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Spalancai gli occhi. Buio. Un buio fitto, pesto, quasi denso e viscoso, che mi pesava sul viso come la nebbia del mattino, impedendomi di vedere qualsiasi cosa che non fosse quel nero così greve. Tanto era scuro, da farmi addirittura dubitare di aver aperto gli occhi. Per esserne sicuro, pensai di sbattere le palpebre, ma mi resi conto che questa azione era destinata a rimanere pensiero: i miei occhi non davano segno di volermi rispondere. Ma non perché fossero paralizzati in qualche modo, semplicemente mancava loro la voglia di muoversi. O meglio… Mancava a me, la voglia di muoverli. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a trovare in me alcun desiderio di smuovere quelle palpebre; era come se stessi benissimo così, ad occhi chiusi o aperti che fossero, immobile… Sì, immobile. Percepivo il mio corpo, disteso su una superficie imbottita e coperta di seta, con le mani raccolte sul petto e un velo sottile drappeggiato sul viso, eppure non volevo muovere nulla, come fossi talmente stanco da non avere la forza di destarmi dal riposo. Sentivo odore di chiuso, di fiori secchi, di legno e di stoffa. Cercai di ispirare meglio per comprendere dagli odori dove mi trovassi, quando mi accorsi che non stavo neppure respirando: pareva non avessi voglia di fare nemmeno quello, e non sembrava preoccuparmi la cosa. Eppure in qualche modo percepivo l’ambiente intorno a me, come avessi gli occhi aperti e ispirassi a pieni polmoni, come stessi toccando quella superficie coperta di seta su cui giacevo, quelle pareti che avvertivo con la testa, le braccia e le suole delle scarpe, quel soffitto vicino al naso… Ero in una scatola… Una cassa… Santo Cielo! Nella testa mi si affollarono immagini orribili: chili di terra sopra e intorno a me, altre casse come la mia a poche spanne, e in superficie lapidi, lastre di marmo e candele sulle quali parenti ed amici piangevano ignari che io fossi lì, vivo e vegeto, non ancora perduto come essi credevano… Sentivo già l’aria rarefarsi, sentivo le unghie raschiare il legno non appena quel maledetto torpore fosse passato, sentivo il terrore cieco sconvolgermi e dibattermi in quelle pareti di legno, sentivo la mia gola sventrarsi per le urla… Le urla, sì! Dovevo gridare, più forte che potevo, c’era la possibilità che fosse ancora giorno, che qualcuno mi sentisse e mi tirasse fuori! Da un punto imprecisato del mio petto immobile riuscii a estrarre una voce, con la quale diedi fondo alle mie richieste d’aiuto. Che le labbra si muovessero o no, che uscisse o no del fiato, poco mi importava: avevo una voce, e l’avrei usata tutta per uscire da lì. “Aiuto!” gridai con quelli che immaginavo essere pieni polmoni. “Aiuto! Sono qua sotto, sono vivo! Aiuto! Tiratemi fuori!” “Oh, smettetela per l’amor di Dio!” Le urla mi si bloccarono in gola. Chi aveva parlato? Certamente non io… No, era stata un’altra voce, una voce fonda e soffocata proveniente dalla mia destra. Per un po’ ci fu silenzio, poi un’altra voce più acuta e indubbiamente femminile risuonò al di là del legno, questa volta alla mia sinistra. “State calmo messere, o sveglierete tutti!” Io seguitai a tacere. Chi stava parlando? Ma dove mi trovavo davvero? Era davvero una cassa da morto quella in cui giacevo, ero davvero sotto metri e metri di terra? E allora di chi erano quelle voci? Non potevano essere altre persone interrate vive, o le avrei sentite almeno urlare, come me… E nessuna di esse mi avrebbe rimbrottato di svegliare tutti, né di stare calmo! Piano, raccolsi un po’ di coraggio e osai levare di nuovo quella voce priva di fiato trovata prima. “Chi mi parla? Chi