Il rifugio dello scrittore

Cassetto raccolta

Racconti per l'infanzia

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    Questo thread, chiuso al pubblico, contiene i testi già scremati e rivisti dell'iniziativa di stonestein.
    Dì là sono rimasti i racconti di quegli utenti di cui abbiamo perso le tracce, quindi ho lasciato lì i loro pezzi.


    Introduzione di mcb.

    «Nonno, perché si raccontano le storie ai bambini?» mi domandò Alice, sedendosi sulla sua poltroncina.
    «Perché il racconto è un momento per sentirsi vicini tra: paperottole, come te, e vecchi, come me, che vogliono rimanere nei ricordi dei piccoli» le risposi, sistemandomi meglio gli occhiali sul naso.
    «Tu non sei vecchio!» esclamò, un po’ imbronciata.
    «Lo sono, piccola, lo sono... Ma i vecchi riescono a creare quello straordinario momento che acquista una grandissima importanza per tutt’e due. Per me è l'occasione per fare due chiacchiere con il mio più grande amore, per te è il momento di gustare la quiete che hai atteso per tutto il giorno, cioè: il racconto della sera è una galassia in cui re e principi, fate e streghe, gnomi e piccoli maghi, ti spalancano l'universo della fantasia».
    «Va bene, nonno, ma tu cosa ci guadagni a perdere il sonno con me?» domandò ancora, pensierosa, e così mi fece scappare una risata.
    «Non è vero che perdo il sonno… Mi rende felice, e poi per me è un ritorno alle origini, al tempo della mia infanzia» cercai di spiegarle.
    «Non immaginavo fosse così, ho sempre pensato che le storie servissero a far addormentare i bambini».
    «È così, credimi, sei ancora troppo piccina per andare da sola in quelle galassie» la rassicurai, e subito vidi i suoi occhietti illuminarsi con una nuova domanda.
    «Ti andrebbe di raccontarmene una?»
    «Solo una? Te ne racconterò fin quando non ti addormenterai, bambina mia».
    «Davvero?» esclamò entusiasta Alice, che abbracciò il suo orsacchiotto e si preparò all’ascolto.
    E così, pronunciai le parole magiche: «C’era una volta...».
    ~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~

    al44to


    COSI’ NASCE UNA FARFALLA
    Da un ovino bianco e giallo
    dentro una fogliolina,
    nasco piccola bruchina
    verde ahimè e assai bruttina.

    Ma che fame che mi viene,
    non c’è niente che mi tiene,
    mangio a tutte l’ore assai,
    di brucar non smetto mai
    e di dolci foglioline
    le ganasce ho sempre piene.
    Poi nel freddo di una notte
    faccio un gioco di prestigio
    dalla bocca sputo seta
    e a me attorno fò una botte
    e poi dentro mi ci pigio.

    Per diversi giorni dormo
    ma allor sveglia io m’accorgo
    d’esser dura come il marmo,
    mamma mia che spavento!
    perché il cuore più non sento…
    Più non voglio star qua dentro,
    come matta mi dibatto
    fin che esco dall’anfratto.

    Meraviglia! Meraviglia!
    Più non son brutta bruchina
    ho due ali trasparenti
    con disegni gialli e blu
    e se m’accarezza il sole
    si ravviva il mio colore.
    Sono solo appesa a un filo
    ho paura di cadere,
    finché un alito di vento
    mi trasporta via con sé.

    Oh che bello!, quanti colori!
    ora sono una farfalla
    e nell’aria io volteggio
    sol di nettare mi nutro
    ed in mezzo ai fior campeggio.
    ~~~~~~~~~~


    UNA PICCOLA SCIMMIA
    Lassù in alto dove il verde si sposa
    col delicato azzurro del cielo
    saltando fra i rami faccio sfacelo.
    La mia casa è nella foresta pluviale
    e per salirci non mi occorrono scale.
    Son piccolino e peso assai poco,
    la mia giornata è una lunga altalena
    sulle mie braccia che muovo con lena.
    Ho una pelliccia bruno rossiccia
    che se mi arrabbio tutta s’arriccia,
    or che finita è la mia pubertà
    urlo e mi agito in gran libertà.
    Ho solo due anni e mi guardo d’ intorno,
    cerco un amico come me perdigiorno,
    quaggiù nessuno mi sarà mai padrone,
    vi dico il nome, mi chiamo Gibbone.
    ~~~~~~~~~~


    FATA LUNETTA
    Ciao bambini, mi chiamo Mattia, ho sette anni e vivo in montagna, in una bellissima casetta ai margini di un bosco con mamma e papà, e la mia cagnolina Lulù.
    Spesso con Lulù vado a giocare in quel bosco e parlo con gli alberi che conosco uno ad uno; io ho sempre creduto che il bosco fosse magico e abitato dalle fate.
    La storia che vi voglio raccontare, ha a che vedere proprio con una di loro.
    Ora, dovete sapere che le fate si vedono solo nelle sere di luna piena ed è stata proprio in una di quelle sere che io mi sono avvicinato ai bordi del bosco, e l’ho vista.
    Sul momento credevo fosse un cumulo di lucciole, ma all’interno di quelle lucciole c’era una bambina col visetto birichino, un grande cappello da mago che le scendeva quasi fino agli occhi, che erano verdi come le foglie del bosco.
    «Chi sei?» le ho detto. E lei, con una vocina melodiosa, mi ha risposto: «Io sono fata Lunetta, la notte è perfetta, vuoi venire con me? Il mio mondo ti voglio mostrare e se ti piacerà, là potremo restare».
    La sua manina indicava il grosso faccione della luna, quando d’improvviso le lucciole nelle quali era apparsa divennero una luminosa strada che portava fin lassù.
    Brrr... Mi vennero i brividi, non so se per la felicità o se per la paura, ma mi venne anche una grande voglia di andare lassù, a vedere la luna. Mi girai, e poiché mamma e papà chiacchieravano tranquilli con i vicini di casa, presi a seguire fata Lunetta, che nel frattempo era salita sulla strada di lucciole ed era già più in alto di me di un paio di metri.
    Perdindirindina dindella dindò! Camminavo nell’aria lucente di stelle, e da lassù il mondo era tutto diverso, il bosco era d’argento, i fiumi parevano fatti di lampadine luminose e le case piccole, ma tanto piccole, come quelle dei nani di Biancaneve.

    Dopo un po’ non vidi più nemmeno mamma e papà, ma fata Lunetta mi aveva preso per mano e ormai, come per incanto, eravamo già arrivati sulla Luna.
    Perdindirindina dindella dindò! Che spettacolo, ragazzi! Che meraviglia! Che mondo che c’è lassù! Un mondo pieno di colori brillanti che non esistono sulla terra, fatto apposta per noi bambini, un enorme parco giochi, insomma!
    Scivoli d’acqua e di stelle, aerei senza ali su cui volare solo allargando le braccia, case fatte di lego e rosse macchine di formulauno che corrono e non si scontrano mai; le fate fanno tutto, anche i vigili urbani, e draghi di pezza ti regalano biciclette che stanno in equilibrio da sole.
    In ogni cratere c’è un parco giochi diverso, e tra l’uno e l’altro ci si sposta con dei trenini che vanno a voce: basta solo che, tutti insieme, i bambini che sono sul treno urlino: Vai Vai Vai, Vai! E via! Loro vanno velocissimi fra i prati in fiore.

    Girano infinite giostre, dove i giostrai sono bellissimi pupazzi; su cavalli con le ali puoi correre nel cielo e andare nei Lunamarket giocattolosi, e puoi prendere tutti i giocattoli che vuoi, perché non costano niente.
    Mentre volo su un aereo senz’ali, m’accorgo che in quel mondo c’è qualcosa di strano… Non vedo nemmeno una mamma, né un papà.
    Chiedo a Lunetta, che mi è sempre stata vicino, il perché... E lei mi risponde che quel mondo esiste solo perché i bambini sognano, e che se sulla luna arrivassero i sogni dei grandi, quel mondo scomparirebbe.
    Poi, con la sua vocina dolce e delicata, mi dice: «Se in questo mondo tu vuoi restare, dei genitori a men devi fare».
    La guardo preoccupato e urlo «Mai, mai lascerò la mia mamma e il mio papà, non voglio più il tuo mondo fatato, dimmi, dimmi come faccio a tornare da loro?».
    La fatina, con il suo visino furbetto, mi sorride e mi indica la strada lucente, che scende e ritorna nel bosco laggiù.
    Perdindirindina dindella dindò, ancora una volta ci salto sopra e mi ritrovo sospeso nell’aria lucente di stelle, e quando sto per arrivare, mi accorgo che i miei genitori non ci sono più.
    Spaventato urlo forte: «Maamma, maamma, paapà... Dove siete?»
    D'improvviso mi sveglio nella mia cameretta. È mattino e la mia mamma mi stringe a sé, e mentre mi bacia mi sussurra: «Cosa c’è, piccolo mio, hai fatto un brutto sogno?»
    Io vorrei dirle che non è proprio così, ma con una carezza lei mi spinge giù dal letto e aggiunge: «Su, fa in fretta, che la scuola t’aspetta!».

    Sono assai felice di non aver smarrito i miei genitori, era bello quel mondo lontano, ma non ci voglio più tornare; con mamma e papà preferisco restare.
    Allora ragazzi, siete avvertiti: occhio alle notti di luna piena e alla fata Lunetta!
    ~~~~~~~~~~


    UNA FAVOLETTA ISTRUTTIVA
    C’era una volta, in un regno incantato, un principino allegro ma tanto svogliato, che tutto il giorno preferiva giocare a pallone e se chiamato a studiare… scappava e si nascondeva.
    Il re, suo padre, seguitava a chiamare illustri maestri da tutto il regno, ma nessuno riuscì a far studiare il monello, che diventò così grandicello.
    Il re, stanco, un brutto giorno dette al figlio una zappa, lo mandò a zappare il giardino e gli proibì di entrare nella reggia. Da quel momento, il principino, giorno e notte, osservato dalle guardie, diseredato e povero, visse nella casetta di legno del giardiniere. Pian pano divenne suo amico e un giorno, a lui, si confidò sotto un fico.
    Quel giorno Harry, questo era il nome del principe giocherellone, compiva dieci anni e, soprattutto in matematica, era ignorante come una capra; era seduto all’ombra del fico quando Pitagor, il giardiniere, che era una mago segreto della matematica, gli domandò:
    «Perché, Harry, non ti piace studiare? Vuoi rimanere tutta la vita a zappare il giardino?»
    «No! - rispose Harry - Io non amo studiare tutte quelle tabelline, che non riesco ad imparare perché non ho memoria, e allora scappo dai libri e così mi sono venute in odio anche tutte le altre materie, la geografia, la storia; t’immagini un principe che non sa contare, ha ragione mio padre, il re Axum, io vado bene solo a piantare cavolfiori! Pensa, Pitagor, che in tutti questi anni ho imparato solo le prime cinque tabelline.
    «Solo fino alla tabellina del cinque? Sono solo le più semplici: allora sei veramente un disastro» disse Pitagor, guardandolo sconfortato.
    E poi aggiunse «Ma, se sai contare e conosci le prime cinque tabelline, quella dell’uno, quella del due, del tre, del quattro e del cinque, fino a lì sai moltiplicare; forse qualcosa per te posso fare! Vieni, che ti insegno un piccolo trucco». E sorridendo prese la mani del ragazzino fra le sue e iniziò a spiegare come risolvere il problema delle altre tabelline, quella del sei, del sette, dell’otto e del nove. «Ora Harry, guarda le dita delle tue mani con i palmi rivolti a te; ai mignoli di entrambe le mani dai il numero sei, agli anulari il numero sette, alle dita medie il numero otto e agli indici il numero nove». Harry si mise le mani aperte sul viso, poi le allontanò di un po'.
    «Hai capito? I mignoli sono il sei, gli anulari il sette, i medi l’otto e gli indici il nove; ora proviamo il trucchetto...».
    Il povero Harry, scuoteva la testa con un sorrisetto divertito come a dire non ci riuscirò mai, ma era incuriosito da quello che sembrava un gioco, e a lui piaceva.
    Pitagor proseguì «Ora se io ti dico quanto fa sette per sei; unisci l’anulare di una mano, che è il sette, al mignolo dell’altra mano, che è il sei. Le due dita, unite a quelle al di sotto delle due dita unite, sono le decine. Ecco vedi? Nel nostro caso sono tre dita; l’anulare unito al mignolo e l’altro mignolo: queste sono le decine che, essendo tre, fa trenta.
    Ora attento, Harry! Quante dita vedi sopra le due unite?
    Harry felice rispose «In una mano tre, nell’altra quattro.
    «Bene - lo incoraggiò Pitagor - ora moltiplica quattro per tre, fin lì lo sai fare!
    Harry orgoglioso rispose «dodici!»
    «Bene! Bene! Bene! Disse Pitagor, accarezzandogli la testa - ora se aggiungi il trenta al dodici ottieni la somma di quarantadue; ecco Harry: sette per sei fa quarantadue».
    Harry lo guardava incredulo e titubante, ma finalmente incuriosito.
    «Vuoi fare un'altra prova? Chiese Pitagor al principe - Bene, bene, bene, ora dimmi quanto fa nove per otto?»
    Harry fu in dubbio su quale mano usare per prima, ma poi si ricordò che le dita di entrambe le mani andavano dal mignolo all’indice, dal sei al nove; unì così l’indice della mano destra corrispondente al nove, al medio della mano sinistra, che era l’otto, e vide che le due dita unite, più quelle immediatamente sotto, in totale erano sette e dunque memorizzò le decine, che facevano settanta; poi vide che al di sopra di quelle unite c’erano due dita, nell’altra una, e subito si rispose: «Due per uno uguale a due; le decine sono settanta, più due fa settandue. Settantadue! Settantadue! È il risultato!» Urlò e felice abbracciò Pitagor che, sorridente, ripeteva «Bravo!Bravo!Bravo!»

