Il rifugio dello scrittore

Passi

Racconto di una giornata vissuta da educatore con una fantastica ragazzina autistica

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    M. è ormai una ragazzina. Quando l'ho conosciuta, qualche anno fa, era una bambina bassina e paffuta, con i capelli a caschetto neri che facevano da cornice a un viso dolce e con una perenne espressione di meraviglia. Oggi ha ormai 13 anni. Mi sembra passato un secolo da quando me la caricavo sulle spalle come se nulla fosse e la facevo sobbalzare nei momenti di crisi che già da piccola la colpivano imprevedibilmente.

    M., come tanti altri dei bambini di cui parlo in questo contesto è un soggetto che rientra nello spettro autistico, in particolare è una ragazza non verbale, con un livello di gravità massimo.

    Negli ultimi anni in questa ragazza, mi permetto ormai di chiamarla così, c'è stato un peggioramento in tanti aree, da quella comportamentale a quella alimentare. I momenti in cui la frustrazione e l'angoscia prendono il sopravvento su M., quasi da quando è nata, sono passati da pianti di pochi minuti con gesti autolesivi a crisi eteroaggressive che durano per interi quarti d'ora. Sono ombre che la seguono, definite sotto il sole accecante degli anni adolescenti di M.

    I farmaci riescono a ridurre la frequenza delle emergenze, ma rimane un caso complesso sia a livello medico che educativo che emotivo. Le stesse pastiglie hanno anche fatto aumentare il peso della ragazzina, portandola a un indice di massa corporeo pericoloso. Ovviamente avrebbe bisogno di fare degli esami del sangue, ma l'ultima volta che ci avevano provato, la mamma e gli infermieri non erano riusciti a contenerla il tempo sufficiente per un prelievo.

    Ci troviamo a un paio di estati fa: ho già lavorato con M. diversi anni di fila in una fattoria didattica, ma quest'anno le sue condizioni non le permettono di stare serenamente in mezzo a così tanti altri bambini e ragazzini. Per sollevare un minimo la madre dalla routine quotidiana, per permetterle di andare al lavoro e di fare almeno una spesa, questa estate è stato deciso che sarei andato io al domicilio. qualche giorno, ogni settimana, tranne che nei weekend, percorro in macchina i pochi chilometri che mi separano dal paesino in cui vive M. e ci passo assieme la mattinata.

    Fa caldo. Si respira a fatica anche con il finestrino abbassato. E' un luglio incandescente.

    Arrivo al borgo in cui abita M. e parcheggio davanti al complesso residenziale in cui vive. Chiudo la vecchia macchinina nera che mi accompagna quasi dal giorno della patente e percorro, accaldato, gli ultimi metri che mi separano dal campanello e suono.

    "sono Oscar" dico al citofono "buongiorno"

    Dall'interfono sento la voce della madre di M che mi saluta e mi invita a entrare; di sottofondo le grida della ragazzina, chiaramente in un momento di distress.

    Entro nell'appartamento e M sta venendo vestita dalla mamma nel bagno. Resto nel salotto e mi guardo in giro: quasi tutte le librerie sono ricoperte da volumi di scuola che usa la madre, una maestra, e quasi tutto è stato messo in sicurezza, a prova di M. Quando le ombre si allungano e vengono i momenti bui è capace di afferrare e lanciare qualsiasi cosa le capiti sottomano. Non posso fare a meno di pensare se ci fosse un maggior equilibrio nell'universo, un bilanciamento leggermente più corretto, allora lei quei libri li userebbe per studiare e non come oggetto di sfogo.

    I miei pensieri vengono interrotti dal rumore di vetro che si rompe proveniente dal bagno.

    "no M, no." sento dire la mamma della ragazza "questo era un regalo di nozze, perchè?". La voce è rotta dall'emozione.

    M risponde con un grido acuto seguito da una risata isterica. Percepisce lo stress della madre, mi azzarderei a dire che ne soffre, ma ne rimane ospite partecipe, incapace di porgere le proprie condoglianze.

    mi avvicino al bagno: "tutto bene?" chiedo "Serve una mano?"

    "Ha fatto cadere un regalo di mio marito" mi spiega la donna, era un piccolo oggetto in cristallo, ci tenevo" le lacrime iniziano a solcarle le guance.

