riferimento a personaggi reali è puramente casuale.
     
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  4. Damjen
     
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    DE BELLO CREPITO



    È il cartello a darmi sui nervi. È appeso ovunque, uno per ogni dannato angolo della Capitale. Non sia mai che qualcuno si dimentichi le regole. All’inizio, ogni volta che me ne trovavo uno davanti, mi veniva da ridere. Quando poi ci hanno obbligato a impararlo a memoria già ridevo meno. Ci trovavamo all’alba in lunghe file storte, i pochissimi giovani in quella davanti e poi via via fino ai più anziani. Io me ne rimanevo a ciondolare appeso al fedele bastone nella mia fila di mezzo tra gli altri ottantenni, cercando qualche faccia conosciuta mentre le voci arrochite, lente come treni merci in salita, recitavano in coro il cartello.
    Primo: non lascerò passare nemmeno un singolo giorno senza che il futuro dell’Occidente sia la mia priorità.
    Fuor di metafora pur rimanendo signori, avrebbero fatto prima a lasciarci dire “primo: moltiplichiamoci”. E pensare che all’inizio sembrava una botta di culo. Mi è andata bene, beninteso, perché c’è chi è messo peggio, altroché. C’è chi s’è buttato sulla religione ad esempio. Li riconosci perché sorridono anche ai muri e invece si capisce che sono i più terrorizzati di tutti. Io li chiamo Noès, un po’ perché si credono fuori pericolo come Noè dopo il diluvio, anche se si vede lontano un miglio che non sono tanto sicuri di essersi meritati di sopravvivere; e un po’ perché sembrano negare la realtà: no-es, non è. Vorrei proprio prendermi la stessa legnata che si sono beccati in testa loro per vedere Dio su ogni ramo ma niente, sono rimasto lo stesso stronzo miscredente di prima. Forse è anche per questo che non mi fido di loro. Chissà cos’erano nella vita di prima. Me li vedo a squartar gente. Col sorriso, ovviamente. Quindi mi tengo a debita distanza sperando che continuino a guardar su perché se gli finiscono i rami e abbassano gli occhi, scoprono di vagare in un cimitero. Potrebbe diventare un problema.
    C’è chi invece ha riscoperto la vita dei campi, come se la Grande Distruzione gli avesse restituito qualcosa invece che togliergli quasi tutto. Li chiamiamo Fautori, che suona come fattori ma fa più figo. A volte sembrano solo una massa di esaltati. Li vedi in cerchio prendersi per mano all’alba prima di tagliare i sacchi delle sementi, o ringraziare la pioggia con certe danze lente a occhi chiusi. Per carità, non li giudico. Bisogna pur raccontarsi qualcosa se si era avvocati, personal trainer o autisti e ci si ritrova in un campo a spaccarsi le mani già nodose d’artrite e la schiena già schiantata, sotto il sole o la pioggia da mattina a sera. Tra l’altro, senza il loro bucolico zelo si tornerebbe a mangiare nient’altro che scatolame come i primi tempi. E questo finché non finiscono le scorte, dopo di che la faccenda si fa stoppacciosa come la carne di cane… Quindi ringrazio, batto le mani a tempo quando passano cantando e spero che la loro pazzia non si esaurisca.
    Bisogna pur trovare qualcosa cui sostenersi per andare avanti, di questi tempi. Che poi è sempre stato così. Guarda me, ad esempio, che mi tengo all’odio per uno stupido cartello, ma almeno io guardo per terra mentre cammino e non appesto gli altri cantando. Tantomeno sbircio intorno aspettando che qualcuno commetta un errore. Per quello ci sono i Capoccia e lì c’è poco da scherzare. Sarà per la difficoltà di continuare a sfamare tutti, o per la paura che scoppi un’altra guerra, ma più passa il tempo e più s’innervosiscono. La cosa si sta facendo preoccupante. All’inizio non mi davano pensiero perché quelli come me nemmeno li guardavano. All’inizio. Avevano un gran daffare con i Fautori, in compenso. Giusto per intenderci sulla piega che stanno prendendo, hanno votato all’unanimità la pena di morte per chiunque commetta omicidio o defezione.
    Quindicesimo: non uccido o sarò ucciso.
    Sedicesimo: non smetto di fare il mio dovere per la comunità o sarò ucciso.
    Non avevano ancora finito di scriverlo su ogni cartello che già arrestavano una donna perché non si presentava a lavorare da una settimana. L’hanno trovata ai giardini che non ricordava neppure il suo nome. Poveraccia, aveva finito la scorta di medicine per la demenza senile. L’hanno giustiziata il mattino seguente e da allora ogni tanto ne fanno fuori uno. Intanto i Noès sorridono e i Fautori cantano. Ma, come ti ho già detto, se rinsavissero andrebbe peggio.
    I Capoccia sono quelli con la fascetta al braccio. Non cantano mai e sorridono ancora meno, te lo dico perché è meglio che ci stai alla larga. Il colore della fascetta indica il grado. Più è scuro, più è alto. Più è alto, più sono nervosi. Mia madre è una di loro, sta facendo carriera. La incontro solo alla mensa e non possiamo nemmeno sederci vicini. Lei è al tavolo dei Centennali. La guardo mentre recitiamo il cartello tutti insieme, incurviti e incerti sui piedi, finché il suo viso stanco s’inabissa nel mare di teste canute e pelate che ci separa. Mi manca. Eppure sono sollevato di non dover scoprire quanto sia cambiata. Non potrei nemmeno chiamarla mamma, se mai mi rivolgessi a lei adesso.
    Per ultimo c’è il gruppo cui appartengo. Ci chiamano Fertili e nessuno sa come sia possibile che abbiamo ripreso a produrre spermatozoi e ovuli a quest’età. Se lo chiedi ai Noès, è un dono di Dio. Se lo chiedi ai Fautori, è un dono della natura. Se lo chiedi a me, c’entrano i Seppellitori. Dopo che se ne sono andati loro, tutto è cambiato. Deve trattarsi di una qualche mutazione genetica simile a quella che non fa diventare adulti i subequatoriali, che uccide i maschi nordici e che non fa invecchiare gli orientali. E poi la faccenda del numero di cadaveri che hanno seppellito: la maggior parte ma non tutti. È come se si fosse cancellata una parte di ogni cosa, di ogni gruppo è rimasto solo un tassello. Se ci pensi, ha un senso: solo se ci riunissimo torneremmo ad essere una civiltà equilibrata. Bambini, adulti e vecchi, maschi e femmine, sopravvissuti e cari estinti. Forse non è un caso se siamo diventati pezzi di un puzzle sparpagliato per il mondo. Per capire il disegno dovremmo prima riassemblare l’insieme.
    Ma dicevo, è il cartello a darmi sui nervi. E pensare che all’inizio sembrava una buona idea: ripopolazione. Correvamo ai ripari come potevamo, proprio come stavano facendo nel frattempo gli altri gruppi. Non oso immaginare cosa abbiano dovuto fare per non estinguersi.
    I primi mesi subito dopo la Grande D, quando il dolore per la morte dei giovani ci sferzava di un dolore antico, noi occidentali ce ne rimanemmo separati, distanti come vecchi gatti che vanno a morire. Mi rintanai nella camera di mio figlio, volevo che la morte arrivasse presto e avesse i suoi occhi. E che avesse la sua composta freddezza nel farsi posto e la sua inspiegabile rabbia nel cozzarmi contro e la sua silenziosa caparbietà nell’allontanarsi. Tuttavia la morte non arrivò, proprio come non tornava mio figlio. Tutto quello che ottenni fu di strisciare tra le sue fotografie per settimane. Ogni tanto entrava in casa qualche sconosciuto, me lo ritrovavo davanti in corridoio o in cucina senza il coraggio di guardarci in faccia. Una volta, a uno che rovistava nell’armadietto delle medicine, ho offerto di fare ai mezzi delle mie pastiglie per la pressione. Si vedeva che ne aveva bisogno.
    Quando finii tutto il cibo e le medicine, mi decisi a uscire. E come me, anche gli altri. Ci aggiravamo per le strade in pantofole, cercando di prendere la corrente come flaccide meduse. Lentamente ci trovammo. Ora eravamo insieme, immobili e ritorti come un bosco d’ulivi. Ho creduto che ci saremmo lasciati morire. Di tutti i gruppi, eravamo il più fragile. Le provviste sarebbero presto scarseggiate, e così forse l’energia. E con tutta probabilità, entro breve tempo saremmo stati di nuovo in guerra. Immaginavo i giovani orientali che allestivano trincee, le donne nordiche che pianificavano azioni di guerriglia, i bambini subequatoriali che imparavano a tenere in braccio un fucile. Noi a mala pena tenevamo ancora in bocca le dentiere. Fu a quel punto che ci giunse voce che i morti non seppelliti si stavano rialzando. Era cominciata la mutazione.