    Da quel giorno il principino diventò ancor più bravo ad usare le mani velocemente, tanto che nessuno se ne accorse mai. Poi, nel tempo, imparò a farlo solo nella mente, e da quel momento non usò più le mani, riprese a studiare con entusiasmo e anch’egli, un giorno, diventò re.

    Provate! Provate anche voi, bambini, provate anche voi mamme e papà! Il metodo di Pitagor è infallibile, ma prima le tabelline, almeno fino a quella del cinque le dovete imparare, perché sono le più facili, credetemi.
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    LA FATTORIA CHE NON C'È
    Fiaba rimata

    Lontano, lontano,
    direi quasi in Cina,
    in una piantagione di tè,
    distante da ogni via
    c’è una bellissima fattoria,
    il suo nome è:
    la fattoria che non c’è.

    Ci sono tanti strani animali,
    che vivono in quei cascinali
    e qui di seguito allora,
    bevendo una tazza di tè,
    ve ne presento qualcuno
    e ve li descrivo a uno a uno.

    Ecco qua, questo è Koarsetto
    fra un Koala e un orsetto,
    che nell’alba ti scende nel letto,
    mentre dormi ruba i tuoi giochi
    che nasconde poi sotto il tetto,
    ma se solo un bacetto gli dai,
    ti riporta i tuoi giochi e vedrai
    che con lui giocare potrai.

    Poi c’è Grubiano,
    più una gru che un gabbiano,
    il suo canto sembra una tromba,
    non ha ali e ha solo una gamba,
    gioca a calcio in campi di grano
    fa il centromediano.

    E or vi presento Corviale,
    che è un corvo reale
    ma ha il becco lungo e peloso,
    lo puoi trovare in un dolce mieloso,
    o sulle spalle di Valentino,
    con lui corre il motomondiale.

    Attento alla tua merendina
    c’è Mialone,
    più che un gatto un tigrone,
    il suo manto è striato di stelle,
    porta jeans con sgargianti bretelle
    mangia sempre, soprattutto melone
    è un gran golosone.

    Occhio ora a Zanfruso!
    Pare un grillo
    con dieci zampette
    ma in effetti
    è un ragnetto col muso;
    è vero, è po’ bruttino!
    Ma ha tanta memoria
    e se ascoltarlo vorrai
    tante favole imparerai.

    Poi c’è Volgat
    che nel suo angoletto
    non si può mai fermare,
    ora è volpe, ora è gatto
    e d’aspetto continua a cambiare,
    non ti devi fidare.

    Ed alfine, ecco qua Spiritello,
    che non è un fantasmino
    ma un normale cagnetto,
    se lo chiami ti viene vicino
    e con te stretto stretto
    vuol dormire nel letto.

    Continuare potrei all’infinito
    e di tante stranezze ancor dire,
    ma ora è meglio
    che andiate a dormire,
    perché solo nei sogni
    troverete dov’è …
    la fattoria che non c’è.

    ~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~




    Papà Lupo

    La serpe e la colomba

    Si narra che in un'era lontana millenni dalla nostra, gli uomini e gli animali potessero comunicare tra loro.
    Erano i tempi in cui l’Uomo e la Donna vivevano sereni e appagati nell’Eden.
    Non mancava loro nulla: cibo, riparo, amici, gioia e spensieratezza erano sempre alla loro portata.
    La notte si riunivano attorno al fratello fuoco per gioire della bellezza di ogni essere vivente, in pace e armonia.
    Nel Giardino incantato si trovavano infiniti tipi d’alberi, piacevoli alla vista e dai frutti deliziosi.
    Al centro, l’Albero della Vita, della Conoscenza del Bene e del Male.
    Inoltre un corso d’Acqua cristallina e pura Lo attraversava dividendosi verso la fine del suo percorso in quattro bracci.
    In lontananza v’era una collina da cui spirava una brezza leggera e frizzante che non causava nessun turbamento poiché nell’Eden la pace e la quiete erano assolute.

    La creatura più saggia e giusta di questo regno divino era la Serpe.
    L'Uomo e la Donna ne erano affascinati, incantati da cotanta sapienza e saggezza.
    L’unica a non mandar giù la cosa era la superba e candida Colomba.
    L’aggraziata bestiola non si capacitava del fatto che gli uomini e gli altri animali dessero tanta importanza a un essere che non possedeva né zampe né ali.
    Un animale così non poteva oscurare la sua importanza, lei era il simbolo della purezza.
    Fu così che la Colomba tramò alle spalle della Serpe, elaborando un piano di una malvagità inaudita.
    Nel regno dell’Eden non vi erano regole da seguire, ognuno aveva il senso del giusto e dello sbagliato.
    Unico divieto: non toccare MAI il frutto rosso.
    La Colomba attirò sino all'albero proibito la Serpe e un’altra creatura che tanto facilmente si faceva ammaliare dal “bello”, la Donna.
    L’Uomo, giuggiolone com’era, li seguì e si diresse con loro ai piedi dell’imponente fusto.
    Riuniti i tre, la Colomba fingendosi distratta, zampettò disinvolta vicino al rosso pomo.
    L’Uomo e la Donna, ai piedi dell’albero, non avevano capito le sue intenzioni, al contrario della Serpe che con un balzo arrivò al tronco e salì fino al ramo.
    Era vicinissima al bianco volatile quando quest’ultimo, con un rapidissimo colpo di becco staccò il frutto dal picciolo, e spiccò il volo.
    La Serpe si protese verso il basso nel disperato tentativo di afferrare il frutto proibito, ma esso cadde dritto tra le mani della Donna. L’Uomo incantato dal frutto rosso, tese il braccio per poterlo toccare.
    Il veto era stato infranto.
    Si narra, in un'era lontana millenni dalla nostra, che gli uomini e gli animali potessero comunicare tra loro.

    Erano i tempi in cui l’Uomo e la Donna vivevano sereni e appagati nell’Eden, finché una Serpe soggiogò la Donna inducendola a raccogliere il frutto proibito e successivamente a condividerlo con l'Uomo, mentre una Candida Colomba, volteggiando su di essi, implorava pietà per le anime di tutte le creature innocenti.

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    stonestein

    Il gatto artista

    Ho sempre convissuto con fratelli a quattro zampe, e tempo fa abbiamo accolto Fuffi, un gattino bianco e nero, meticcio, di quelli speciali, sfortunato come tutti i randagini: senza pappa, senza casa, senza amore né coccole.
    Lo abbiamo preso in casa nostra dopo che la sua umana famiglia adottiva lo aveva abbandonato al suo destino.
    Poverino, tanto sfortunato: oltre che solo e gettato via come uno straccio usato, era anche strabico come la Venere, e non solo... Aveva pure il labbro leporino.
    Uno sguardo triste e disperato, come rassegnato verso coloro che non gli volevano bene.
    Dapprima era molto diffidente.
    «Di voi umani, dopo tutto quello che mi avete fatto, non mi fido più. Mi avvicino a voi soltanto perché ho tanta fame e mi sembrate abbastanza bravi». Questo pensava Fuffi. Poi sparì nel nulla.
    Un bel giorno, tornò da noi, malconcio.
    Si trascinava con le sole zampine anteriori. Qualcosa, o qualcuno, gli aveva rotto in più punti il bacino, ma tanto era forte la sua disperazione che cercò rifugio presso gli unici umani che non gli avevano voltato le spalle.
    Lo curammo amorevolmente.
    Come spesso accade, ai più sfortunati si concede qualche cosa in più, e per lui, quel qualcosa in più, era il privilegio di poter dormire, se ne aveva voglia, sul lettone, insieme a noi.
    Quando voleva entrare in camera da letto, rigorosamente chiusa al resto della banda felina: Cipria, Micia, Micetta, Calimero e Mukuku, emetteva un miagolio speciale, quasi un suo «Allora, mi aprite, ché voglio entrare?» Tanto unico da riconoscerlo subito, e dunque ci alzavavamo per aprire il suo sesamo.
    Una sera, come al solito, al suo miagolio, aprimmo la porta.
    Con grande stupore non c’era Fuffi, ma Ciprio, un maschietto color cipria che, per rispetto alla sua appartenenza maschile non dovette chiamarsi cipria.
    Ciprio, il dominante della colonia, aveva capito, e fatto suo quel miagolio caratteristico; lo aveva imitato perfettamente, per poter accedere lui, al regno magico.
    Ciprio: un gatto imitatore.
    Un gatto artista. Il gatto artista.

    il_gatto_artista



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    Nuvoletta e Nuvolino

    Se puntate il nasino all’insù e guardate nel cielo, vi potrebbe capitare di vedere due nuvole di quelle bianche che sembrano fatte di ovatta o, per i più golosi, di panna.
    Giocano rincorrendosi, si fondono tra di loro per poi rilasciarsi; addirittura creano contorni per la vostra immaginazione e si divertono a sentirvi dire: «Guarda quella... sembra il viso di un topolino!» «No, a me sembra un orsetto. Ecco, invece quella sembra la nonna».
    Come tutti i bambini anche loro, che sono bimbi-nuvola, spesso litigano, e allora diventano scure, quasi nere e poi si azzuffano lanciando tuoni e fulmini, e spesso interviene anche l’amico vento, a dire la sua.
    Ma, alla fine, fanno pace e tornano a creare contorni, giocando a chi sia più bravo.
    Ogni tanto, anche alle nuvole scappa la pipì; dunque: Fate attenzione voi, bambini con il nasino insù; si divertono un mondo a prendere la mira e cercare di bagnare chi c'è sotto!
    Queste due birbe, sono: Nuvoletta e Nuvolino.
    Sono sempre insieme e girano per il mondo cercando sempre di divertirsi, spensierati, come tutti i bambini dovrebbero essere, sempre.
    Un bel giorno, mentre sono sopra un bel paese lindo, con tutte le casette dai tetti rossi, e ognuna con il suo giardino, Nuvoletta attira l'attenzione di Nuvolino puntando in basso un ditino vaporoso: «Guarda laggiù, quei bambini, come sono felici!»
    Quel che vede Nuvolino sono bambini contenti che giocano allegramente nel giardino di una bella villa.
    Belli anche i bambini, biondi, occhi azzurri, che si rincorrono facendo lo slalom tra giocattoli grandi e piccoli, di ogni tipo.
    Ad un certo punto, quei bimbi si fermano, sono stanchi e affamati.
    E... sì, dopo ore di “duro gioco", sono spossati, necessitano di una ricca merenda buona, con tutte le vitamine giuste, al posto giusto, gustosa, da addentare ed ingollare nel più breve tempo possibile, per poi ritornare a giocare in quel paradiso…
    La loro mamma sorridente, gentile e pure lei bella come un angelo, sventola le merendine davanti ai loro occhi come un richiamo dal fascino irresistibile.
    Nuvoletta e Nuvolino si guardano e sorridono continuando sereni il loro peregrinare nei cieli.
    Sono velocissimi, tanto che, quasi senza accorgersene, arrivano sui cieli della Siria.
    Questa volta è Nuvolino che, dando una gomitata a Nuvoletta, attira la sua attenzione dicendole di guardare in giù.
    Vedono bambini malvestiti, sporchi, che giocano tuffandosi in una piscina formatasi nella buca lasciata da una bomba e poi riempitasi d’acqua.
    Loro, lo slalom lo fanno tra le macerie, e non c’è nessuna mamma che li chiama per offrire loro una merenda.
    Forse non hanno neanche la cena.
    E forse non hanno neanche più la mamma.
    Eppure anche loro giocano, si divertono, ridono come gli altri bambini che i due acquosi avevano visto prima.
    Nuvoletta e Nuvolino si guardano tristi, e pensano insieme la stessa cosa.
    «Ma almeno i bambini, non dovrebbero essere uguali in tutto il mondo?»