siete? Dove siete?” “Siamo dove siete voi, figliolo” rispose la voce grave e polverosa di prima “sotto terra, nel Cimitero Capitolare di Gravere.” Sotto terra… Il cimitero… “Ma io sono vivo… Mi han sepolto prematuro! Devo uscire, o morirò qui!” “Ma siete già morto, messere…” rispose la voce femminile a sinistra. “Vi hanno sotterrato questa mattina. Se foste stato vivo, sareste già soffocato da tempo, e noi vi avremmo inteso scalciare e dibattervi come quella povera anima appena tre mesi fa, mentre voi non avreste inteso noi parlare.” “Ma allora… No, come può essere… E l’oltretomba dov’è? Non posso essere morto, io vedo, e sento, e parlo!” “Respirate?” chiese la donna, con snervante tranquillità e supponenza. “Beh… No…” dovetti ammettere io. Per quanto ci provassi, non sembravo in grado di compiere quel gesto così semplice. “Muovete labbra e lingua quando parlate?” chiese ancora la donna col medesimo tono. “No…” ammisi ancora. Diamine, nemmeno mi ero ricordato di avere una lingua! “Anche le mie palpebre sono immobili, se è questo che intendete chiedere ancora… Ma potrei essere stato paralizzato! Forse è catalessi! Forse…” “Figliolo, ricordate cosa avete fatto prima di ritrovarvi qua sotto a farci compagnia?” chiese la voce densa e greve alla mia destra. Scavai rapidamente negli anfratti dei miei ricordi, alla ricerca dei più recenti. Ricordai un sapore amaro, un giramento di testa, la vista annebbiata e un viso di donna, delicato, vivace, bellissimo. Ricordai un tappeto, voci concitate, braccia che mi sollevavano, pianti. Ricordai strumenti di ferro, mani che mi lavavano, mi vestivano e mi sistemavano come per una festa, ricordai il velo sul viso e sul corpo, e poi quella cassa rivestita di seta che mi accoglieva. Ricordai la mia cassa improvvisamente buia, il rumore del martello che pestava i chiodi, e poi gli sballottamenti di un carro, il coro e le preghiere, altri sballottamenti e infine un rumore ritmico e leggero che colpiva il coperchio. Ricordai di aver accolto con sollievo quel rumore, quello della terra sul coperchio. Ricordai di essermi abbandonato a quel sollievo, a quella quiete, come se non desiderassi altro nella vita che essere lasciato in pace là dentro, in una cassa sotto terra, a riposare tranquillo. E poi mi ero ‘svegliato’, con quell’atroce dubbio nella mente. “Io… Non posso essere morto… O sì?” “Messere, come ho già detto, se così non fosse non potreste sentirci. Voi siete morto. Come noi.” disse la donna, questa volta senza alcuna traccia di supponenza ma al contrario con sorprendente tatto. Morto… Allora era davvero questa la vita eterna, l’eterno riposo? “Ma dov’è l’oltretomba? Non sarà mica questa la vita eterna! Chiusi qua sotto per sempre, a guardarci decomporre… E’ orribile!” chiesi ai miei due compagni. “Davvero vorreste che ci fosse un’oltretomba?” domandò l’uomo a destra. “Davvero vorreste un posto dove camminare, correre, respirare, e soffrire tutte quelle altre fatiche che soffrivate in vita? Inizio a dubitare io che voi siate morto davvero… E se non vi stessi parlando e voi non mi steste intendendo ne sarei anzi sicuro.” “Credetemi, presto non vi dispiacerà più liberarvi da questa prigione di carne e di sensi,” aggiunse la donna “ e presto invocherete i vermi e la putrefazione anche voi. Questo dannato corpo è tutto ciò che vi impedisce di dormire davvero, che vi tiene in dormiveglia, in attesta che esso scompaia e vi permetta di riposare in pace…” “Quindi c’è questo dopo la morte… Il riposo… Solo questo, e nulla più…” dissi tra me e me, faticando a credere a ciò che mi stava succedendo. “E per fortuna direi!” seguitò la donna, stavolta con una nota