    Noi vecchietti ce ne rimanemmo per un po’ ormeggiati l’un l’altro in attesa che la tempesta ci inabissasse. Tuttavia il tempo passava e invece che spegnersi, qualcosa dentro si faceva saldo. Non moriva, non si estirpava, non affondava. Quando ci guardammo di nuovo in faccia, eravamo ancora vivi. No, di più, eravamo folli come rondini che sentono arrivare il vento ed eravamo arroganti come onde che avvistano gli scogli all’orizzonte. Oh, lo so cosa pensi: esagerato. Ma hai idea di quanto coraggio ci voglia a sentirsi di nuovo pronti al volo quando si hanno i reumatismi alle ali? E quanta fantasia si debba impegnare per scorgere l’orizzonte dietro le cataratte?
    Ricominciammo a innamorarci, a ingelosirci, a immaginare un futuro, ad arrabbiarci di non averne preso in considerazione nessuno. Smaniavamo nuovi guai contro cui provare di saper ancora sanguinare. Credo che gli ormoni stessero tornando a intumidirci le vene, a strisciarci sottopelle come carezze che reclamavano una risposta. È stato pazzesco, lo giuro. Non ricordavo d’essere stato così folle da ragazzo, e forse non lo ero mai stato davvero. D’un tratto possedevamo un futuro, ed è così che è nato il cartello. Primo, moltiplichiamoci. E sommiamoci, troviamo il minimo comune denominatore, eleviamoci a potenza e via così per l’intero Kamasutra, sciatalgia permettendo. Eccolo l’inizio, quando mi veniva da ridere ogni volta che me lo ritrovavo scritto davanti.
    Nel giro di qualche mese, alcune anziane Fertili rimasero incinte. Nel frattempo gli orientali avevano esaurito tutte le loro scorte di cibo. Sai, i vecchi si accontentano di poco mentre i giovani bruciano tutto quello che ingollano. Per questo cominciarono ad attaccarci di notte in piccoli drappelli silenziosi. All’inizio si accontentavano di rubarci ortaggi e cereali ma ad un certo punto devono essergli mancate le proteine. E così ogni tanto all’alba tra le file storte dell’appello mancava qualcuno. Avremmo dovuto difenderci, credo, ma la verità è che ai Capoccia non spiaceva poi tanto di sfoltire le bocche da sfamare. Per questo, immagino, non attuarono nessun espediente di difesa efficace. E poi lo sai come fanno i vecchi con i giovani, sempre a giustificarli. In fondo eravamo rimasti nonni in qualche cassetto ormai chiuso del cuore. Ecco, potevamo scriverci anche questo sul cartello.
    Quattrocentosettantavonesimo: m’impegnerò a essere meno stoppaccioso di un cane.
    Fatto sta che in quel periodo conobbi tua madre.
    Ciò che ti racconterò non sarà degno d’esser cantato con voce impostata, o declamato con un teschio in mano, nemmeno scritto storto su un muro muffito, poiché nessuna dolce creatura di quelle che abitano le canzoni d’amore e le poesie ha mai preteso dal suo cantore l'eroismo di trovare una rima con “pannolone”. E io invece non facevo che scorgere rime ovunque. Oh, tua madre. C’era in lei una tenerezza disarmata che non poteva nascere dall’ingenuità. Lei conosceva l’abbandono, il tradimento, la delusione, glieli vedevi scritti tra le righe e quadretti sulle pagine del volto. Eppure continuava a porgermi della sua anima la parte più tenera e indifesa, quella che nei vecchi nessuno va più a cercare. E il suo stupore quando capì di essere incinta. Mentre tu, piano piano, prendevi posto nei suoi pensieri e nel suo corpo, lei ti faceva spazio riponendo la paura di non essere più capace, quella che si annida nella carne vizza. Vi ho guardate tendervi la mano dai confini opposti della vita e trattenervi l’un l’altra, edificare un nuovo luogo in cui stare insieme, vicine. Mi sono accostato con cautela a questo spettacolo, per paura di distogliere il vostro sguardo. Saremmo stati ottimi genitori, eravamo determinati come vecchi ed entusiasti come adolescenti. Il ricordo di essere stato un padre da poco mi riaffiorò con la durezza dello sguardo che mio figlio mi destinava da vivo. Eppure l’avevo rimpianta quando si era sciolta nei tratti ubriachi della morte. Avevo accolto con rabbia i Seppellitori, quando erano venuti a prendere il suo corpo. Nonostante i miei insulti, lo avevano maneggiato con una cura infinita. Lo avevano lavato, lo avevano avvolto in un lenzuolo pulito e lo avevano portato in giardino per seppellirlo. Ogni altra casa intorno aveva il giardino straziato di cumuli di terra smossa. Però c’è una cosa che non ho mai raccontato a nessuno per non finire nei guai disobbedendo al cartello.
    Ottavo: gli alieni, a piacere, sono soltanto menzionabili.
    Una notte mi ritrovai a scavare. Dovevo essere in preda alla febbre perché vedevo la terra muoversi nel punto in cui mio figlio era stato appena seppellito, come se lui da sotto tentasse di uscire. E così, carponi, una misera paletta da giardino mezza arrugginita in mano, scavavo per aiutarlo. Mi ci vollero ore per arrivare abbastanza in profondità da essere certo di quello che scoprivo. Eppure era così: lui non c’era, il corpo di mio figlio non c’era. Se li sono portati via, capisci? E non possiamo nemmeno sperare che ce li riportino, perché il cartello parla chiaro.
    Dodicesimo: gli alieni non hanno dato nessun altro tipo di aiuto e non torneranno. Questa è una cosa assolutamente certa.
    Ho tenuto segreta la mia scoperta, non ne ho fatto parola nemmeno con tua madre. Aveva anche lei, da qualche parte nel giardino di casa, qualcuno da credere raggiungibile. Tuttavia, nonostante la mia ligia attinenza alle regole, il cartello ha mostrato di ricambiare il mio odio. E per farlo al meglio ha aspettato, mi ha studiato, se n’è rimasto appeso a ogni angolo come niente fosse finché non gli ho mostrato il fianco.
    Trentaquattresimo: i Fertili non possono abbandonare il loro compito per fare i genitori.
    Ora ci costringono a ripeterlo ogni mattina all’alba, e prima di ogni pasto tutti in piedi in mensa.
    Mi tenevo alla larga da tutti, all’inizio. Poi è arrivata tua madre e poi tu. E sono arrivati gli sguardi dei Capoccia. È da un po’ che ci tengono costantemente d’occhio. Hanno paura che scappiamo. Qualche giorno fa hanno persino confinato tua madre, pur di dividerci.
    Per questo ieri mi sono fatto coraggio e sono andato a fare un giro fuori dalle mura che proteggono la Capitale dai Vaganti. Appena ho messo piede fuori, come volevasi dimostrare un branco di morti semidecomposti mi ha puntato. Ho cercato di scappare ma il bastone mi s’impiantava nel fango a ogni passo. Così mi sono fermato e ho stoicamente atteso che mi raggiungessero. Sai, è piuttosto penoso quando ti raggiungono, per questo bisogna sparargli in testa. È così fastidioso quando, una volta avvicinato il malcapitato vivente, gli s’inginocchiano intorno e attaccano a piangere. Prima non era così, erano i vivi ad andare a piangere sulle tombe dei morti. Ora, appena ne incontri uno, ti si stringe intorno carezzandoti il viso come fosse la foto su una lapide e comincia a singhiozzare. Una volta uno di loro mi ha perfino deposto un fiore sui piedi. Te l’ho detto, bisognerebbe rimettere insieme tutti i pezzi del puzzle per capirci qualcosa. Ma ti dicevo, ero fuori dalle mura e c’era questo tramonto che mi si sfuocava tra le cataratte. Lo so, è un po’ patetico avere un padre tanto decrepito da doversi accontentare di un acquarello bavoso. Vorrei però che sapessi che anche se questo è il massimo che posso ottenere, è tutto ciò che mi serve. Il motivo per cui mi sono infilato nel tepore lattescente di quel tramonto è per godermi un’ultima passeggiata. E per dire addio a un amico fedele, il mio bastone da passeggio. Domani me ne separerò perché deve compiere un destino più grande che tenermi su. Sai, il mio bastone è un oggetto da poco eppure nel reparto geriatrico di questo nostro nuovo mondo è diventato prezioso. Lo so che qualsiasi bosco è pieno di ottimi legni, ma prova tu ad avventurartici con l’alluce valgo e il femore che sta insieme col nastro adesivo. Per questo domani lo baratterò con una bambola da lasciarti in regalo. È ovvio che senza il mio bastone non riuscirò più a camminare, ma è meglio così. Se i Capoccia smetteranno di temere che tua madre ed io scappiamo, potrebbero decidere di rimetterla in libertà per il poco tempo che resta al parto.
    Dal canto mio, infilerò questa lettera nell’incavo vuoto della testa della bambola sperando che un giorno la leggerai. La mamma te la metterà nella culla prima che vi separino. Comunque sia, non potremo stare insieme e questo toglie il senso a qualsiasi futuro. Te l’ho detto, sembro un giudizioso vecchio ma in realtà sono solo un ragazzino arrogante. Non posso più tornare indietro. Non voglio nemmeno proseguire così, vivere in un mondo in cui devo recitare il mio elogio funebre ogni giorno. Per questo quando nascerai smetterò di seguire le regole del cartello.
    Con un po’ di fortuna, verrò ad accarezzarti se mai uscirai a goderti un tramonto fuori dalle mura.
    Con amore, il tuo vecchio, immaturo papà.
     