    Cominciarono a cadere delle gocce di pioggia, ma quella volta non era pipì.

    Fecero molta attenzione a non colpire, con le lacrime, quei bimbi sfortunati che non giocavano alla guerra bensì nella guerra.

    ~~~~~~~~~~

    C’era una volta un forum

    «C’era una volta un Forum…»
    «Papà, cosa vuol dire forum?»
    Guardò il suo piccolino con tenerezza.
    «Sai amore mio, le persone hanno bisogno di parlarsi dicendosi tante cose…»
    «Come fa la mamma, con le sue amiche? Quando inizia non la smette più!»
    Gli sorrise, complice.
    «Bravo, proprio come fa la mamma, ma in un modo diverso.»
    «Diverso come?»
    «Vedi, la mamma parla con le sue amiche in salotto, seduta sul divano e con una tazza di tè e i biscotti.»
    «Mmm! Che buoni i biscotti della mamma!»
    Gli accarezzò dolcemente la testolina.
    «Il forum è come se fosse quel salotto, solo che è virtuale.»
    «Cosa vuol dire virtuale?»
    «Virtuale, già come spiegartelo… Ecco, virtuale è una cosa che esiste ma per finta.»
    Due occhioni spalancati lo fissarono perplessi.
    «Cioè, è come un salotto che non c’è, come l’Isola di Peter Pan… Sì, la conosco, c'è il croccodillo e il tapitano senza una mano! ...Ca-pi-tà-no.»
    «Esatto, e in questo salotto ci sono delle persone vere che parlano tra di loro attraverso il computer.»
    «Come al telefono...» quasi deluso.
    «No, nel forum non si parla, però si scrive... si parla con la scrittura delle parole!»
    «Ah, come una chat, allora? Ma senza i biscotti della mamma! E senza i biscotti a cosa serve parlare?»
    «Come fai a sapere della chat?»
    «Ce lo ha spiegato la maestra l’altra mattina, ma non ci ha detto dei biscotti!»
    Lo prese sulle sue ginocchia, e proseguì.
    «Allora, in questo forum si incontrano, o meglio si scrivono tante persone che hanno la passione dello scrivere.»
    «Ma nel fosum, non si parlava?»
    «Nel forum, non fosum, si parla scrivendo, così gli altri invece di ascoltarti ti leggono. Capito?»
    Il bimbo annuì, poi rifletté. «Ma io non so scrivere...»
    «Imparerai presto. Ora però ascolta: un bel giorno, chiacchierando e scrivendo, decisero d’inventare tutti insieme un libro per i bambini, con tante storie, poesie e disegni.»
    «Waoh! Che bello papà! Un libro tutto per noi.»
    «Sì, tutto per voi bambini. Lavorarono tanto, tutti con gioia, per regalare dei sogni a tutti i bambini, e si proposero per donare tanti soldini e qualche sorriso a quelli meno fortunati di te.»
    «Perché, esistono bambini sfortunati? Come sono? Cosa fanno?»
    «Tu piccolino mio, hai la mamma, il papà e un fratellino, che ti vogliono tanto bene. Hai un lettino con le lenzuola belle dove dormire, hai tanti giocattoli per divertirti e tante cose buone da mangiare!»
    «Ma papà... quei bambini, ce l'hanno i biscotti?»
    Se lo strinse forte al petto. «No, alcuni non hanno nemmeno il latte, figuriamoci il tè. Forse i biscotti non li hanno mai visti. Poi ce ne sono altri, malati, molto malati.»
    «Dimmi papà, ma questi scrittori lo hanno poi finito quel libro?»
    «Se lo stiamo leggendo adesso insieme, vuol dire che ce l’hanno fatta!»
    «Che bello! Ma i biscotti dove sono, papà? Li hai mangiati tutti tu?»
    «Ehm.. sì... Scusa...».

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    Mukuku

    Nel lontano regno della vita di tutti i giorni, dove tutti noi siamo Re e Regine, Principi e Principesse, c’era una volta
    Il castello era una bellissima villetta a due piani, con il Re papà che regnava saggiamente dal suo trono poltrona, con lo scettro in mano con cui riusciva magicamente a cambiar canale ad ogni suo desiderio, e ne aveva più di cento di quei canali tutti a sua disposizione.
    La Regina mamma, era la padrona indiscussa di quell’ala del castello da dove magicamente provenivano tutti i più buoni profumi di questo mondo, dolci e manicaretti prendevano vita dalla sua bacchetta magica che sembrava un cucchiaione.
    Il Principino e la Principessina invece animavano due piccoli sottoregni al piano di sopra, due piccole fortezze che traboccavano di giocattoli di tutti i colori. In quella della Principessina, tante bambole che ubbidivano al suo comando, quasi timorose s’inchinavano ad ogni suo volere. Ma lei le accarezzava e pettinava di continuo vestendole con i più graziosi abitini che poteva trovare.
    Da quella del Principino invece provenivano suoni di battaglie, nitriti furenti del suo cavallo a dondolo impegnato a guerreggiare, e a cavalcioni della sua astronave il Principe soldato combatteva contro terribili mostri interplanetari.
    Tutto così procedeva immutato da secoli, nella pace e nella prosperità.
    Fino a quando una bella mattina…
    «Venite, correte, venite a vedere…!» urlò con tutta la sua forza la Regina madre.
    Il Re spaventato da quelle urla si alzò di scatto dal trono abbandonando il suo scettro.
    La Principessina con il Principino, lasciarono da soli i loro giochi preferiti e si precipitarono giù dalle scale.
    Quello che videro era la Regina che sorrideva di felicità.
    Ai suoi piedi un mucchietto di peli grigi da cui sbucavano impauriti due occhioni gialli.
    Era un cucciolotto di gattino che si era perso, e nel girovagare da solo cercando di trovare la mamma, era finito in quel giardino, attirato forse dai profumini invitanti di cibo, e lui di fame ne aveva tantissima.
    La Principessina ed il Principino, abbandonarono subito i loro giochi e cominciarono ad aver cura di lui.
    Era morbidissimo, il suo pelo profumava ancora di latte e ogni volta che lo si coccolava faceva uno strano suono che sembrava provenire da molto lontano ron-ron-ron.
    La regina, capendo il loro stupore, spiegò che i gattini, quando sono contenti, fanno quel suono: si chiamano fusa.
    Dopo alcuni giorni, la sera a tavola il Re chiese se avessero trovato un nome per quel gattino degno di quel regno.
    «Accipicchia!» esclamò colto di sprovvista il Principino.
    «Acciderba!» esclamò la Principessina per lo stesso motivo.

    Passarono alcuni giorni senza che i due riuscissero nel loro intento.
    Provarono di tutto.
    S’inventarono nomi dai più strani ai più normali.
    Gattino, Birillo, Micetto, Pallino, Pongo, Grigetto, e così via centinaia e centinaia.
    Nulla.
    Il gattino non ne voleva sapere.
    Non rispondeva mai a nessuno di questi nomi.
    Quando un bel giorno la Principessina vide che il gattino era attirato dalle tortore.
    Lì in campagna ce n’erano tante di tortore, e come i piccioni, tubavano facendo quel suono strano tipo ku-ku-ku, mu-ku-ku, tu-ku-ku e il gattino sembrava quasi ipnotizzato da quel suono.
    La Principessina ebbe un’intuizione.
    Guardò il gattino che era in giardino a giocare con delle farfalle, e cominciò a imitare quel verso.
    «Mu-ku-ku!» Una volta.
    «Mu-ku-ku!» Una seconda volta.
    «Mu-ku-ku!» Alla terza volta, il gattino la guardò e con decisione le corse incontro.
    Il gattino aveva scelto il suo nome.

    In quel lontano regno della vita di tutti i giorni, dove tutti noi siamo Re e Regine, Principi e Principesse, c’era una volta il Re, la Regina, la Principessina, il Principino e il gatto Mukuku.
    E vissero tutti felici e contenti.


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    KISHUSEIKO

    Il principe Peter

    Nel piccolo Regno di Gioioso, era la mattina della prima domenica del mese. Nonostante fosse inverno, il sole era caldo e tutti gli abitanti, già indaffarati nelle loro cose di tutti i giorni, avevano atteso quel giorno per quattro intere settimane e si salutavano sorridenti mentre camminavano lungo le vie del paese.
    Nel grande parco al centro del borgo, i giovani stavano appendendo tanti addobbi colorati e, con rumorosi colpi di martello, montavano i banchetti per il cibo, cianfrusaglie e dolciumi.
    Anche il giovane principe Peter, ogni volta contento per la giornata che lo attendeva, si svegliava presto, e quando suo padre, il re, bussava alla porta della sua stanza, lui aveva già indossato guanti e cappotto. Dopo una veloce colazione, padre e figlio salivano sul cocchio reale, guidato dallo stesso re, e dopo un breve tragitto arrivavano in paese, e tutti i sudditi lo salutavano.
    La musica gioiosa, suonata dalla banda, si diffondeva in tutte le strade e alcuni passanti allegri, ballavano al ritmo di quella melodia.
    Appena giunti nell’ampio spiazzo, su cui svettava la torre campanaria, che al piccolo Peter piaceva tanto, alcuni ragazzi gli andavano incontro e, dopo un cenno d’autorizzazione del re, lo trascinavano via, facendo attenzione a calpestare solo le mattonelle bianche della strada, evitando quelle nere.
    Stephan, Jack, Sara e Ludwig erano i valorosi soldati di Peter, e insieme, ogni volta, combattevano i pirati con le loro armi invisibili, salvavano le principesse da nemici sempre più forti e cattivi, e poi partecipavano ai banchetti che i sudditi riconoscenti preparavano in loro onore.
    Al termine di quelle faticose giornate, il re richiamava sempre Peter, ma prima di ricondurlo al castello, acquistava per lui come premio un enorme gelato, che il principe chiamava tuttifrutti cioccolatoso, e lungo la strada si faceva narrare le imprese compiute dai prodi cavalieri.
    Il principe osserva a bocca aperta un grande drago giallo che si sposta lentamente mentre il re vede soltanto un vecchio autobus che gli blocca il passaggio. Mentre Peter ascolta il rumore degli zoccoli dei cavalli sulla strada, suo padre sente il fastidioso rumore delle auto che gli passano accanto. Quelle che per il ragazzo sono le alte torri di mille castelli in festa, per l’adulto sono solo tristi e grigi palazzi.
    L’uomo ascolta distrattamente i racconti del figlio, mentre guida nel traffico serale, già intento a pensare alla lunga giornata di lavoro che lo attende l’indomani, ai conti da pagare e agli altri tipici problemi dei grandi. Ma al giovane principe non ha bisogno di confessare quanti sacrifici, quanto impegno e quanta fatica gli costi sostenere le sue valorose imprese. Un eroe silenzioso, come tanti, che veglia su Peter per rendere, il più a lungo possibile, il Regno di Gioioso un posto sicuro per lui e per i suoi giovani cavalieri, con la speranza che un giorno, il loro mondo immaginario divenga realtà anche per chi, quei sogni, li ha dimenticati da troppo tempo.