    Cerco di darle un attimo per elaborare la cosa e prendo per mano M "Vieni, andiamo a mettere le scarpe noi".

    L'immagine di quella donna che raccoglie i frammenti di un passato ormai lontano, mentre piange, di un pianto quieto e solitario, non mi lascerà mai la testa.

    La routine mattutina della ragazzina si è ormai conclusa: ogni giorno la mamma la lava e la cambia per la giornata, dedicandosi a sistemarla dall'acconciatura dei capelli alla disinfezione dei profondi segni sulle mani dovuti ai morsi autoinflitti.

    Mentre M si infila le scarpe scambio due parole con la madre: cerco di confortarla, ma sembra che le mie parole cadano nel vuoto, inoltre non sono ancora sicuro di come passare il tempo con la ragazza in modo tale da non farla annoiare ed evitare crisi.

    La conosco da anni, come dicevo, ma non sono abituato a vederla nel suo ambiente domestico: so che ama guardare i cartoni, soprattutto Peppa Pig, programma da cui ha imparato la maggior parte delle espressioni e delle parole che ripete in maniera disorganizzata, ma non voglio piazzarla davanti alla tele.

    "Le piace tanto camminare, si calma" mi dice la madre "falle fare due passi".

    Chiedo le indicazioni per arrivare alle stradine di campagna che tagliano tra i campi, tutto chiaro.

    prendo la manina di M. e saluto la mamma, vorrei abbracciarla.

    "tornate pure per le 11.30, dovrei essere riuscita ad andare a fare la spesa e a passare in posta per quell'ora".

    Non sono ancora le 9: abbiamo circa tre ore da passare insieme.

    Usciamo di casa con M. che, camminando, continua ad alternare piccole grida a espressioni ecolaliche provenienti chissà da quale cartone.

    Vedo con la coda dell'occhio una vicina che ci fissa dal giardino, sembra incuriosita: un tizio tatuato e accaldato che trascina per mano una ragazzina urlante deve essere una visione quantomeno peculiare di prima mattina.

    Attraversiamo quasi tutto il paese per arrivare all'imbocco del sentiero di campagna. Durante il tragitto gli sporadici strilli di M. attirano l'attenzione della gente dalle finestre.

    Io le continuo a parlare in tono rassicurante, indicandole ogni cosa a cui passiamo vicini che penso potrebbe attirare il suo interesse.

    "guarda piccola, un cane, guarda che bello. salutalo un po'. dì ciao ciao".

    M alza la manina e accenna un "ciao" mezzo masticato.

    scusate se la chiamo piccola nonostante la sua età, ma per una parte di me rimarrà sempre la bimba dagli occhi grandi e dal sorriso sincero che era. Cammina sulle punte, mi tira la mano e indica i diversi cartelloni posti lungo le strade per il pallio del paese.

    Tra le poche parole che pronuncia, ce n'è una che incute uno strano timore in ogni educatore che la abbia mai seguita: me ne parlò la dottoressa A. una delle prime volte che vidi la bimba. Quando M dice la parola "arcobaleno" per qualche strana associazione mentale avvenuta forse in un'epoca recondita durante la sua infanzia, è chiaro, per chi la conosce, che sta per avvenire una crisi.

    Non saprei dare una spiegazione del perchè questo fonema sia stato legato, nella mente di M. ad un senso di angoscia e frustrazione, ma non ho mai smesso di incuriosirmi. Per qualche ragione nella mente di quella personcina il suono e l'immagine di un arcobaleno portano a indicare una condizione di forte distress. Mi chiedo se ci sarà mai una risposta chiara.

    Di M. mi hanno sempre colpito le modalità delle emergenze: in quasi qualsiasi altro bambino che mi sia mai capitato di seguire i turbamenti anche quotidiani riconoscevano delle ragioni quanto meno intercettabili e visibili: frustrazione, rabbia per non essere riusciti ad ottenere qualcosa, per un "no, non si fa" o per qualche altro intervento esterno sia umano che non, ma con M. è diverso: il viso placido si può trasformare in poche frazioni di secondo in una espressione di pura angoscia, di quasi dolore che la ragazzina prova per un pensiero che le ha attraversato la mente, ma che rimane confinato nel suo tempio di irraggiungibilità.