più vivace. “Non siete stanco? Non ne avete abbastanza di quella maledizione chiamata vita? Di quella maledizione chiamata corpo? Non eravate sollevato quando la terra ha iniziato a coprire il vostro sarcofago, non eravate felice di poter finalmente stare in santa pace? Ah, beati coloro che finiscono arsi! Liberi fin da subito da questo fardello…” “Figliolo, vi devo dire, in vita avrei mandato alla malora costei che vi parla in questo modo dei doni del Signore, ma adesso non posso che condividere ciò che dice. Se il magistero che ho servito per molti lustri mi avesse permesso di essere arso e ridotto in cenere, non avrei potuto chiedere di meglio… In vita disprezzai gli eretici puniti col rogo, e in morte mi ritrovo ad invidiare la loro fine! Se non è ironia della sorte questa…” Dunque era così. Ero morto e sepolto, e un prete e una donna erano morti e sepolti accanto a me. E per molto tempo, per anni, forse per secoli sarei rimasto tra quelle quattro assi, ad attendere la liberazione di cui quei due andavano favoleggiando con tanta trepidazione e che io, sotto sotto, iniziavo a comprendere. La prospettiva di stare lì, nel ventre di Gravere, ad attendere che i vermi e il tempo pasteggiassero coi miei resti nella tutto sommato confortevole sicurezza della mia inviolabile cassa, in un certo senso mi tranquillizzava più della prospettiva di essere stato sepolto vivo e dunque di essere fortuitamente estratto da lì e rigettato nel caos della vita mortale. Ormai ero morto, e ne ero anche sollevato! Finalmente potevo stare in pace, senza più tasse, lavoro, cibo, malattie, sofferenze, paure, ansie, amori e passioni, senza rischi, senza doveri e oneri, senza nient’altro se non il legno della mia comoda cassa e la seta dei miei abiti più eleganti. “Messeri” dissi ai miei due compagni “se così deve essere, allora vogliate accettare le mie scuse per avervi turbati con le mie urla.” Intesi due risatine, una fonda e tetra a destra e una più argentina e melodiosa a sinistra. “Sì, è stato inopportuno…” convenne la donna “Ma lo siamo stati anche noi a nostro tempo, dunque non crucciatevi e non pensiamoci più… Piuttosto, diteci chi siete e come moriste! Siamo ansiosi di conoscere come quello che intendo essere un giovane nel fiore degli anni sia giunto così presto qui sotto…” “Oh, per l’amor di Dio, Violante!” la rimbrottò il prete. “Sì” ribatté la donna “per l’amor di Dio! Ormai siam desti, di qualcosa dovremo pur parlare!” Poi si rivolse a me. “Dite giovanotto, chi siete, e cosa vi portò qui da noi?” Risposi di buon grado a quella domanda, come non vedessi l’ora di lasciarmi cogliere da quella situazione così surreale per farne interamente parte, per essere in tutto e per tutto cadavere tra i cadaveri. “Sono Michele Dornesi, ultimo dei conti di Vignano. Mi portò qui il veleno, del quale accettai la guida per amore di una donna… Una donna che vidi solo dipinta, in quanto il suo corpo giacque sotterra un secolo or sono. E io, credendo con la morte di raggiungerla, mi feci questo.” “Siete un suicida?” la voce del prete sembrava voler trasudare ribrezzo, tuttavia riuscì solo a suonare dispiaciuta. “Non dovreste essere in terra consacrata… Chi ha commesso il sacrilegio di seppellirvi con noi?” “Ah, ma questo è presto detto!” si aggiunse una voce immediatamente dietro la mia testa. Una voce baldanzosa e giovane, seppure segnata dal torpore che, a ben sentire, ammantava tutte le voci che avevo sentito finora. “Il nostro conte qui” proseguì colui che giaceva nella tomba dietro la mia “vista l’enorme fortuna che avrà lasciato dietro di sé, si sarà in qualche modo guadagnato un posto in Purgatorio con qualche bella