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    Il circo dei topolini

    Il circo è arrivato in città.
    È il grande spettacolo dei topolini, divertenti saltimbanchi e simpatici pagliacci.
    Sono arrivati correndo per strade di campagna, ordinatamente disposti su due lunghe file, trainando il loro piccolo teatro fatto di cartone e di spago, di stoffa e di paglia. Hanno scelto con cura il posto in cui fermarsi: un vecchio fienile abbandonato, lontano dagli occhi degli umani, ma facile da trovare per uccellini, scoiattoli, coniglietti e altri piccoli amici. Prima dispongono la paglia come pista principale, poi creano i posti per il pubblico piegando il cartone con le loro zampette.
    Lo spago teso viene preparato per i piccoli acrobati e la stoffa colorata dà a tutto un aspetto gioioso.
    È arrivata l’ora, e nel fienile è tutto un cinguettare e uno squittire, un fischiare e uno zigare, ma quando gli amici grilli iniziano a frinire, intonando un’allegra melodia, tra il pubblico cala il silenzio e lo spettacolo comincia.
    I primi a scendere sulla pista sono i giocolieri; alcuni, con veloci movimenti tutti uguali, saltano, si rotolano e agitano i baffi, coi loro nasini rosa si passano piccole biglie colorate; altri camminano lungo lo spago incrociandosi e sorreggendosi l’un l’altro; alla fine, tutti in fila escono di scena col pubblico che li acclama divertito.
    Subito dopo, è il turno dei clown, che si scontrano goffamente e fingono d’inciampare l’uno con l’altro, mettendosi pancia all’aria e agitando le zampette.
    Lo spettacolo porta gioia e allegria, ma non a tutti.
    Lontano, nell’ombra, un gruppo di gatti vagabondi dal pelo arruffato e dallo sguardo attento segue con interesse tutta la scena. Le code si muovono da una parte all’altra e le orecchie si tendono per non perdere neppure un rumore. Aspettano che il capo, un paffuto e nero micione, faccia la prima mossa, e non passa molto prima che questo accada.
    Con passi lenti, i quattro felini iniziano ad avvicinarsi al piccolo circo senza farsi vedere da tutti quei deliziosi spuntini.
    Ecco! Ora i gatti sono a pochi passi e già si leccano i baffi!
    Ma i topolini, coraggiosi giramondo, non sono facili da sorprendere. Astuti e agili, conoscono i pericoli del mondo e sanno come affrontarli. Alcuni, rimasti nascosti sulle travi del fienile, attendono il momento giusto e quando i felini sono proprio sotto di loro, lasciano cadere sulle loro teste una buona dozzina di uova; a questo punto, approfittando della sorpresa, si avventano sui gatti mordendo loro, con forza, la coda per metterli in fuga.
    Nessuno dei piccoli spettatori si è accorto del pericolo, e lo spettacolo continua fino alla fine senza problemi.
    Soddisfatti, tutti i piccoli roditori si riuniscono e prima di prepararsi a partire per un’altra città, condividono un meritato pezzo di formaggio, con l’ennesima dimostrazione che uniti, possono superare ogni difficoltà.


    Aki, Maki e Kika

    Proprio in mezzo alla savana, dove il sole era caldo e non pioveva mai, nascosta da fitti alberi c’era una pianura, al cui centro scorreva uno stretto ruscello, limpido e rinfrescante. Si trattava dell’unico fiume nel raggio di decine e decine di chilometri, quindi tutti gli animali della zona ci andavano per abbeverarsi. Zebre e gazzelle, giraffe e ippopotami condividevano l’acqua in armonia, certi che ognuno di loro avrebbe avuto la propria parte.
    Un giorno, arrivarono due giovani leoni, Aki e Maki, e nonostante fosse chiaro il rischio di accettare due compagni tanto pericolosi, tutti li accolsero come vecchi amici, facendogli però promettere di non infastidire gli altri abitanti della pianura.
    Per un po’, tutto andò bene e l’armonia continuò a regnare, ma una mattina gli animali, quando al risveglio si recarono al ruscello, vi trovarono i grossi felini. Ruggendo con ferocia, Aki e Maki si proclamarono padroni dell’acqua, e impedirono a chiunque di toccarla. Nessuno ebbe il coraggio di ribellarsi e tutti se ne andarono, delusi e spaventati. I leoni non si allontanavano mai entrambi, quindi era impossibile per chiunque riuscire ad avvicinarsi.
    Passarono i giorni e quando il bisogno d’acqua si fece necessario, tutti gli abitanti si riunirono per cercare una soluzione. Alcuni proposero di ribellarsi, ma i leoni erano troppo forti, anche se solo in due; altri suggerirono di abbandonare la pianura, ma il pericolo e l’incertezza di cercare un altro luogo erano troppo alti. Finalmente, prese la parola la scimmietta Kika, dicendo a tutti che avrebbe risolto lei la situazione. Il problema era grave, quindi tutti decisero di lasciare che la piccola facesse un tentativo.
    Il giorno seguente, la scimmietta si nascose su un albero, e non appena Aki e Maki si avvicinarono al ruscello per bere, Kika balzò fuori e li fermò, avvisandoli che gli altri animali avevano avvelenato l’acqua per liberarsi di loro. Ovviamente i leoni si misero a ridere, certi che stesse mentendo, ma vista l’insistenza della scimmietta, cominciarono a dubitare. Le ordinarono allora di provare a bere, ma Kika rifiutò, invitandoli ad assaggiare loro stessi l’acqua.
    Aki e Maki cominciarono allora a litigare su chi dei due avrebbe dovuto bere per primo e alla fine, per non rischiare, decisero di andarsene per sempre.
    Così, tra gli abitanti della pianura tornò la pace, e grazie ai due leoni che raccontarono a tutti dell’acqua avvelenata, nessun prepotente si avvicinò più al ruscello.

    Il contadino Alberto

    Cari bambini, adesso vi voglio raccontare
    la storia di un uomo a cui piaceva lavorare
    perché poteva stare tutto il giorno all’aperto
    e il suo nome era contadino Alberto.

    Era basso, pancione e sempre rosso in viso,
    ma aveva sempre un gran bel sorriso.
    Portava dei vestiti vecchi e ai piedi dei grossi stivali;
    un poco buffo, certo, ma al mondo non aveva eguali.

    Ogni mattina si alzava molto presto,
    quando fuori era ancora buio pesto.
    Ad aspettarlo c’eran sempre due mici e quattro gatte
    che miagolando, gli chiedevano un po’ di latte.

    Faceva colazione, poi usciva nel cortile
    e dopo un gran respiro, era pronto per partire.
    Con un balzo, saliva sul suo trattore
    tutto colorato, che faceva un gran rumore.

    Dopo qualche ora, proprio dietro a un alto monte,
    il sole si mostrava, appena oltre l’orizzonte,
    e quando vedeva quella grossa palla gialla,
    Alberto tornava a casa e correva subito alla stalla.

    Liberava le mucche, le pecore e ogni altro animale,
    e tutti eran felici di poter finalmente pascolare.
    Poi nell’aia spargeva un po’ di becchime
    per sfamare le oche, il gallo e le galline.

    La giornata passava veloce e c’era sempre molto da fare,
    ma il contadino in mezzo ai campi non faceva che cantare.
    E quando a sera si coricava nel suo letto,
    era stanco ma soddisfatto, proprio come vi avevo detto.



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    EmmeTi

    Il cavallino Billy

    Il cavallino Billy era di un azzurrino pastello molto tenute, aveva la criniera di lanetta bianca e due piccole ali tonde, di velluto, sulla schiena. Era piuttosto piccolo, tozzo e morbido come uno di quei peluche costosi, non imbottiti di materiale scadente.
    Dall'alto di un ripiano, osservava il padroncino Tim divertirsi con tutti gli altri giocattoli della cameretta, tranne che con lui, e, nel tempo, era diventato molto triste.
    «Vedi il robot Magnus? Ha le spalle corazzate, due fari al posto degli occhi e le pistole incorporate nelle gambe; oppure Skatto il triceratopo? Che grazie alle scaglie sul dorso può far sedere e trasportare insieme tutti i mini ninja rossi! Quelli sono giochi interessanti, non tu. Tu sei un giocattolo per bambine! Tim non ti userà mai per le sue missioni contro i mostri immaginari della cameretta», gli disse un giorno il mago Nembus, un vecchio burattino logoro e stanco.
    Fu allora che Billy decise di andarsene e, una notte, si sporse da una finestra e precipitò giù, finendo nel vaso di un cactus, posto accanto all'ingresso del palazzo nel quale abitava Tim. Vi rimase dentro per tre giorni, bloccato da una spina conficcata in un'ala. Al quarto giorno, un cane dal pelo raso si avvicinò a lui incuriosito, lo annusò, lo afferrò con i denti e lo portò fuori dal vaso, lasciando che l'ala si strappasse a metà. Lo posò poi, verso sera, dinnanzi a una porta.
    «Cosa mi hai portato, Bob? Dove l'hai preso?». Urlò una donna alta e corpulenta che, spalancata la porta, stava per calpestarlo. Si abbassò a fatica, prese Billy e lo guardò bene. Poi sorrise soddisfatta e tornò dentro, prese le forbici e tagliò la lanetta che Billy aveva per criniera, così da usarla come imbottitura per la testa di una bambola di pezza. La donna, infatti, aveva la casa piena di bambole, tutte cucite da lei, e quando spense la luce per andare a dormire, Billy raggiunse la porticina del cane, e silenziosamente sgattaiolò via, poiché temeva che la donna avrebbe usato anche tutta la sua preziosa imbottitura. Ma le strade erano grandi e affollate, pioveva, e più si bagnava, più diventava pesante, così decise di nascondersi sotto il davanzale di una bassa finestra, e lì si addormentò.
    Il giorno dopo, le forti beccate di alcuni piccioni lo risvegliarono: dalla finestra, infatti, era stata dispiegata una tovaglia, e tutte le briciole da essa contenute gli si erano posate addosso, attirando gli uccelli. Billy si mise in piedi e iniziò a correre, inseguito e beccato senza tregua. Si nascose sotto un'auto parcheggiata e quando gli uccelli si allontanarono, Billy pensò di essersi salvato, ma l'auto venne accesa e una fitta nube scura lo travolse, togliendogli il fiato. Sporco e ferito, iniziò a vagare per la città, nascondendosi a tutti, soprattutto ai bambini. Ripensò ai suoi giorni nella cameretta, a tutto il tempo passato in disparte, insieme ai giochi dimenticati, si chiese quanto utile potesse essere un giocattolo col quale non si gioca, e si convinse di aver fatto bene a fuggire e ad aver preso la sua strada.
    Infine giunse nei pressi di un portone scuro, e riconobbe il palazzo nel quale viveva il suo padroncino Tim. Proprio in quell'istante, tale porta si spalancò e ne uscì il padre del piccolo, il quale gli passò accanto frettolosamente, poi tornò indietro, restò a fissarlo e si abbassò a prenderlo poiché l'aveva riconosciuto.
    «Guarda come è ridotto. Perché non stai più attendo ai tuoi giochi? Sarà caduto dalla finestra e sarà rimasto per tutto questo tempo in strada». Il padre di Tim gli adagiò Billy tra le mani, una volta tornato dentro. Era ormai di un colore tra il grigio e il nero, senza criniera, con le ali sudice e strappate e il manto lacerato in diversi punti.
    «Mi spiace papà, dirò alla nonna che ho ritrovato il suo regalo». E tornato in camera, lo rimise al suo posto. Poi si fermò per un attimo a pensare e lo riprese. Dispose tutti i suoi migliori giochi in cerchio, uno accanto all'altro, e mise Billy al centro.
    «Billy è l'unico di voi ad aver combattuto con i mostri più forti, quelli che vivono sotto il mio balcone! E guardate cosa gli hanno fatto. Adesso Billy ci racconterà le sue avventure e sarà a capo delle nostre missioni! Grazie a lui saremo pronti a tutto. Persino ai mostri del cortile della nonna».
    Billy era appena diventato una leggenda.