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    Sbadigliando strofinò gli occhi con i pugni, si inumidì le labbra secche e inclinò la testa prima a desta, poi a sinistra. Represse un conato di vomito: forse era l’ora di finirla con quel vino da quattro soldi, le regalava sempre una forte emicrania.
    Si alzò in piedi a fatica, arrotolò la coperta e la nascose sotto i cartoni che erano serviti da giaciglio.
    Con una mano riassettò alla meglio i capelli, cercò di stirare la camicia lisciandola con cura sulle curve dei fianchi. Mise a tracolla la vecchia borsa di pelle, contenente tutti i suoi averi e si accinse a risalire il costone, che portava alla carreggiata del ponte, che da tempo era la sua casa.
    La giornata era limpida, il solito via vai delle macchine dei pendolari le fece compagnia durante il tragitto fino al centro. Qualcuno la salutava con garbo, ma i più le suonavano il clacson, urlandole di spostarsi.
    Eva ormai non li sentiva più; né gli uni né gli altri, viveva nel suo piccolo mondo fatto di dialoghi solitari, elemosina e vino in scatola.
    La prima tappa fu, come ogni giorno, il retro del ristorante. Qualcosa da mettere nello stomaco lo trovava sempre, anche quando il locale era chiuso. Il generoso gestore faceva in modo di lasciarle un avanzo, a volte anche una busta di latte. Se ne servì con parsimonia e prese il resto con sé, poi si diresse all’angolo della strada, dove chiedeva l’elemosina.
    Il pomeriggio lo avrebbe passato al parco; a mangiare il cibo avanzato e bere il vino comprato con i soldi racimolati.
    Questa era la vita di Eva; a lei piaceva così, non avrebbe voluto vivere in nessun altro modo.
    Al parco, quel pomeriggio, tutto andava come al solito. Eva si divertiva a osservare le persone, a immaginarne i pensieri, i problemi, la vita. Con un senso di rivalsa, pensava che nessuno di loro aveva raggiunto la sua pace interiore.
    Anche se si trovavano all’interno di un parco, in mezzo alla natura, tutti sembravano aver fretta, tutti erano dipendenti dal cellulare che pareva un prolungamento degli arti superiori.
    Sorrideva pensando a questo quando all’improvviso le sirene iniziarono a suonare, minacciose, e lei, come tutta la città, si ritrovò con gli occhi rivolti verso il cielo.
    Grossi aerei sorvolarono l’abitato, rilasciando delle scie bianche e dense che piano piano si posarono al suolo.