scucita di danari, e adesso eccolo qui!” “Oh tacete, Tommaso!” lo zittì stizzita Violante. “Voi siete volato giù da un campanile e vi siete rotto la testa per una delle vostre bravate… E la vostra buona madre non ebbe danari da scucire per farvi tumulare qui, nonostante il vostro sia stato anch’esso un suicidio bello e buono!” “Bello e buono mica tanto, la mia zucca fracassata fece male e da quanto fece male immagino fece anche disgusto!” ribatté risentito il ragazzo, poi il tono si fece leggermente più aspro, pur restando simpaticamente mascalzone. “Almeno però non penzolò da un cappio per ciarlataneria… Vi uscì l’Appeso, l’ultima volta che vi leggeste le carte?” “Farabutto impertinente!” protestò la donna. “Le mie carte vedevano il vero, per questo mi hanno appesa alla forca! Madonna Violante Favelli non è una ciarlatana, e se quella smorfiosa di Caterina Ricasoli di Maneggio ha da ridire che possa raggiungermi qui sotto! E voi, messer conte, voi” disse rivolta a me “non ricordate? Il bacio di fiele d’una donna irraggiungibile vi strapperà il fiato dal corpo e il battito dal cuore… Io mi ricordo, conte Dornesi, io vi profetizzai questa sorte diversi mesi or sono! Voi non ricordate?” “Ah, ma smettetela! Ha appena raccontato come è morto, l’avete inteso solo ora…” la schernì ancora Tommaso, ma io intervenni. “Tommaso, ancora, tacete… Io ricordo madonna, ricordo eccome… Vestivate di viola e stavate nel capanno di Via degli Scalzi, dove io passai per caso durante una passeggiata con amici… uscirono l’Imperatrice, gli Amanti e la Morte, ricordo bene quelle sciagurate carte, meglio di quanto ricordassi la vostra voce… Che vi è capitato, e quando?” La cartomante, quasi tra sé, prontamente spiegò: “Appena sette mesi fa una contessa vostra pari passò da Via degli Scalzi proprio come voi… Le predissi una sciagura imminente, e quella per ripicca mi denunciò per stregoneria al viceré, che mi condannò all’impiccagione. Mi pentii il giorno dell’esecuzione, per questo mi seppellirono qui. Mi rincresce che lor signori debbano spartire la terra con una ‘strega’, ma tant’è.” “Madonna” dissi, un po’ stancamente e un po’ sinceramente “per me è un piacere rincontrarvi qui. Chi foste e come siete arrivata qui non ha più importanza, non è che una storia curiosa da raccontare per ingannare l’attesa di questa lunga eternità polverosa. Io sono un conte, eppure per gli oscuri disegni della sorte giaccio tra un prete, una cartomante e uno scavezzacollo di borgata. Davvero la morte non fa distinzioni…” “…disse chi s’ammazzò per un quadro prima di calcare un campo di battaglia.” mi interruppe una voce grave e autoritaria dall’angolo destro del sarcofago, là dove intuii esserci una tomba nell’angolo tra il prete e lo scavezzacollo di strada. “Altolà, compari! Abbiamo destato Sua Eroicità l’ufficiale Luciano Cravero, del V Reggimento coloniale di stanza a Dairago, valorosamente morto per la patria con una picca indigena andatagli di traverso! Salute a lui!” annunciò con tono esageratamente pomposo Tommaso, cui fu intimato per la terza volta di tacere. “Ah canaglia insubordinata! Strozzati con la lingua! Dovevi essere al fronte con me, tu che nascesti appena il giorno dopo il mio! Ma no, la tua santa madre riuscì a farti passare per matto per salvarti la vita… E tu da bravo matto quale sei l’hai gettata dal campanile del Sacro Cuore, quella tua vita!” sbraitò l’ufficiale, con quello che in vita sarebbe stato un gran vocione tonante e che ora si levava intorpidito e segnato da un sommesso gorgoglio… Che fosse lo squarcio apertogli sulla gola dalla lancia nemica? Prima che potessi domandare al soldato di più su come fosse