    cavallino_Billy

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    Salvom77

    Franco contro i social network

    Una mattina Franco, come tutti giorni, prese la strada per andare a scuola. Ma un piccolo diavoletto lo vide e, diventando invisibile, si accostò alle orecchie di Franco sussurrando «Perché andare a scuola? Non è meglio invece andare a divertirsi un po'? Su dai, cosa succede se ti prendi una giornata di puro divertimento? La scuola è così noiosa».
    Proprio lì accanto c’era un gruppo di bambini che correva e giocava, Franco si avvicinò a uno di loro e domandò «Cosa state facendo? Non andate a scuola?»
    Il bambino gli rispose «No, noi preferiamo divertirci, la scuola è così noiosa».
    «Come ti chiami?» chiese Franco.
    «Io sono Luigi»
    «Franco! Posso unirmi a voi?»
    «Aspetta, chiamo Fabio... – poi a gran voce – Fabio, vieni qui!».
    Si avvicinò un bambino alto e muscoloso che chiese deciso: «Cosa vuoi? Chi è questo?»
    «Si chiama Franco, dice che vuole giocare con noi».
    Fabio guardò Franco dall’alto in basso e poi disse «Se vuoi unirti al nostro gruppo ci sono delle prove da superare. Sei sicuro?»
    Franco rispose un po' spaventato «Io, veramente, non so…»
    «Prima prova: si chiama calcio al novellino»
    Luigi e Fabio saltarono addosso a Franco e lo colpirono con dei calci.
    Franco si mise a piangere, Luigi e Fabio invece ridevano divertiti. Poi se ne andarono insieme agli altri bambini, ma prima gli rubarono lo zainetto.
    Franco rimase disteso a terra a piangere.
    A quel punto un angioletto si rese visibile e Franco rimase sorpreso da quell’apparizione.
    L’angioletto domandò a Franco «Perché hai ascoltato il diavoletto?»
    «Cosa? Quale diavoletto?»
    Il diavoletto, con in mano uno smartphone, apparì sorridente seduto sulla spalla di Franco «Io!».
    Franco si alzò per la sorpresa e il diavoletto cadde.
    «Meno male che non mi si è rotto lo smartphone!»
    «Cosa stai facendo?» domandò Franco.
    «Vedi? Sto condividendo il video sui social network!»
    Franco diede un’occhiata e vide in quel video i due bambini, Fabio e Luigi, che lo prendevano a calci.
    Franco allora tolse di mano lo smartphone al diavoletto e lo gettò via «Mai più social network, non è giusto che i bambini vengano picchiati per far divertire i brutti diavoletti come te!».
    Il diavoletto si mise a piangere e andò via.
    «Io difenderò tutti i bambini dai social network!» disse con sicurezza, tornando a casa.


    Il bambino e il rospo

    Una volta, un bambino stava camminando allegro in un boschetto, la maestra infatti, quella mattina, gli aveva detto che era proprio bravo in matematica: ecco il motivo della sua felicità. All’improvviso, da dietro un grande sasso, sbucò un grosso rospo. Il bambino si spaventò e iniziò a chiamare la mamma «Aiuto, mi sta venendo addosso mamma, prendilo per favore, prendilo!».
    La mamma, che lo seguiva a qualche passo di distanza, si avvicinò preoccupata «Perché piangi figliolo?─ poi guardò il rospo ─ anche questa è una creatura di Dio, non devi avere paura di lui, ma devi rispettarlo».
    Il bambino però continuò le sue lamentele «Ma fa schifo, è brutto! Aiuto, mi vuole saltare addosso!», fino a scoppiare in un grosso pianto.
    La mamma, senza paura, afferrò il rospo e lo lasciò andare in un punto lontano dal sentiero che stavano percorrendo.
    Ma il bambino ricominciò a piangere «Perché lo hai buttato via»
    «Perché tu avevi paura!»
    «No, mamma, riportalo, in fondo era così simpatico!»
    «Poco fa avevi paura di quel rospo!»
    «Mamma riprendilo! E se una macchina lo investisse? Prendilo!»
    «Ormai se ne è andato! E poi qui non passano macchine, non temere»
    «No, mamma prendilo, prendilo! Riportalo!»
    Il bambino continuava a piangere e strillare, e durante tutto il tragitto per tornare a casa continuò a lamentarsi perché voleva assolutamente indietro il rospo.
    Arrivati a casa il papà s’informò su quello che era successo; lui era un grande artista capace di scolpire il legno, così intagliò una statuetta a forma di rospo e la regalò al figlio.
    Nel boschetto, il bambino rivide il rospo. Era davvero felice di averlo ritrovato, così provò ad acchiapparlo, ma il rospo saltava e saltava.
    «Fermo! Non ti voglio fare del male ─ cercava di rassicurarlo il bambino ─ Non mi fai schifo, scusami... Ora so che sei una creatura, come me».
    L’animaletto tuttavia non sembrava fidarsi delle parole del bambino, che lo inseguì fino ad arrivare a un piccolo stagno.
    Il bambino era davvero felice, aveva scoperto che il rospo non era solo: viveva in quel bellissimo stagno con tanti altri rospi.
    Aveva anche una grande famiglia allegra, che continuava a salutarlo, e ogni parente gli diceva: cra... cra... cra... cra!


    Maga Magona
    C'era una volta maga Magona,
    era proprio una gran birbantona.
    Era furbetta, furba davvero,
    sapeva leggere ogni pensiero.
    Faceva scherzi a certi bambini,
    ma solo a quelli un po' monellini.
    Li teneva svegli nella notte
    con un solletico molto forte.
    Ridevano, ridevan sul letto.
    Bambino mio, sai che gli ho detto?
    Che tu sei tanto buono davvero,
    ora dormi e non stare in pensiero.



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    ¤Mamma Lupa¤

    I figli del sole

    C'era un tempo in cui la Terra viveva in solitudine, perché l'Uomo non era ancora stato creato, e solo le piante e gli animali vivevano sulla sua pelle preziosa.
    La Terra era una mamma premurosa, nutriva le sue creature con egual amore, sia i pesci che le solleticavano i fianchi, sia le talpe che la graffiavano in cerca di dimora e protezione.
    Un giorno arrivò un gran caldo, gli animali assetati cercavano di abbeverarsi dove possibile, e il bel giardino di Mamma Terra iniziò ad appassire. I giorni passavano e la Terra continuava a ripetere ai suoi piccoli che presto sarebbe finito quel brutto periodo, e offriva loro riparo sotto le palpebre e fra le pieghe della sua grande veste, di modo che l'ombra potesse ristorarli.

    La Terra guardava con occhi assetati il Sole, che da non troppo lontano la accarezzava con braccia di fuoco, lasciandole aride macchie sulla superficie.
    Nel frattempo, con quel caldo, il verde dei prati era diventato giallo, e il vento portava con sé l'odore della siccità.
    Passarono quaranta giorni, la Terra, ormai stremata, guardò il Sole e in quell'istante il cielo si annuvolò.
    «Mia amata» – disse il Sole – cos'è successo ai tuoi verdi campi, poesia dei miei giorni, cuscino dei miei sonni?».
    «Amore mio, non disperarti, ora son diventati cibo per daini e cavalli»
    «E quel bel lago, mia dolce Terra? Era uno specchio in cui amavo riflettermi».
    E la Terra rispose «È divenuto casa per dromedari e scorpioni, cammelli e leoni, che non trovavano posto fra le valli delle mie dita».
    Fu così che iniziò a piovere: erano le lacrime del Sole che dissetavano la sua amata dalla forte siccità.
    Il Sole guardò infine il cuore della Terra, ma aveva paura di ciò che avrebbe visto: pensava di trovare una scura roccia.
    Ma la Terra sorrise «Guarda come crescono forti e sorridenti i nostri figli».
    Dopo lo sconforto, il Sole, a quelle parole, si calmò e smise di piangere; il cielo tornò sereno e si vide tutto ciò che cresceva.
    Magnifici alberi di arance e di limoni troneggiavano sul cuore della Terra, con i frutti maturi che sorridevano beati fra le foglie canticchianti di verde.

    Quando infine, all'ombra di quegli alberi, nacquero anche gli uomini, questi usarono i fiori d’arancio e di limone per donarli alle loro spose in segno d'amore eterno, proprio come quello tra il Sole e la Terra.

    I_figli_del_sole

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    Il ronzino de Zena
    Il ronzino de Zena
    Corre al palio di Siena
    Piega come una moto
    È un cavallo un po’... loco.

    Il ronzino de Zena
    Ha gli specchietti laterali
    E, sui fianchi, cj ha pure le ali.

    Il ronzino de Zena
    È a strisce e pois
    È di colore verde e lillà!

    Il ronzino de Zena
    Ha vinto il palio di Siena,
    piega come una moto
    è un cavallo un po’ loco.

    Il ronzino de Zena
    Ora corre in città,
    porta la Bimba
    dal suo papà!

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    Il giorno di Monsieur Gigì

    In un paese vicino vicino, non molto tempo fa, viveva un principino, che mai aveva messo piede fuori dalla sua regale stanza. La mamma tentava con mille stratagemmi di farlo uscire, ma lui non ne voleva sapere: gridava tanto forte da infrangere i vetri della grande finestra della torre. Insomma: faceva così tanti capricci e dispetti, che i genitori non sapevano più cosa fare.
    Così al giullare di corte venne un’idea, e la espose al re e alla regina tra mille capriole e saltelli.

    Per far sortir il vostro principino
    Certo non basta un riverito inchino,
    Come nelle fiabe lette ogni notte
    Urge una gran gara, non pere cotte!
    Chi il principino salvar non saprà,
    fuori dal regno per sempre vivrà,
    Ma chi il suo animo saprà levare
    Che abbia lungo tempo qui, da regnare!


    I regnanti rimasero senza parole, e dopo averci pensato un po’, decisero di ascoltare il consiglio del giullare.
    Da tutti i regni, vicini e lontani, uomini, donne, vecchi e bambini si presentarono, ognuno con le proprie idee: giochi educati e giochi degni dei più abili spadaccini, torte di mele, soldatini, balocchi, filastrocche.
    Ognuno diede il meglio di sé per giorni e giorni, ma nessuno seppe convincere il principino a lasciare la sua adorata stanza. Egli infatti rimaneva di fronte alla porta aperta, seduto sulla sua comoda poltroncina e non accennava a fare un solo passo, anzi, sembrava annoiato da tutti quegli spettacoli creati appositamente per intrattenerlo.
    Con il passare del tempo, nessuno poté più presentarsi al castello: tutti gli abitanti di tutti i regni vivevano ormai nella foresta nera, poiché era lì che venivano mandati quelli che avevano fallito. Anche il castello era ormai disabitato, i servitori e persino il giullare erano stati scacciati, perché dichiarati dal re e la regina: indegni della prova.
    Nel regno vicino vicino, tutto era ormai silenzioso, dalla foresta nera invece provenivano musica, risate e profumo di pietanze prelibate.
    Il principino guardava la gran festa dalla sua finestra, in fondo gli sarebbe piaciuto divertirsi con gli altri. Ma era ancora ben deciso a non muoversi, nessuno sapeva infatti il vero motivo del suo silenzio e di ciò che a tutti pareva indifferenza: era invece molto timido, aveva paura di fare brutta figura. Così si fingeva lontano lontano da tutto e da tutti; in quel modo era sicuro di non poter essere additato né deriso.
    Un pomeriggio, verso l’ora del tè, il principino sentì un rumore di passi leggeri nel corridoio, aspettò e rimase in ascolto cercando di capire a chi potessero appartenere quei piedi, fin quando, preso dalla curiosità, aprì la porta della sua stanza, stando ben attento a non oltrepassare l’uscio.
    Una bambina dai boccoli d’oro, con uno strano pelouche stretto in mano, era proprio di fronte a lui.
    Lei appena si accorse di quella porta aperta, lanciò un gridolino e corse via, a nascondersi dietro una grande pianta.
    «Non avere paura, vieni qui» esclamò il principino, facendole un segno con la mano, per farla entrare.
    Ma della bella bambina, scorgeva solo i capelli dorati.
    «Come ti chiami?» domandò allora il principino. Facendo un piccolo passo, non si accorse che la punta del suo piedino aveva varcato la soglia della porta.
    «Clarette — disse la bambina — e lui è Monsieur Gigì» Presentò il suo amico inanimato, facendolo ondeggiare fuori l’uscio della stanza, il nascondiglio del principino.
    Lui scoppiò a ridere, tanto forte che rotolò sul pavimento, e si divertì così tanto che iniziò a saltare e a fare capriole nel corridoio, senza aver paura di fare brutta figura. Le sue risate richiamarono i genitori, che per la prima volta lo videro felice e… finalmente fuori dalla sua stanzetta!
    Quel giorno, nel regno vicino vicino, ci fu una gran festa che ebbe luogo, per la prima volta, nel giardino del palazzo reale, con il principino, Clarette e Monsieur Gigì che giocavano insieme.
    Tutti gli abitanti furono riammessi al regno, e quel giorno venne ricordato e festeggiato negli anni a venire come Il giorno di Monsieur Gigì.