    La mattina si svegliò con il solito mal di testa e la bocca dal sapore amaro, non terminò i suoi riti mattutini, un silenzio strano avvolgeva il ponte e tutta la città.
    Mancava qualcosa: mancavano il via vai delle macchine, lo strombazzare degli automobilisti e il vociare dei bimbi sull’autobus.
    Faceva troppo caldo per essere Natale, e la Pasqua era passata da poco. Nessuna altra festività svuotava le strade in questo modo e comunque, mai così tanto. Un senso di angoscia era sospeso a mezz’aria, Eva poteva percepirlo ma non ne capiva il motivo. Alla svelta nascose la coperta e risalì sulla carreggiata e poi verso la città, rimanendo come abitudine sul ciglio della strada, anche se, di macchine non ne passavano.
    Il ristorante era il primo fabbricato che incontrava, raggiunse subito il retro. La porta era aperta e le suole di un paio di scarpe facevano capolino dalla soglia. Eva si avvicinò e vide che il padrone era steso a terra, accanto a lui una busta di latte e un cartoccio di cibo. Nella penombra c’era una donna riversa sul lavandino e, poco più in la, una giovane accasciata su una sedia.
    Un’abbondante schiuma bianca ricopriva il loro viso.
    Inorridita scappò verso il parco, cercando di non lasciarsi prendere dal panico. Non li aveva nemmeno toccati, ma era certa che i ristoratori fossero morti.
    Doveva trovare il modo di dare l’allarme, ma con la sua fedina penale non poteva farsi trovare in un luogo dove c’erano dei cadaveri.
    L’ingresso del parco era vuoto, Eva non incontrò persone che facevano jogging né vecchietti con il giornale sotto braccio. Gli uccellini cantavano sulle chiome degli alberi e qualche scoiattolo si affaccendava tra i rami ma per il resto, il luogo era silenzioso e immobile.
    Poi li vide: una mamma ripiegata sul figlioletto in un ultimo abbraccio, due innamorati seduti su una panchina con le teste riverse, uno sulla spalla dell’altro. Un uomo disteso in mezzo al viale, con il cane che continuava a guaire, mentre leccava il volto del padrone per svegliarlo.
    Tutti sembravano affogati in una densa schiuma bianca.
    Ubriaca, questa volta di sofferenza e angoscia, fece il giro della piccola cittadina. Urlava chiamava, ma non ottenne nessuna risposta.
    La schiuma bianca si era presa tutti gli abitanti.
    Una macchina, che era finita contro un lampione, aveva ancora il motore acceso e dallo stereo, Mercury, si ostinava a cantare “We are the champions”. Si avvicinò, per farlo tacere, tanto era fuori luogo in quel momento, con compassione chiuse per l’ultima volta gli occhi al giovane uomo che si trovava al volante.
    La porta del supermercato si aprì al suo passaggio, all’interno, una musica soft si diffondeva nell’aria e molti cadaveri giacevano a terra.
    Come un automa, Eva andò diritta allo scaffale del vino, ne prese fino a riempire la borsa e scappò, correndo, verso il suo rifugio.

    Si svegliò più tardi del solito, la testa sembrava presa dentro una morsa, non riusciva neppure ad alzarsi in piedi. Pensò che avrebbe dovuto bere un po’ meno, anche perché era già passato un mese da quando era rimasta l’unico essere umano vivente in città, e le scorte dei negozi non sarebbero durate per sempre.
    Adesso poi, doveva fare i conti anche con le allucinazioni.
    Erano iniziate qualche giorno prima, quando le erano apparse delle luci accecanti che l’avevano atterrita. Si era rifugiata dentro una casa, e quando ne era uscita, qualche ora dopo, le luci erano sparite e con loro i cadaveri, ormai maleodoranti, dei suoi concittadini. Ancora non riusciva a spiegarsi quel prodigio, e forse non gliene importava, sperava solo che le luci non tornassero per prendere anche lei.
    E poi c’erano quelle persone che la chiamavano, le ordinavano di andare a nord, loro l’avrebbero guidata.
    Ma Eva non aveva nessuna intenzione di andare a nord. Voleva rimanere nella sua città, non poteva lasciarla proprio adesso che ne era diventata l’unica padrona.
    No, per nessun motivo li avrebbe ascoltati, a costo di rimane ubriaca per il resto della vita.
    Il sole era già alto, a volte faceva capolino da dietro a grosse nubi, che non promettevano niente di buono.
    Una numerosa famiglia di topi, alcuni grandi come gatti, le attraversò la strada, facendola trasalire. Non sembravano per niente intimoriti dalla sua presenza, qualcuno sembrò fermarsi, per osservarla.
    Alcuni gabbiani strillavano, volando in cerchio, Eva si chiese quanto ci avrebbero messo, comandati dalla fame, ad attaccare gli esseri viventi. Lei era l’unico umano rimasto nella piccola città, ma gli animali, domestici e selvatici, erano sopravvissuti tutti.
    Aveva faticato non poco, i primi giorni, per liberare cani, gatti e volatili dalle gabbie e dalle catene, per dar modo anche a loro di sopravvivere. Alcuni erano fuggiti, altri erano rimasti vicino alle abitazioni dei padroni.