finito là sotto, udii un’altra, flebile voce di donna, o di ragazza. “Non rimbrottate il mio amico, messer ufficiale… Lui è così, ha mille diavoli in corpo…” “Ah! Ecco, ecco un’altra delle vostre pazzie, per ironia della sorte sepolta proprio nella tomba accanto a voi!” esclamò sprezzante Luciano Cravero. “Lo credo bene” ribatté acido Tommaso, con un’inflessione lugubre nel tono “fummo migliori amici in vita… Mai avreste dovuto seguirmi in quella palude Elisa, mai! Non avreste patito una morte così orribile, se foste rimasta a casa…” “Ti ho perdonato già mille volte, Tommasino… Ma non fosti tu ti dico! Fu la malaria, la malaria e il medico che mi diede per morta prima del tempo…” Prima del tempo… Ricordai che Violante, nello spiegarmi che ero morto, aveva accennato ad un’anima sventurata sepolta viva tre mesi prima; che fosse quella ragazza dalla voce così debole? “Madonna Violante, piuttosto chiedo io il vostro, di perdono…” proseguì Elisa, con una nota affannata nel tono. “Avessi mentito alla mia padrona, voi sareste ancora viva…” “Elisa, vi dissi io di essere sincera… La contessa correva davvero un grave pericolo, con quel dongiovanni di cui era invaghita… Voglio solo sperare che dopo avermi consegnata al boia abbia avuto il senno di ascoltarmi, ma se non lo fece che il diavolo se la porti!” rispose con noncuranza Violante. Avevo mille domande a vorticarmi per la testa… Volevo domandare a ciascuno di più, perché ciascuno aveva parlato a sprazzi di ciò che gli era successo ma nessuno aveva esaurito la mia rinnovata curiosità riguardo a quelle salme. E dire che mai in vita mi sarei messo a lambiccarmi sulle storie dei morti… “Ufficiale Cravero” disse il prete fino a quel momento rimasto in silenzio “è da quando conobbi il vostro nome, il giorno in cui vi seppellirono, che sono angosciato da un dubbio…” “E allora parlate prete, di che si tratta?” rispose il militare con una gentilezza che suonò stizzita. “Voi discendete per caso da un tal messer Amedeo Cravero, un mercante di tessuti venuto qui da Torino a cercar fortuna nella colonia?” domandò la voce fonda del curato. “Certo, fu mio bisnonno,” confermò l’altro “il primo industriale di Gravere!” “Colui che acquistò dal vescovo l’intera missione di Sant’Antonio per poi cacciarne i religiosi e installarvi una fabbrica tessile?” “Certo… Ohibò, non sarete mica stato tra i preti di quella missione?” “Pare proprio di sì, ufficiale…” confermò il prete, senza però alcuna traccia riconoscibile di astio per l’accaduto. “Morii di gotta allo Spedale di Carità… Ma noi preti si sa, ci piace morire di stenti per sentirci più prossimi al Signore…” “Questa è proprio bella…” disse con sorpresa Luciano. “Era proprio destino che mi interrassero dietro di voi…” E non era la prima coincidenza fortuita, mi trovai a pensare anch’io; forse era un caso che mi avessero sepolto accanto alla cartomante che mi aveva predetto il futuro, forse lo era che costei riposasse adesso dietro alla serva di colei che l’aveva mandata al patibolo, e forse era voluto che la serva e il suo migliore amico trascorressero l’eternità uno accanto all’altra… E passi anche che lo scavezzacollo e l’ufficiale dovessero far parte guardacaso del medesimo reggimento… Ma che addirittura l’ufficiale e il prete morto a occhio e croce un secolo prima avessero quel curioso legame… Allora l’unico anello mancante era quello che congiungeva me al prete! Possibile che vi fosse anche questa coincidenza? Cosa poteva mai legarmi ad un prete morto più di cent’anni prima che io nascessi? Non restava che verificare. “Reverendo” domandai al mio vicino, il primo ad avermi rivolto la parola da quando ero finito