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    La principessa Gioiosa

    Un tempo lontano, in un regno lontanissimo, viveva la bella principessa Gioiosa, in attesa di diventare regina. Ogni giorno la giovane donna si affacciava alla finestrella della torre più alta del suo castello e rimaneva lì ad aspettare l’arrivo del suo bel principe, proprio come aveva letto in tutti i suoi libri. Voleva vivere per sempre felice e contenta.
    Finalmente, un giorno, vide un puntino lontano lontano, che sembrava avvicinarsi al castello: doveva essere lui, il suo principe azzurro!
    Il drago, che viveva nello splendido giardino del castello, sentì che dalla finestrella più alta provenivano sospiri e recite a gran voce di poesie d’amore. Così, dopo un po’, si decise a svolazzare più vicino, per assicurarsi che la principessa stesse bene. Avvicinò il suo nasone alla finestrella e la appannò col vapore del respiro.
    «Aiuto! Aiuto!» disse lei, impaurita da quella bocca piena di denti grandi.
    «Perché mi vuoi mangiare? Tu dovresti aspettare che arrivi il principe!» esclamò terrorizzata.
    Il drago si grattò la testa piena di scaglie e spuntoni: era confuso da quelle parole.
    «Perché dovrei mangiarti? Io non mangio le persone, figuriamoci le principesse! Scusami, non volevo spaventarti».
    La giovane innamorata credette alla parole del drago, così gli raccontò la storia di quello che doveva accadere ma, dopo un bel po' di frasi, il gigante volante la interruppe.
    «Ehi, aspetta. Scusami... è una bellissima storia ma… Mi potresti rispiegare il punto dove io vengo sconfitto dal tuo principe?»
    «Oh povero drago, mi dispiace molto, e… sì: verrai sconfitto dal principe azzurro, e solo così io potrò andar via da qui e diventare una regina felice. Però adesso io ti voglio già bene, non voglio più che vai nel cielo dei draghi».
    Il drago si intenerì, e lei continuò. «Perché non fai finta di dormire? Magari il principe non ti vede… Certo, non sarà lo stesso... senza un epico combattimento, ma…». Il gigante alzò un sopracciglio, poi le parlò sereno: «Principessa Gioiosa, io non ti ho mai impedito di uscire dalla torre, sono qui soltanto per proteggerti».
    «Cosa? Quindi non devo aspettare il principe?» Il drago rispose con un caloroso sorriso, le fece l'occhiolino e volò fuori dal giardino.
    La principessa guardò un’altra volta verso l’orizzonte: il suo amato principe era di fianco a un puntino più grande, forse un cavallo, e forse si era fermato per riposare un po’. Così lei decise di andargli incontro; si vestì da mendicante e iniziò il suo viaggio.
    Quanto fu bello conoscere le piante e gli animali che non aveva mai visto prima! Conobbe il piacere del pane appena sfornato e l’imbarazzo dei rimbrotti delle anziane nei villaggi che attraversava. Dopo giorni e giorni di cammino, si domandò quanto mancasse all’incontro con il suo principe, e proprio in quel momento lo vide.
    Un giovanotto con un cappello di paglia e un fiero ronzino riposava sotto un mulino a vento.
    «Aspettavo che tu venissi da me, principe, però sai, ho pensato di venirti incontro. Non devi combattere…».
    Il principe rimase spiazzato, soprattutto dalla notizia di essere un principe: nessuno glielo aveva mai detto! «Ma, così non sarò un principe a metà?»
    «Forse non mi devi salvare, devi solo imparare ad amarmi» disse lei, speranzosa. Poi gli donò un sassolino blu che aveva raccolto durante il suo viaggio. «Se decidi di venire, mostra questo al drago; lui ti lascerà passare» e tornò al suo castello.
    Passarono i giorni, gli anni, e il principe non si vide. Gioiosa era diventata una donna saggia, buona e giusta, era ormai regina, perché il popolo la aveva eletta come loro guida, anche senza un re.
    Un giorno, arrivò al castello uno straniero e chiese udienza con la regina, e lei accettò di parlare con quello sconosciuto.
    «Mia amata, ti ho cercato in lungo e in largo, per monti e valli, e solo ora ti ho ritrovata. Andasti via, e io non sapevo il tuo nome e neanche dove fosse il tuo castello. Ora finalmente ti ho trovata!» Le mostrò il sassolino blu, che lei stessa gli aveva donato dodici anni prima.
    La regina Gioiosa divenne raggiante d'amore.
    Con una bellissima cerimonia i due si sposarono, e il principe divenne re. Vissero così per sempre, felici e contenti.
    Si dice che i festeggiamenti delle nozze di quel giorno non siano ancora terminati.

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    Raffaele Saba
    Rosellina e il Signore della Torre

    In un piccolo borgo, al nord dei Grandi Laghi, sorgeva altissima la bianca torre di un ricchissimo signore.
    Era avido e taccagno, amava stare tutto il giorno senza far nulla e mangiava in continuazione.
    I servi, per soddisfare la sua gran fame, preparavano gustosi manicaretti, golosissime torte con panna e marmellata, biscotti al cioccolato e deliziose crostate di mele.
    Il Signore della Torre aveva il pancione simile a un cocomero maturo e un viso tondo come un gran melone, il nasone che ricopriva quasi tutto il volto, due baffetti sempre unti, e la bocca grande e insaziabile. Portava una camicetta stretta, pronta ad esplodere per ogni sbadiglio.
    Il suo nome era Abbondanza.
    Un giorno, alla porta della torre, bussò una bambina dal nome di un fiore: Rosellina, che chiese di poter parlare con Abbondanza.
    Il Signore della Torre si mostrò gentile e compiaciuto alla vista della bambina, perché aveva notato il canestro, coperto da una tela bianca, che lei teneva stretto al fianco.
    «Dimmi pure, Rosellina, cosa posso fare per te?».
    «Sono stata mandata qui dal signore del paese, perché siamo molto poveri, il gran caldo ha distrutto i raccolti e non abbiamo da mangiare».
    Abbondanza, compiaciuto per la richiesta di Rosellina, si accomodò sulla grande sedia e meditò.
    Dopo qualche attimo rispose: «Piccola bambina, hanno mandato te al mio cospetto, perché avessi pietà di loro? Ebbene aiuterò i tuoi amici – guardando di sottecchi il fungo e gli asparagi che facevano capolino da un lato della cesta –, in cambio voglio dieci canestri come quello che porti al fianco».
    Rosellina, imbarazzata per la imprevista proposta, replicò: «E sia, tu cosa farai per aiutarci?»
    «Vi donerò dieci sacchi colmi, come quello che vedi all’angolo della dispensa, così potrete mangiare».
    Rosellina, vedendo che sopra il sacco chiuso dormiva una gallina, accettò con entusiasmo.
    Salutata la bambina, Abbondanza si tuffò nella cesta, levò il telo che la copriva, e gli occhi si riempirono di gioia. La cesta era colma di uova fresche, funghi, asparagi, fichi, fragole e tutto ciò che si poteva raccogliere nel bosco. Certo di aver fatto un ottimo affare, Abbondanza si rimise a mangiare.
    Il giorno seguente ordinò ai servi di riempire dieci sacchi con tutti i rifiuti del cibo, bucce di patate e piume di gallina. I servi caricarono tutto sul carro, in attesa dei paesani, per lo scambio.
    Avvenne la mattina dopo: il signore e dieci paesani, portarono le ceste colme, e fecero il baratto.
    Abbondanza in persona, aprì le ceste mentre si leccava i baffi. Soddisfatto da quei cibi, ordinò ai servi di preparare il pranzo.
    Giunti al paese, con in testa Rosellina, gli abitanti aprirono i sacchi e, vedendo il loro contenuto, esclamarono: «Abbondanza! La tua avidità è pari alla tua ciccia, volesse il cielo che il nostro cibo ti facesse scoppiare il pancione, come fosse un palloncino!».
    Rosellina, per essere stata presa in giro da Abbondanza, corse via piangendo.
    Il signore del paese invitò tutte le famiglie a raccogliere i fiori più belli dai campi e dai giardini, e di farne dieci mazzi per accompagnare Rosellina dal Signore della Torre.
    Rosellina bussò di nuovo alla porta, e Abbondanza, riconoscendola, disse: «Che cos'altro vuoi?».
    «Nulla, ti ho portato dieci mazzi di fiori, i più belli di tutti i campi e giardini».
    Il ricco signore si stupì per quell’inaspettato gesto e, guardandola dubbioso, replicò: «Perché mi doni dei fiori se io ti ho dato soltanto spazzatura?».
    Rosellina, piangendo e guardando negli occhi Abbondanza, replicò «Tu sei ricco ma avido, la nostra pancia è vuota, e tu volevi riempirla di rifiuti. Noi ti doniamo ciò che abbiamo: nei nostri cuori crescono solo fiori di campo e di giardino!».
    Rosellina girò le spalle all'intontito Abbondanza, e riprese fiera il sentiero di casa, pensando che anche nel cuore del panciuto poteva esserci posto per un bellissimo fiore.
    Il mattino seguente, gli abitanti del paese videro arrivare Abbondanza con un carro colmo di farina e ogni altro ben di Dio.
    A sera ci fu gran festa, tutti cenarono e cantarono, i bambini giocarono con Abbondanza che, felice, li teneva stretti sul suo pancione bucando, con gran rumore, tanti palloncini colorati.
    Rosellina finalmente abbracciò Abbondanza, che di nascosto asciugò le lacrime di gioia e soffiò il suo gran nasone.

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    Liborio
    Il diavolo non vince mai

    La gente? Uffa... che noia che è la gente. Quando passo, tutti si turano il naso: dicono che puzzo di zolfo.
    Io? Sì, sono un diavolo vero, io. Tutti i diavoli sono ricoperti di zolfo, ma lo zolfo non puzza, io non puzzo. Per la verità, ora le cose sono un po’ cambiate, e tutto per uno sciocco incidente. Sentite cosa mi successe tempo addietro, a ripensarci m’infiammo ancor tutto. Ora ve lo racconto.

    Tanto, tanto tempo fa, ero nella mia grotta e, mentre mi assicuravo che le fiamme del fuoco eterno restassero alte, aspettavo il ritorno di Frittorio, che era il giovane diavolo novizio, sbucato sulla terra per la sua prima esplorazione da solo. Ero stato nominato suo responsabile, dunque spettava a me aiutarlo a compiere la sua prima azione diabolica.
    «L’ho vista!» disse Frittorio, atterrando proprio davanti a me, quel giovane diavolo urlava in preda a un attacco di euforia.
    «Chi? – replicai adirato – Piuttosto spiegami il motivo di questo ritardo!».
    «Quella famiglia! È per causa loro che mi son trattenuto. Sembrano brave e buone persone. Troppo buone, per essere vere. Pensa: la sera si riuniscono intorno al tavolo e, dandosi la mano, si mettono a pregare. Ringraziano il loro Signor Iddio perché, nonostante la loro miseria, rimangono persone oneste. Li ho visti con i miei occhi. Che stupidi che sono, invece... Non sanno che mi impegnerò fino a quando non commetteranno un atto malvagio – poi mi guardò – posso, vero? Potrebbero essere la mia prova».
    «Sarebbe una bella impresa, faremmo proprio una grande impressione davanti alla commissione». Mi sentivo già orgoglioso di lui.
    «Avrei un’idea... Facciamo arrivare un gran gelo, dopotutto è ancora marzo. Di certo loro avranno così tanto freddo da aver bisogno di accendere il camino per scaldarsi. Per accendere il camino ci vuole la legna, la legna costa soldi, i soldi loro non li hanno. Come procurarsela in modo onesto, allora?» suggeriva malvagiamente il giovane diavolo.
    Questo Frittorio ne sa una più del diavolo, pensai e, detto fatto, mandò lì un freddo eccezionale, una gelida tramontana. «Ma tu controllali!» mi ricordo di avergli ordinato.
    «Un tipo con un grande mantello ha lasciato sull’uscio una cesta. Ha bussato e se n’è andato in fretta» mi raccontò il giovane Frittorio.
    «Chi è? E dopo che è successo?» lo interrogai.
    «Mi è sembrato un mendicante, aveva una cesta sotto il braccio, ed è andato a bussare alla porta. Quando la signora ha aperto l’uscio, ha trovato una cesta piena di legna, ma non ha visto nessuno; il mendicante era già sparito. Così l’ha presa e l’ha portata dentro» si giustificò Frittorio.
    «E tu? – lo incalzai – Che hai fatto, tu?».
    «Per la verità, mi sono avvicinato alla finestra per vedere cosa accadeva là dentro».
    «C’era proprio bisogno di esporsi, e correre il pericolo di esser visto?» lo rimproverai.
    «Non preoccuparti di questo: quando scende la sera e tutto intorno è buio, è quasi impossibile notarmi. Allora, stavo dicendo... Ho aspettato la sera e mi sono avvicinato alla finestra, e cosa ho visto? Un bagliore di luce accecante, proveniva dalla fiamma che ardeva vigorosa nel camino».
    «E allora, che c’è di strano? Anzi, significa che il fuoco presto si sarebbe spento e ben presto loro sarebbero stati costretti a procurarsi altra legna, magari rubandola; insomma costretti a commettere un peccato». Ricordo ancora il tono da presuntuoso che usai.
    «È la mia missione, e sono tornato lì per verificare. Ma, con mia meraviglia, il fuoco aveva sempre lo stesso bagliore; la legna accatastata nel camino, proprio come l’avevo già vista. Così l’indomani e così dopo una settimana. Quella legna non si consuma mai!» mi raccontò Frittorio, davvero triste e sconsolato.