    Grosse gocce di pioggia iniziarono a caderle sulle spalle esili, coperte solo dalla leggera camicia. Si mise a correre verso l’abitazione più vicina e si ritrovò nel giardino di una villetta. Con tenerezza, riconobbe il barboncino bianco che accompagnava sempre una signora altezzosa. Li ricordava bene: il cane cercava sempre di annusarla alla ricerca di una carezza, mentre la signora non aveva mai abbassato lo sguardo su di lei, quando, all’angolo della strada chiedeva qualche spicciolo per mangiare.
    Entrò forzando una finestra e si guardò intorno.
    Non le era mai interessato avere una casa, viveva senza un tetto sulla testa da così tanti anni che nemmeno ricordava di averla mai avuta. In più, era quasi sicura che “quelli” che la stavano cercando, quelli delle visioni, non l’avrebbero mai trovata sotto al ponte, mentre sarebbe stata una facile preda, rinchiusa tra quattro mura.
    Dopo la prigione, aveva sempre considerato come una galera ogni posto circondato da muri, la claustrofobia non la faceva stare a lungo in un luogo chiuso; ma fuori pioveva e lei aveva ancora un gran mal di testa e soprattutto doveva mettere qualcosa di solido nello stomaco, prima di ricominciare a bere.
    Trovò la cucina, aprì l’armadietto e prese un pacco di biscotti dalla fornita scorta della signora, prese anche una busta di latte e si accomodò, digitando sul telecomando per accendere il televisore.
    Il suo zapping, alla fine, ebbe successo. Trovò una stazione che mandava un segnale molto debole, si avvicinò curiosa all’apparecchio e alzò il volume.
    Il cuore fece una capriola nello stomaco quando riconobbe il volto e la voce dell’uomo anziano; era lo stesso che le appariva nelle visioni.

    “Questa registrazione verrà trasmessa fino a che il satellite lo permetterà.
    La guerra batteriologica ha quasi sterminato la popolazione umana dell’intero pianeta.
    Il mio nome è Axum e, insieme ad altri superstiti, sto cercando di radunare tutti i sopravvissuti dell’occidente.
    Molti di noi che siamo scampati alla morte, ci siamo risvegliati con il potere della telepatia.
    Sto cercando di contattarvi, per insegnarvi la strada e dare a tutti la possibilità di raggiungerci, in modo da poterci radunare e iniziare così una nuova vita. Solo uniti possiamo sopravvivere e cercare di dare un futuro all’umanità. Seguite le mie indicazioni e raggiungetemi. Insieme costruiremo il nuovo mondo …”.

    Mentre Axum, con voce pacata e rassicurante, continuava a parlare, da fuori sentì il latrare di tanti cani. Un branco, selvaggio e affamato, se la stava prendendo con il piccolo barboncino di casa, Eva non ebbe dubbi su chi avrebbe avuto la meglio. Un brivido la percorse in tutto il suo essere: forse la sua città non era più così sicura, certamente non lo era il suo angolo sotto il ponte.
    Avrebbe dovuto rimanere in quella casa per sempre? Le mancò il respiro e il cuore perse un battito.
    Trovò l’occorrente e si preparò un caffè, ne aveva bisogno. Aprì la porta del garage seminterrato e scese le scale. Come immaginava, una macchina era parcheggiata dentro, le chiavi erano inserite e nel cruscotto trovò il telecomando per aprire la saracinesca che dava all’esterno.
    Separate da una parete fittizia c’erano una lavanderia e una piccola cantina, con bottiglie di vino di ottima qualità. Sospirando di sollievo, caricò tutte le bottiglie in macchina, poi tornò di sopra, resistendo alla tentazione di aprirne una.

    “ … siamo riusciti a intercettare poco più di seimila persone sopravvissute, molte in età avanzata. Abbiamo bisogno di tutti per sopravvivere, per far sopravvivere la razza umana … “

    Dal televisore, Axum stava ancora parlando di un nuovo mondo, Eva chiuse gli occhi e concentrandosi sul suo volto, lo chiamò ad alta voce.
    Ormai era deciso, non poteva rimanere lì da sola.
    Nessuno dei superstiti la conosceva, la fedina penale non esisteva più, così come l’uomo che aveva ucciso tanti anni prima.
    Tutto annullato da una schiuma bianca che l’aveva miracolosamente ignorata.
    Era arrivato il momento di premere il tasto reset: dal giorno dopo sarebbe rinata.
    Magari avrebbe preso il nome della padrona di casa, o uno di fantasia, ci avrebbe pensato durante il viaggio. L’idea di essere uno dei pochi fondatori del nuovo mondo la fece sorridere, se solo gli atri avessero saputo.
    - Ma non lo sapranno mai! – Giurò a se stessa, guardandosi allo specchio.
    Il tempo di smaltire i postumi della sbornia e rimettersi in sesto. Avrebbe saccheggiato l’armadio della padrona di casa e, dopo una doccia calda, che non faceva da tanto tempo, avrebbe cercato di raggiungere gli altri superstiti.
    Si sdraiò sul divano di pelle, - Solo qualche minuto – si disse chiudendo gli occhi, mentre fuori, la pioggia, continuava a lavare le strade.

    Si svegliò di soprassalto. Quanto aveva dormito? Non avvertiva il solito mal di testa e si trovava in un posto diverso dal suo ponte. Per un attimo si sentì smarrita, il suo primo pensiero fu di tracannare una bella bottiglia di vino rosso ma si accontentò di un caffè forte.
    Era ancora in tempo per ripensarci, non era costretta a raggiungere gli altri. Poteva rimanere nella sua città, magari imparare a vivere in quella casa o in una qualsiasi, erano tutte a sua disposizione.
    La pioggia aveva smesso di ticchettare sulla finestra, Eva notò le erbacce cresciute nel giardino dove topi e scarafaggi imperversavano indisturbati.
    Nella nebbia dell’alcool non si era mai accorta che la natura stava prendendo il sopravvento.
    I resti del povero barboncino di casa le tolsero ogni dubbio: era l’ora di partire.