là sotto “perdonate la curiosità, ma… Quale fu in vita il vostro nome?” Attesi, trepidante, indeciso se provare inquietudine per ciò che stava per rivelarmisi o piuttosto divertimento per quella bizzarra e grottesca situazione. Attesi, con l’ansia di trovarmi sepolto accanto a un carnefice di un qualche mio antenato, o come per l’ufficiale di una vittima… “Perdonate la scortesia, figliolo” fece il prete “non ho avuto la decenza di presentarmi prima… Fui in vita Porzio Sermoneta, nato conte di Belriguardo e morto abate della ex missione di Sant’Antonio a Moncalieri Nuovo…” “Belriguardo!” esclamai incredulo. “Proprio Belriguardo… Dite, cosa sapete della contessa Caterina di Belriguardo?” “Ebbi una cugina con quel nome…” rispose il prete con una calma che suonò quasi saputa “Una bella ragazza, dai capelli mossi e castani come l’autunno e occhi di un castano altrettanto vivace, che a loro tempo stregarono persino i pennelli di un pittore… Che tuttavia non riuscì a mostrarle il suo lavoro finito per un soffio: la poverina cadde stroncata dalle febbri malariche proprio mentre l’artista dava l’ultima pennellata di lapislazzuli al suo vestito azzurro, o almeno così raccontò egli… Una triste perdita, ricordo la mia famiglia in lacrime…” Più il religioso parlava, più nella mia testa si andavano delineando quei dolci tratti che Porzio Sermoneta ancora sembrava ricordare alla perfezione, e che io vedevo oramai davanti a me, come fossero velati dal solo buio della mia tomba. “Reverendo padre…” lo interruppi, intorpidito da quell’inattesa epifania. “Vostra cugina…” “Figliolo, morì più di cent’anni fa, non potete…” “Vostra cugina” insistetti “fu la donna che mi portò quaggiù. La donna del ritratto.” Silenzio. Tutti tacquero. “Sì, è la donna di cui mi sono infatuato,” declamai lentamente “cugina del prete morto di stenti a causa del bisnonno di un ufficiale, che al fronte necessitava di un mascalzone di strada sfuggito alla coscrizione e causa diretta della malaria di una serva della donna che mandò a morte la cartomante che mi predisse il futuro.” Stemmo tutti in silenzio per un poco, con quel curioso e macabro cerchio di coincidenze che vorticava inquietante su di noi simile a una lancetta d’orologio. “Chi di voi… L’avrebbe mai immaginato?” chiese Violante a un certo punto, frastornata e allo stesso tempo affascinata da tale lancetta. “Fior di coincidenza, devo ammetterlo” fece Cravero tra il turbato e il noncurante “ma ciò non cambia il fatto che adesso siamo qui, morti, e da bravi morti dovremmo tacere e riposare.” aggiunse poi sbrigativo. “Questo ghigno apertomi sulla gola da quel dannato negro (peste lo colga!) comincia a formicolare…” Nessuno si prese la briga di spiegarmi cosa volesse dire il formicolio dell’ufficiale, anche se non mi fu difficile intuirlo vista la nostra condizione. Due o tre sospiri e qualche flebile rantolo annoiato misero fine alla prima della lunga serie di conversazioni che avrei avuto coi miei vicini finché il sonno eterno non ci avesse chiuso per certo gli occhi. A ben vedere sarei stato l’ultimo a raggiungere quel sonno, mi trovai a pensare… Ma del resto, ero l’ultimo arrivato. Ero l’ospite che, scusandosi per l’ora tarda, aveva messo fine ai convenevoli e avviato quell’elegante ricevimento fatto di seta, fiori e abiti scuri che la sorte aveva organizzato per noi quando ancora un cuore ci batteva in petto. “Beh, tutti tacciono?” squillò ancora la voce di Tommaso dietro di me. “Ah, magari fossi di quei tutti…” sbuffò Violante, strappandomi un colpo di risata. Poi davvero tutti tacemmo. Ah, il riposo, dolce, eterno riposo…
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