    Ora eccomi qua, sono diventato diavolo di riserva, addetto alla mensa aziendale. Ma in cucina è pericoloso lo zolfo, quindi ora addosso a me ce n’è di meno.
    Frittorio? Lui non è riuscito a diventare diavolo, e allora ha dato le dimissioni...
    Ora vive quassù, tra le persone, le aiuta... Povero diavolo: è diventato buono come le altre persone... Grrr!

    Il_diavolo_non_vince_mai




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    mcb.


    La storia della sera

    «Questa è la storia di un bimbetto che aveva perso la mamma prima che potesse capire cosa avesse perduto. Il papà, una brava persona, poteva offrirgli poco del suo tempo, e quella mancanza segnò l'animo del ragazzo. Avrebbe voluto entrambi i genitori, ma non poteva.
    Fin dalla sua fanciullezza, una innaturale calma apparente lo distinse dagli altri della sua età. Un bel ragazzo che non aveva amici, ma non si rifiutava mai di aiutare il prossimo.
    Soltanto una cosa gli faceva difetto, l’assoluta incapacità di fondersi con ciò che lo circondava. Preferiva allontanarsi dalla realtà, per vagare in un mondo ricco di quei sogni e affetti che gli erano sempre stati negati. La vita lo spaventava e rinunciava così a ciò che gli sarebbe spettato. Anche coloro che prima lo aiutavano, pian piano lasciarono che percorresse da solo la sua strada… e, un brutto giorno, la morte del padre lo spinse ad allontanarsi dal suo paese, in cerca di qualcosa che non trovò mai. Così, attorno a lui, il vuoto divenne sempre più ampio.
    Per un po' di tempo visse assieme a un cagnolino che aveva trovato per la strada, ma poi fu preso da alcune persone che gli fecero molto male e la cosa andò avanti per molto tempo, fino a ché non riuscì a fuggire e nascondersi.
    Aveva pressappoco la tua età quando si trovò solo, non riuscì a farcela con le sue sole forze.
    Fu trovato da una maestra che lo portò nella sua casa, e lo curò.
    In molti lo incoraggiarono e aiutarono, ma lui non sapeva stare con gli altri e soprattutto il suo orgoglio gli impediva di chiedere un aiuto.
    Man mano che la malattia si fece più grave, comprese che non ce l'avrebbe fatta. Il suo cuore soffrì più del suo corpo e a un certo punto non volle più vivere.
    Fu salvato, ancora una volta, da quella generosa maestra, e alla fine la sua fibra forte riuscì a sconfiggere il male; accadde proprio quando nell’aria si iniziava a sentire il tepore della primavera.

    Le prime immagini che lo riaccostarono alla vita furono gli oggetti noti della sua stanza, ma soprattutto quel vaso sulla mensola di legno posta di fianco la finestra.
    Durante i lunghissimi silenzi delle giornate d’inverno, quando la malattia lo aveva tormentato, il suo sguardo si era posato spesso su quella mensola dove erano stati dimenticati alcuni vasi, da cui si ergevano pochi sterpetti senza vita.
    Con l’avanzare della buona stagione, un giorno, quando l’aria si era fatta più tiepida, benché su quei vasi non giungesse nemmeno un raggio di sole, il ragazzo iniziò a vedere alcune foglioline spuntare e ricoprire, come una peluria di velluto, quei tristi sterpetti. Seguì con trepidazione la lotta che l’esile piantina combatteva, per sopravvivere. Una mattina aprì gli occhi, e quando vide alcune di quelle foglioline intristire, e qualche rametto accasciarsi, ingialliti di morte precoce, né provò una tale pena da sentirsene male.
    In lui nacque forte il desiderio di fare qualcosa per aiutarla, magari spostandola dove il sole avrebbe potuto darle vigore, ma le sue forze non gli permisero di scendere dal letto. Pianse per la sorte avversa che aveva colpito la sua compagna e fu così grande il dolore per quella perdita, che il male riprese vigore, facendolo scivolare in un lungo delirio di sonno.
    Trascorsero molti giorni, e quando ormai anche i medici cominciavano a perdere la speranza di vederlo guarire, il ragazzo riaprì gli occhi. La prima cosa che volle fare fu di voltarsi per salutare la sua compagna, ma purtroppo la luce del sole lo costrinse a chiudere gli occhi. Quando finalmente trovò il coraggio per riaprirli, e scoprì che alcune coraggiose foglioline erano riuscite a lambire la parete e guizzare oltre il legno antico della finestra per affacciarsi ridenti verso il sole, egli gridò di gioia. Con quel poco di forze che erano tornate si alzò dal letto e versò nel vaso un po' d'acqua e poi tornò sfinito nel letto.
    Nei giorni di convalescenza, il ragazzo osservò con paziente curiosità la lotta che la piantina sosteneva per la conquista della luce del sole. E allora anche lui volle vivere. Da quel momento iniziò a combattere per conquistare la sua parte di sole, e quando guarì completamente, prima di uscire dalla stanza, si accostò ad accarezzare la piantina vittoriosa».

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    La stella di Natale

    Era la notte di Natale di tanti anni fa e io, laureanda della facoltà di medicina e chirurgia, appena iniziato il mio turno in ospedale, vidi avvicinarsi un bimbetto tutto infagottato nel suo pigiamone, che mi chiamò con la sua vocina lieve, tirandomi per il camice.
    Mi chinai su di lui «Dimmi tesoro, posso fare qualcosa per te?».
    «Tu sei un dottore?» mi osservava con attenzione.
    «Lo diventerò presto».
    «Tu fai guarire i bambini?» continuò con aria seria, da vero ometto.
    «Mi prendo cura di loro e prego che guariscano».
    Dopo aver riflettuto qualche istante sulla mia risposta, continuò «Puoi farmi crescere i capelli? I miei li ho tutti persi, e la mia mamma è andata in cielo a prenderne degli altri... ma ho paura che non riesca più a trovare la strada, non è ancora tornata» ammise sconsolato, guardandosi la punta delle pantofole.
    «Non aver paura, la tua mamma tornerà presto. Vieni, torniamo nel tuo lettino» cercai di tranquillizzarlo.
    «Aspetta dottore, aspetta! Questa è la notte di Natale?».
    Aveva occhi immensi, scuri come la notte e io mi persi in quel suo sguardo colmo d'ansia.
    «Sì, questa è la notte di Natale».
    Per un istante ebbi l'impressione che la mia risposta l’avesse colto impreparato, ma poi sembrò rasserenarsi, mi offrì la manina e mi trascinò fin nel corridoio, indicandomi con il ditino una finestra.
    «Vedi quella finestra? È chiusa... tu sei grande, puoi aprirla per me?» e finalmente accennò a un sorriso.
    «Amore, fuori c'è la neve e fa molto freddo. Perché vuoi che apra quella finestra?»
    «Perché devo indicare la strada alla mia mamma».
    «Non c'è bisogno di aprirla, tra poco la tua mamma sarà qui con te».
    «No! – rispose lui, scuotendo il capo – La mia mamma non può tornare se non l'aiuto io. Il mio papà ha detto che è lassù, sulla stella che si accende la notte di Natale, a cercare i miei capelli. Se tu non mi aiuti non potremo vederci».
    Non seppi cosa rispondere, così mi feci forza, lo sollevai tra le braccia e lo strinsi a me. Incrociai gli occhi di una suorina che ne sostituiva un’altra, e ci capimmo.
    «Vieni, – mormorai – ora si va alla finestra, e vediamo se riusciamo ad aprirla. Ma tu prima prega affinché io possa tornare bambina».
    Era una notte orribile, vento, grandine, neve e noi due lì, a guardare nel buio.
    Il piccino racchiuse il suo volto tra le mani e iniziò a bisbigliare alcune parole, poi scoprì il volto e guardandomi «Gli ho detto che vuoi tornare come me… Ora apri la finestra?»
    «Dottore, ma non si vedono le stelle» aggiunse, deluso.
    «Oh sì, le possiamo guardare anche attraverso il vetro, però bisogna fare molta attenzione, perché in questa notte le stelle le possono vedere solo i bambini dal cuore puro».
    «Per questo sei voluta tornare bambina! – esclamò – Dottore eccola! La vedi anche tu? Il mio papà aveva ragione, la mia mamma è lassù... Come posso fare per avere le ali? Io voglio volare da lei».
    «Non hai bisogno di avere le ali... – gli sussurrai, accostando le labbra al suo visino – Questa notte la tua mamma verrà».
    «Per favore, dottore, chiedi al bambino Gesù di indicare alla mia mamma la strada».
    «Ora proverò a chiederglielo... Ti prego Gesù, questo bambino rivuole la sua mamma... Tu che sei buono, permetti a quella mamma di tornare dal suo piccino».
    Speravo che la mia preghiera si esaudisse, e improvvisamente accadde qualcosa d’incredibile: la stellina, staccatasi dal cielo, stava venendo verso di noi.
    «Guarda dottore, la mia mamma sta arrivando! Puoi aprire la finestra dottore? Per favore... » chiese il piccolo.
    Così aprii quella finestra.
    Il vento gelido, la neve, tutto era cessato e nel silenzio un'intensa luce schiarì la notte, la stellina si posò lentamente sulla neve del davanzale: era fatta da cinque raggi luminosi, e in quella luce il piccolo riconobbe la sua mamma. Tutti gli altri presenti nel corridoio, che avevano ormai creato un capannello, videro tutto quel che stava accadendo. La suorina era scomparsa. Mi dissero che non era più in vita da due anni, e rimasi sbigottita.
    «Mamma!!! – gridò il piccino – sono qui, non m'importa dei capelli, resta con me per sempre!». La afferrò e se la portò al petto, stringendola forte forte. I raggi erano diventati petali rossi.
    «Grazie...» mi sussurrò la stellina.
    L'astro era diventato un fiore: una magnifica stella di Natale.