    Salì in macchina e si sentì subito a suo agio, anche se non guidava da anni. Appena fuori dall’abitato, aprì i finestrini per sentire la carezza del vento, lo stesso vento del nord che doveva seguire per raggiungere il nuovo mondo. Dallo specchietto retrovisore lanciò un ultimo saluto alla sua amata città e alla sua vecchia vita.
     
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  8. Damjen
     
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    È un piacere ritrovarvi!! E non vedo l’ora di leggervi nel pvsp3 :gioia:
     
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    Il cavaliere tenace

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    LA MIA SPERANZA SEI TU

    Sorreggendosi sul bastone, il vecchio Ivor procedeva attraverso il desolato terminal dell'aeroporto de Il Cairo. Come tante altre città una volta brulicanti di esseri umani, era stata abbandonata a se stessa.
    Il referendum della democratica fazione degli Occidentali aveva avuto come esito l’elezione di lui come prescelto per la spartizione dei beni neutrali di quel mese. Da un lato ne era fiero: sarebbe stato gratificante spendersi nel tentativo di migliorare le prospettive per la crescita della sua patria. Dall'altro, era una gran seccatura. Una volta eletto, il prescelto doveva arrangiarsi per raggiungere il luogo dell'incontro, quell'aeroporto dell'Egitto, dove gli esploratori della zona franca depositavano tutto ciò che riuscivano a trovare.
    Quando giunse al piano terra, trovò i tre stranieri già riuniti.
    «Finalmente» commentò acidamente un giovane ragazzo castano dall’aria fiera. «Lei dev'essere il delegato degli Occidentali, dico bene?
    «Sì» replicò lui, accompagnando la risposta con un inchino. «Il mio nome è Ivor, lieto di prendere parte a questa spartizione.
    «Ylva, piacere mio» una giovane e piacente donna mora dal fisico esile e gli occhi azzurri gli si avvicinò con l'intento di aiutarlo, prendendolo sottobraccio. Lui si divincolò rapidamente, non poteva fidarsi di lei.
    «Io invece sono Akia» esclamò una bimba che doveva avere una decina d’anni o poco più. Il suo viso color mogano era illuminato da un ampio sorriso, mentre gli spumosi capelli neri erano raccolti in numerose, spesse treccine che le rimbalzavano sulla testa ad ogni movimento. Ivor ne dedusse che apparteneva ai Subequatoriali.
    «Io mi chiamo Taro» disse infine il ragazzo, non appena furono tutti vicini. «E sono il rappresentante degli Orientali.
    «Abbiamo già perso parecchio tempo» disse presto il vecchio. Era impaziente di sapere per cosa avrebbe dovuto battersi. «Cos'hanno trovato gli esploratori questo mese?
    «Ecco...» la donna prese la parola, avvicinandosi al rullo su cui un tempo scorrevano i bagagli di stiva e che ora era colmo di oggetti completamente diversi l'uno dall'altro. «Pare che questa volta ci sia qualcosa di molto interessante.
    Ylva prese da quel mucchio un faldone malconcio e impolverato e lo portò agli altri.
    «Si tratta di appunti di un laboratorio di ricerca dell'ex territorio congolese. Abbiamo già dato un’occhiata, prima del suo arrivo...» fece una pausa prima di dare la notizia stravolgente. «È spiegata la procedura per ottenere il prototipo di un medicinale rivoluzionario a cui si stava lavorando, il quale pare possa sventare qualsiasi infezione batterica.
    Gli occhi di Ivor si illuminarono, si lasciò sfuggire un gemito di eccitazione.
    Dopo anni dalla fine della guerra che aveva ridotto l’umanità a un nugolo di sopravvissuti, non erano stati rari i casi di persone sane colpite da malattie mai riscontrate prima di allora, classificate come "infezioni batteriche post-belliche". Nessuno aveva ancora capito perché gli antibiotici non funzionassero. L'ipotesi più accreditata era quella che in qualche modo fossero rimasti dei residui molto pericolosi delle armi utilizzate durante l'ultimo conflitto, le quali erano state progettate perché non potesse esserci una cura efficace. Evidentemente qualcuno aveva già iniziato a cercare una soluzione prima di rimanere ucciso, e gli esploratori della zona franca l'avevano riportata alla luce.
    Era chiaro che avere informazioni simili sarebbe stato un enorme vantaggio per una delle fazioni. L'unico ostacolo per Ivor, dunque, era rappresentato da quei tre estranei.
    «Immagino che sarà d'accordo con noi se ad essere messi in palio, oggi, saranno quei dati.» commentò Taro, guardandolo. Ivor annuì silenziosamente. Doveva vincere la prova a tutti i costi.
    «Ora quindi dobbiamo estrarre la sfida?» chiese Akia con entusiasmo.
    «Esatto» Taro li guidò al grande tavolo posizionato lì vicino e, una volta che lo ebbero raggiunto, distribuì foglio e penna a ognuno. «Suppongo sappiate già tutto, ma sarà meglio puntualizzare alcune cose. Come da regolamento, bisogna proporre una sfida che abbia un solo vincitore. Il foglio deve illustrare il procedimento chiaramente, deve essere anonimo e non deve avere segni riconoscibili.
    I quattro si divisero, per poi riunirsi una volta scritto quanto necessario. Fu Ylva a riporre i quattro fogli, tutti piegati nel medesimo modo, nella scatolina apposita. La agitò nel silenzio più assoluto, probabilmente anche gli altri speravano che venisse sorteggiata la propria sfida. Poggiò delicatamente il contenitore, per poi sollevare lentamente il coperchio. I quattro biglietti erano lì, silenziosi ma al tempo stesso intimidatori.
    «Chi pesca?
    Ivor si fece avanti. «Lo faccio io.
    Con un premio del genere chiunque sarebbe stato tentato di imbrogliare e cercare di estrarre il proprio foglietto. Così facendo era sicuro che ciò non sarebbe accaduto.
    Ruotò la mano nel contenitore per poi afferrare la fatale pagina e porgerla istintivamente a Taro, al suo fianco.
    L’Orientale alzò un sopracciglio, poi prese il pezzo di carta e iniziò a svolgere le numerose pieghe.
    Ivor era teso, ad ogni scartamento successivo i suoi muscoli si contraevano.
    Taro iniziò a leggere ad alta voce: «I prescelti si affronteranno nel semplice ma antichissimo gioco delle bocce.