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    Showmaster
    Filippo e Astro

    Filippo era un ragazzo giovane e intelligente, da sempre un tipo solitario: non amava i posti affollati e le feste, preferiva invece passare il tempo a esplorare la natura incontaminata e a viaggiare. Tuttavia, non era mai solo durante le sue avventure: ad accompagnarlo c’era sempre Astro, un grosso cagnone dal pelo biondo che, nonostante le apparenze, era mansueto e affettuoso.
    Tra Filippo e Astro c’era un fortissimo legame di fiducia: i due non avevano bisogno di potersi parlare per sapere di essere i migliori amici di una vita, era sufficiente che si guardassero negli occhi, oppure che Filippo accarezzasse il folto manto dell’animale mentre questo si divertiva a bagnargli il viso con una serie di leccate.
    I due si erano incontrati per caso in una grotta, in cui avevano entrambi cercato riparo dalla violenta grandinata che imperversava quella notte. Inizialmente i due si tennero a debita distanza, temendo che potessero essere aggrediti, ma una volta sorto il sole, entrambi si resero conto che nessuno avrebbe mai osato fare del male all’altro. Da quel giorno non si separarono mai più: non ci fu montagna, foresta, steppa, deserto o terra ghiacciata che non avessero attraversato assieme, spinti dal desiderio comune di scoprire posti nuovi.
    Un giorno, però, mentre attraversavano una città che pareva desolata, Filippo e Astro vennero attaccati da un gruppo di uomini che riuscirono a separarli. I due amici sapevano bene –ahimè- come sarebbe andata a finire. Anche se non poteva sapere cosa fosse successo esattamente, Filippo non rivide mai più Astro, ma sapeva che il suo grande amico non era più in vita.
    Il ragazzo pianse diversi giorni, sentendosi privato di qualcosa di troppo importante per lui. Non trovando pace, viaggiò in lungo e in largo per incontrare Gaia, la leggendaria fata della natura.
    «Cosa ti ha portato fino a qui, coraggioso viaggiatore?»
    «Aiutami, ti prego» le disse, quando la trovò. «Il mio amico Astro è morto».
    «Questo lo so, io so tutto quello che succede agli esseri viventi – rispose la fata – Ma purtroppo è così che funzionano le cose oggi, mio caro Filippo… Gli uomini e gli animali si odiano, non possono convivere pacificamente».
    «Ma io e Astro eravamo diversi!» si lamentò Filippo, tra le lacrime.
    «Questo è vero. Il vostro rapporto era ammirevole, ma nessuno, purtroppo, avrebbe potuto capirlo»
    «Tu sei la fata della natura, riportalo in vita, in nome della nostra amicizia!»
    «Posso comprendere il tuo dolore – rispose la fata – Ma non posso fare quello che mi chiedi. Tuttavia, c’è una possibilità. Ti farò tornare indietro nel tempo e, se riuscirai a cambiare gli eventi del passato, Astro tornerà in vita».
    Filippo sprizzò gioia da tutti i pori quando ebbe quella notizia. Era pronto a fare di tutto per salvare il suo migliore amico.
    «Va bene, Gaia, riportami indietro nel tempo, e io e Astro non passeremo più da quella maledetta città!»
    «Fai attenzione Filippo, sei sicuro che questo sarà sufficiente? Così facendo salverai la vita di Astro, ma non quella di molti altri animali come lui».
    «Hai ragione– rispose Filippo –Allora cosa dovrei fare?»
    «Devi fare in modo che l’odio che ora scorre tra uomini e animali sia cancellato, ma dovrai tornare indietro di molti anni per riuscirci, a quando a morire per mano della paura dell’uomo non erano ancora cani, ma ragni, zanzare, cinghiali, topi, api e vespe».
    Filippo capì e accettò di tornare indietro nel tempo di moltissimi anni, fino addirittura al 2017. Il mondo gli apparve così diverso e così felice: c’erano moltissimi animali, addirittura anche in città! La cosa più straordinaria fu vedere moltissime persone portare a spasso un cane, e questo gli fece venire nostalgia di Astro.
    Il ragazzo rifletté a lungo, per poi decidere che avrebbe insegnato a tutti i bambini di quell’epoca passata quanto fossero buoni gli animali e che di loro non avrebbero dovuto avere paura. Decise di raccontare la sua storia nella speranza che quei bambini potessero imparare ad amare gli animali, anziché ucciderli.
    Per farlo, scrisse un racconto, su un libro che avrebbero letto centinaia, migliaia di bimbi di tutto il mondo.
    “Caro bambino, piacere di conoscerti. Mi chiamo Filippo e vengo dal futuro. Tu sei importante e d’ora in poi hai una missione da compiere: salva il mio migliore amico. Il resto della storia lo conosci già”.

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    Damjen

    Come si fa a diventare un nonno

    C’era una volta un nonno di nome Leo, che aveva sei anni. Come dici? No, no, aveva proprio sei anni. Sì, è vero, è strano: come fa un bambino a essere nonno?
    Be’, è presto detto
    ...
    Accadde una sera d’estate, quando il cielo è ancora chiaro da una parte, ma già dall’altra brillano le prime stelle; e l’aria arriva calda, e a volte fresca, come davanti al freezer mentre cerchi l’ultimo ghiacciolo. Forse per questo, nel momento in cui stava per diventare nonno, Leo aveva una gran voglia di ghiacciolo, ma questa è un’altra storia. Non credere che bisogna aver voglia di ghiacciolo per diventare nonni, anche se so per certo che molti studiosi hanno dimostrato che i nonni adorano i ghiaccioli.
    Ma... dicevamo: era sera ed era estate e il bambino che aveva sei anni e si chiamava Leo, camminava verso il parco con suo nonno, Paolo.
    Passeggiavano tenendosi per mano, come facevano ogni volta che andavano insieme da qualche parte, e sempre con un percorso nuovo, diverso ogni sera, proprio come fanno tutti gli esploratori che si rispettino. Per questo Leo e Nonnopaolo a volte passavano da via Scuola dei maghi, a volte da via Isola del tesoro. Una volta si erano addirittura addentrati in via Caverna dell’orco, ma avevano giurato di non correre mai più un rischio così.
    La sera in cui Leo stava per diventare nonno, lui e Nonnopaolo percorrevano via Pianeta degli alieni, ed erano quasi arrivati al parco schivando tutte le trappole, quelle marroni e puzzolenti con cui gli alieni cercano di sporcarti le scarpe, così tu le togli e loro te le rubano, quando Leo chiese: «Come si fa a diventare nonni?».
    Nonnopaolo, che teneva l’intera manina di Leo con un solo ditone, ci pensò per un attimo, perché i nonni amano riflettere bene su cosa dire, e difatti, dopo averla pensata ben bene, rispose: «Oh, è facile diventare nonni, in effetti»
    «Non bisogna fare tanti anni di scuola, come i dottori?»
    «No, non esistono scuole per nonni, bisogna imparare da soli»
    «Non sembra per niente facile» disse Leo e, in effetti, non lo sembrava per niente. Come si faceva a imparare da soli a pensare ben bene le frasi? Forse bastava aggiungere “in effetti” alla fine? E come si faceva a imparare da soli a tenere un’intera mano di nipote con un solo ditone? Forse ci volevano anni e anni di allenamento? Mentre pensava, Leo schivò l’ultima trappola marrone di via Pianeta degli alieni, e finalmente arrivarono al parco. Come tutti gli eroi che si rispettino, nonno e nipote avevano ancora indosso ognuno le proprie scarpe.
    Nonnopaolo si sedette alla panchina vicino alle altalene ma Leo, invece di correre alla rampa da cui lo lanciavano nello spazio ogni sera, salutò il resto degli astronauti che già erano in riunione vicino allo scivolo arancione, e si sedette accanto al nonno.
    «Ma quindi come hai fatto a diventare un nonno così bravo?»
    «Oh, mi ci è voluto un sacco di tempo»
    «Quanto?»
    «Tu lo sai quanti anni ho?»
    Leo ricordava che sull’ultima torta di compleanno del nonno c’erano otto candeline, ma non ci aveva creduto davvero che avesse solo due anni in più di lui, quindi scosse la testa.
    «Ne ho compiuti ottanta, che sono così:» aprì otto volte di seguito entrambe le manone, mostrando ogni volta tutte e dieci le dita.
    «Sono tanti»
    «Oh, sì»
    «E quanti anni ci hai messo a diventare nonno tutto da solo?»
    Nonnopaolo sorrise, e dopo un attimo di silenzio gli rispose. «Sai, io non ho mai avuto un nonno e così, quando avevo circa la tua età, ho deciso che un giorno sarei stato un bravo nonno».
    Leo guardò Nonnopaolo cercando di capire se stesse scherzando, come quando gli ricordava che la sua mamma, da piccola, aveva sette nasi. La mamma di Leo, in quei ricordi, era ancora così piccola che non sapeva contare e non credeva alle sue parole, così Nonnopaolo le contava tutti e sette i nasi, uno per ogni dito fino a sette, ogni giorno.
    Ma il nonno non scherzava, perciò Leo pensò ben bene.
    «Anch’io voglio diventare un bravo nonno, come te».
    Per questo, per imparare come si organizza un viaggio intergalattico in modo da poterlo un giorno insegnare ai nipoti, Leo baciò una guancia al nonno e corse dagli altri astronauti che erano ancora in riunione allo scivolo arancione.
    Questa è la storia di come Leo diventò Nonnoleo a soli sei anni.
    Solo più tardi, mentre rincasavano passando da via Polo Sud, diventò la storia di come Leo si mangiò un ghiacciolo.

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    Storia di una lacrima

    C’era una volta, e c’è ancora, una favola che nessuno finisce mai di raccontare. Succede quasi sempre di sera, dopo che le mamme e i papà di tutta la terra sono finalmente rientrati a casa, dopo che si sono tolti tacchi e cravatte, dopo che hanno cenato, ascoltato e parlato, si siedono sul bordo di un lettino soffice, davanti a un bimbo impaziente, per leggergli la favola della buona notte. Si ritrovano a sfogliare uno di quei libroni di favole che profumano di nanna, quel buon odore di lenzuola pulite, di latte mischiato col miele e di baci, e che frusciano tra le mani come le foglie di un albero mosse dal vento, e mentre li sfogli mandano sbuffi d’aria fresca come se le pagine fossero fatte di neve, e intanto spandono lampi di azzurro, giallo e rosa dalle illustrazioni di cui sono colmi. E così lei, la favola che nessuno finisce mai di raccontare, se ne sta lì da sola a frusciare, a profumare di neve e a lampeggiare tra tutte quelle mani di mamme e papà, sera dopo sera, aspettando il suo turno di essere raccontata, che però non arriva mai. E per questo, sera dopo sera, lei diventa un poco più triste. Questa è la storia di quella favola e della lacrima solitaria che la abita, rinchiusa all’interno della favola come un pesciolino in un acquario. Appena si legge oltre la parola che è perfettamente al centro della favola, che solo per uno strano caso è proprio la parola “cuore”, l’allegria e la dolcezza si sciolgono come neve al sole lasciando il posto alla tristezza. E quanto più la prima parte della storia suscita risate e tenerezza, tanto di più la seconda è piena di malinconia, proprio come succede a quelle persone che cercano di nascondere la tristezza sotto l’allegria, e più sembrano contente e più, in realtà, sono tristi. Per questo, una volta cominciata, nessuno finisce mai di raccontarla. Arrivati alla parola “cuore”, le mamme e i papà di tutta la terra si fermano, smettono di leggere e ne scelgono un’altra. Ognuno di loro se ne rimane con quel piccolo inizio di tristezza nel cuore, senza il coraggio di condividerlo col proprio bimbo. È solo un modo per proteggerli, in fondo, perché chi mai vorrebbe rattristare il proprio bimbo? Eppure, la favola che nessuno finisce di raccontare è un pezzetto d’anima che tutti possiedono; e come lei, tutti i pezzetti d’anima di tutto il mondo sono acquari abitati da un solo pesciolino, una lacrima che gira solitaria. E quella lacrima, ogni lacrima, non sparisce, nemmeno se fai finta di niente, neppure se non ne parli mai.
    Se tutte le mamme e i papà della terra scegliessero di raccontare tutta la favola che nessuno mai finisce di raccontare, forse tutti i bimbi piangerebbero. Forse le loro lacrime sgorgherebbero inizialmente come goccioline, poi come piccoli ruscelli e infine come fiumi. E così, forse, anche le mamme e i papà di tutta la terra piangerebbero, vedendo i propri bimbi piangere. Tutte queste lacrime uscite da ciascun pezzetto d’anima triste, attirate all'esterno dalla favola che ha sete di lacrime, scenderebbero su ogni guancia, poi cadrebbero a terra arrivando in breve tempo a riempire la stanza, su su fino al soffitto di ogni casa, e infine uscirebbero dalle finestre che diventerebbero così gli occhi piangenti delle case, per poi riempire le strade. Pian piano tutte queste lacrime andrebbero a mescolarsi con le lacrime di tutti gli altri che hanno finito di leggere la favola, formando un acquario sempre più grande, e poi un mare, e poi un oceano. Ma a quel punto succederebbe una magia. La favola che nessuno mai racconta smetterebbe di avere sete e diventerebbe un posto nuovo, grande come un oceano, in cui si nuota insieme, in cui ci si racconta tutto fino alla fine, anche le cose tristi. E pian piano, a ogni lacrima in più, a ogni carezza in più che l’asciuga, la favola che nessuno finisce mai di raccontare smetterebbe di far paura. Perché dentro tutti, che siano favole, mamme, papà o bimbi, abita una lacrima. Ma se la si racconta, se la si lascia uscire, se la si lascia andare a mischiarsi alle altre, se la lascia asciugare da una carezza, allora farà meno male.

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    Edited by Axum - 26/10/2017, 20:14
     
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