    Il vecchio imprecò nella mente. Non era il suo foglio.
    «Si giocheranno quattro manche, più un’eventuale quinta in caso di parità. Ogni volta l’ordine di gioco sarà diverso, in modo da non svantaggiare nessuno.
    Il ragazzo proseguì nella lettura delle regole.
    La difficoltà della prova stava proprio nella sua genuinità: chiunque avrebbe potuto vincere. Solitamente, i prescelti si presentavano con proposte estreme che potessero mettere fuori gioco alcuni avversari sin dalla partenza.
    Quando Taro ebbe finito, sospirò sconsolato. «Dove le dovremmo trovare le bocce? Vorrei proprio sapere di chi sia questa proposta geniale
    «Oh, è la mia proposta!» Akia posò a terra il suo zainetto, esaltata. «Le ho portate con me, tanto ero certa che non avrei cambiato idea!
    La piccola aprì una borsa che occupava l’intero volume dello zaino, rivelando otto lucenti sfere metalliche, uguali a due a due, con incisi accuratissimi animali in stile zentangle: koala, elefante, balena, cobra. In mezzo a queste, il piccolo boccino in legno chiaro.
    «Sono le mie personalissime, tramandate di generazione in generazione. Non rovinatemele!
    Ivor era sconcertato. Una delle strategie principali per un prescelto doveva essere quella di non rivelare se fosse stata la propria sfida ad essere estratta, in modo da poter sfruttare il fattore sorpresa. Ma cosa poteva capirne di giochi mentali una poppante come quella?
    «Io, se non vi spiace, scelgo l’elefante. Ho sempre vinto con quello!» la bambina si accaparrò presto le sue bocce preferite. Sembrava che le importasse quasi solo di poter giocare.
    Lui prese il cobra, Taro il koala e Ylva la balena.
    Akia fu la prima a iniziare. Lanciò il boccino sul lustro pavimento, che si estendeva per decine di metri. Un attimo dopo, fu il turno della sfera metallica. Con grazia e leggiadria, fu estremamente precisa.
    Poi, si voltò verso i suoi avversari con un ghigno, il suo volto ora era minaccioso.
    «Sono curiosa di vedere se saprete fare di meglio!
    Se la cavavano, ma la bimba aveva una marcia in più. Si aggiudicò la prima manche senza quasi nemmeno faticare.
    Tuttavia, una volta ingranata la tecnica, la sfida si fece estremamente combattuta. La piccola subequatoriale si era trovata a dover affrontare una coalizione di tre adulti, costituita perché quella non vincesse sin da subito e, per quanto la bimba si sforzasse, non avrebbe potuto farcela con due sole bocce contro sei.
    Conclusi i convenevoli, i concorrenti si erano abbandonati alla competitività, non senza qualche litigio o insulto gratuito.
    Ivor se lo aspettava, aveva abbastanza anni sulle spalle per comprendere che l’odio reciproco rappresentasse il più potente motore per lo sviluppo delle neonate società. Le spartizioni erano state progettate esattamente con tale intento.
    Sebbene però si augurasse che non accadesse, dovettero ricorrere a una quinta manche per stabilire il vincitore.
    Ylva; Ivor; Akia; Taro, questo l’ordine estratto a sorte. Avevano un punto a testa e il nervosismo era alle stelle. Ylva piazzò la sua prima boccia strategicamente, esattamente davanti al boccino, a coprirlo.
    Ivor decise di rischiare, e tentò un tiro di forza per liberare la sferetta coriacea. Si maledisse per aver sottovalutato i suoi muscoli invecchiati: l’oggetto sfrecciò ben oltre l’obiettivo e rotolò per diversi metri. Tremò.
    L’idea di aver buttato all’aria tutto a un passo dalla fine lo terrorizzava.
    Akia ebbe la sua stessa idea, ma fu più brava: l’urto con la boccia di Ylva riportò il boccino in vista, ma non riuscì a strapparle il punto.
    Taro si sbarazzò della boccia di Akia e, sfruttando la deviazione, riuscì a posizionarsi non troppo lontano dall’ambita sferetta.
    Nessuno aveva ancora proferito parola dall’inizio della manche decisiva, si poteva quasi percepire la concentrazione nell’aria. Era il momento dell’ultimo giro.
    Improvvisamente, Ivor notò che Ylva stava singhiozzando. «Cosa le prende?
    «Che senso ha?» mormorò lei.
    «Che senso ha, cosa?» Akia le si avvicinò, stranita.
    «Ci stiamo dando battaglia per qualcosa che dovrebbero avere tutti, ovvero la possibilità di guarire» guardò i volti degli altri con occhi lucidi e sconfitti. «Il mondo in cui viviamo è infernale, ma nonostante questo ci ostiniamo a pensare che tirando acqua al nostro mulino a discapito degli altri si possa ottenere qualcosa di buono.
    Ivor ridacchiò, cinico. «Se sta cercando di impietosirci, non funzionerà.
    «Ma non capite? Questi incontri mensili costano tempo, fatica e dispendiose burocrazie. È ridicolo il fatto che le uniche comunicazioni tra le fazioni siano ridotte a questi eventi.
    Se fossimo riuniti in un solo, grande popolo, non avremmo questi problemi.
    «Peccato che sia un’utopia» Taro alzò le spalle con indifferenza. «E in ogni caso io ho intenzione di tornare a casa con quel premio, sa perché? Mia sorella, l’unica familiare che mi sia rimasta, è malata. Dunque, se oltre al moralismo le è rimasto un briciolo di buonsenso, capirà che io non posso farmi sfuggire un’occasione del genere. Soprattutto se l’alternativa fosse favorire una follia simile.
    «Però Ylva ha ragione» Akia si fece avanti.
    Ivor la squadrò. Una bambina non poteva capire discorsi simili.
    «Se saremo uniti noi quattro, che abbiamo il potere su quei fogli in palio, potremmo convincere le nostre genti. Ci hanno eletti loro, no?
    «Sai, bambina, le cose non sono sempre così facili» ribatté Ivor. Il fatto che un’infante pretendesse di avere più saggezza di lui lo disturbava. «I Nordici e gli Orientali hanno come forma di governo una monarchia parlamentare, ovvero ci sono personalità più influenti di noi che, logicamente, saranno restie a rinunciare al loro potere.
    «Tu mi parli di cose complicate che non posso capire, ma il mio problema è molto più semplice. Nella mia terra ci sono moltissimi bambini che hanno perso tutto, che non sanno nemmeno cosa sia una famiglia.
    Un mondo popolato da bambini può sembrare un sogno, ma vi assicuro che c'è bisogno di adulti per educarci e darci l'affetto necessario, se no è un incubo. Per non parlare del lavoro, non abbiamo abbastanza persone grandi per fare tutto quello che serve! A me la medicina forse non servirà nemmeno, perché senza di voi… Moriremo comunque tra poco. Tutti i bambini lo sanno.
    Ivor non ci aveva mai pensato. Parole innocenti e devastanti al tempo stesso. A come stavano gli altri, non aveva mai dato peso. E una bambina lo aveva appena fatto riflettere su questo. Era da tempo che aveva smesso di credere nella forza della fanciullezza.
    «Come possiamo pensare di riuscire a creare un futuro stabile per le future generazioni, quando sin da subito stiamo gettando le basi per l'ennesimo conflitto?» Ylva scuoteva la testa, scoraggiata. «Cos’abbiamo ottenuto in questi anni dopo la guerra? Niente, assolutamente niente! Basta isolazionismo, basta con questi sciocchi giochi per accaparrarsi le risorse, basta con i confronti e le competizioni! Perché deve necessariamente esserci chi è più forte e chi è più debole, quando potremmo rinascere tutti più forti, senza lasciare indietro nessuno?
    Raccolse la sua ultima boccia, veloce. «Mi dispiace, ma io mi rifiuto di portare a casa un trofeo simile, sapendo che a beneficiarne sarebbe solo una piccolissima parte della popolazione!
    Ylva lanciò quasi con ira e i capelli corvini si inumidirono delle sue lacrime. L'oggetto volò fino a schiantarsi con violenza e precisione contro la sua identica riproduzione: le due balenottere schizzarono in direzioni opposte. Ivor e gli altri rimasero a bocca aperta. Mai era successo nella storia che un prescelto scegliesse di essere causa della sua stessa sconfitta.
    Il vecchio occidentale fu come illuminato. Allora era vero, c'era la possibilità di dialogare con gli stranieri, esisteva ancora qualcuno disposto a tirarsi indietro per dare spazio e ascolto al prossimo, qualcuno la cui volontà non fosse stata completamente divorata dall'interesse personale.
    «Sei solo una stupida!» Taro intervenne indignato, ignorando il pianto della donna. «Meglio per me, si vede che per te la vita del tuo popolo non è poi così importante!
    «Io non credo che sia una stupida» Ivor guardò Ylva con sguardo compassionevole. «Penso invece di aver compreso i suoi sentimenti. Le sue parole e il suo altruismo mi hanno colpito, sarò sincero. È indubbio che ognuno dei nostri gruppi si trova ad affrontare enormi difficoltà, siamo incompleti, non siamo fatti per stare soli.
    «Nessuno ci dà la garanzia che i nostri popoli prendano di buon grado la proposta per una fusione, anche se noi quattro fossimo concordi.» Taro fece una smorfia sprezzante.
    «Ma almeno potremmo provarci» Ylva lo incenerì con lo sguardo. «E condividere beni come questo, che sarebbero preziosissimi per chiunque.
    «Non prendiamoci in giro, la probabilità di successo è bassissima» Taro sembrava aver perso la pazienza. «E io non lascerò morire mia sorella! La sfida non è ancora finita. Se sarete voi a vincere, potrete farne quel che volete del premio, lo stesso vale per me.
    Passò qualche istante senza che nessuno parlasse.
    «Pensi di essere l’unico a conoscere persone in pericolo di vita?» Ylva si voltò e si incamminò verso il bordocampo, avendo terminato la sua partita. «Sei solo un egoista.
    Taro la osservò allontanarsi, silenzioso.
    Akia si piantò davanti a Ivor, determinata. «Ivor, io sono più brava di te a posizionare. Tu pensa a mettere fuori gioco la boccia di Taro, mentre io proverò a vincere!
    Il vecchio annuì. Per la prima volta notò che quella bimba aveva uno sguardo estremamente profondo, colmo di acerba esperienza. Un giorno sarebbe stata una saggia donna in grado di prendere le redini in situazioni ben più complesse.
    L'aria si fece estremamente tesa. Nel silenzio più totale eseguì quanto richiesto. Un colpo discreto, ormai ci stava prendendo la mano. Ora il campo era sgombro.
    Pochi istanti dopo fu la volta di Akia. Il suo elefante affiancò prepotentemente il boccino, a pochi centimetri di distanza da esso.
    La sopravvivenza di parte di tre dei quattro gruppi etnici dipendeva dall’ultimo, decisivo tiro dell’Orientale.
    Taro aprì gli occhi, lo sguardo concentrato fissava la boccia davanti al suo viso. Portò il braccio dietro la schiena, lentamente, inclinò il corpo in avanti. Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Il tempo parve rallentare in quegli attimi di tensione. Il braccio ruotò verso il suolo, pronto al lancio. Il suono sordo del metallo sul pavimento rimbombò tutt'intorno. La sfera rimbalzò, volò a qualche centimetro di altezza, per poi schiantarsi nuovamente al terreno più volte, i fragori metallici parevano tetri rintocchi di una campana che annunciava la fine della partita.
    L'oggetto si avvicinava sempre più al boccino. Ivor strinse saldamente il suo bastone, sentì il suo battito cardiaco accelerare vertiginosamente.
    Il koala arabescato raggiunse l'obiettivo. Ma l'impatto non fu lieve. Il boccino venne scagliato molto più avanti, secondo un moto parabolico. I tre contendenti seguirono la sua traiettoria, che finì cozzando su un serpeggiante cobra inciso su metallo. Ylva cadde sulle ginocchia, sbigottita e sfiancata dallo stress.
    Ivor, stupito quanto lei, si voltò verso Taro, fermo a testa bassa. Stava piangendo.
    Il vecchio non sapeva come comportarsi, era paralizzato dallo stupore, timoroso di rompere un silenzio così assordante.
    Tuttavia, aveva vinto lui, non poteva far finta di nulla. Fino a poco prima era tutto ciò che avrebbe potuto desiderare, ma ora tutto era cambiato.
    Taro, contrario fino ad allora, aveva sacrificato la certezza di un presente stabile a favore della vaga speranza di un futuro migliore. Non solo, l’aveva riposta nelle sue mani, assieme alla vita dell’amata sorella. Di fronte a un tale atto di fiducia nei suoi confronti, si sentì svuotato di tutta quella saggezza che spesso vantava di avere.
    «È ora di dire addio all'era delle divisioni.
     
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