    All'inizio dello studio dell'autismo un certo Bettelheim propose una teoria, della cosiddetta "fortezza vuota", e tra lui e altri studiosi si diffuse l'idea che l'autismo infantile fosse dato da una chiusura totale al mondo esterno, troppo difficile e doloroso per il bambino (ai tempi Bettelheim usava il termine "madri frigorifero", per indicare figure genitoriali fredde e non capaci di dare l'accudimento necessario allo sviluppo del bambino, che quindi si chiudeva nel suo autismo).

    oggi ovviamente le cose sono del tutto cambiate e ci sono ancora varie ipotesi in merito alla base biologica dell'autismo, di cui forse una delle più accreditate è sicuramente la radice genetica di esso, ma sono studi che stanno trovando il loro sviluppo in questi anni.

    L'idea di chiusura mi torna utile però per spiegare la sensazione che si prova a vedere M. durante una delle sue esplosioni: assistere una bambina che si getta a terra, urla, piange e si morde compulsivamente le mani mentre spinge e colpisce la madre, fin al bisogno del contenimento fisico, mette innanzitutto la paura che possa farsi male, ma secondariamente fa sentire impotenti, soli nel tentativo di aiutarla in qualche modo.

    appena arriviamo alla stradina di campagna la situazione cambia radicalmente. è sempre così, anche nei giorni successivi. è probabile che la concentrazione del dover camminare, coordinandosi sullo stretto terreno dissestato sia in grado di occupare abbastanza la testa di M. da ridurre il numero delle angosce che spesso ne prendono il sopravvento.

    adora camminare all'aperto, nonostante sia di norma una ragazza abbastanza pigra, che ama stare davanti alla TV con la tuta o il pigiama a guardare i cartoni, ma ha la fortuna di avere una famiglia che non le ha mai rifiutato una chance: dalla pet therapy ai farmaci, dalla ippoterapia ai centri specializzati e che ancora oggi non perde la speranza di poter donare un poco di pace alla figlia, di tenderle una mano per accompagnarla durante il percorso di crescita.

    Ci avviamo lungo la stradina, alla nostra sinistra un campo di grano, dalle spighe alte e gialle, alla destra altre coltivazioni, separate da un largo fosso pieno d'acqua.

    Mi pongo alla destra di M. per evitare che rischi di inciampare nel canale di scolo e finalmente, usciti dal paese, le lascio la mano. Appena se ne accorge accenna qualche salto di una corsa scoordinata, accompagnata da movimenti ampi delle braccia, come se stesse cercando di catturare delle lucciole brillanti di una lume che solo lei riesce a vedere.

    Io le parlo per circa tutto il tempo della passeggiata, ovviamente M. essendo non verbale, risponde solo con alcune parole stereotipate, parole che a seconda della intonazione e della ritmica possono comunicare, a chi le sa ascoltare, uno stato emotivo altrimenti di difficile comprensione.

    Nei rari momenti in cui taccio la osservò: è alta per la sua età, con i capelli corti, come quando era bambina, pelle candida e pulita, con una maglietta stretta, tirata sull'addome, ha dei pantaloni corti fin sotto al ginocchio, di colore nero, completamente sporchi di polvere sul retro per i numerosi momenti in cui ama sedersi per terra.

    Il mio sguardo si ferma: le braccia di M. sono coperte di lividi e segni di morsicamento, soprattutto a livello delle mani che sono punto prediletto della ragazzina nelle azioni di autoaggressività durante le esplosioni comportamentali-emotive.

    mi giro a guardare un trattore che si dirige nella nostra direzione, prendo M per mano e sorridendo le spiego che dobbiamo metterci di lato, far passare il grosso macchinario.

    Quando ormai è vicino a noi, lo sguardo della ragazzina viene catturato dalle enormi ruote del veicolo che ci passano davanti. Tenta di allungare un braccio per toccarlo, ma la fermo "No, guardiamo e basta. hai visto che bello che è? tutto verde. grande, vero?".

    La scampagnata prosegue per circa 2 ore: ci fermiamo a giocare con la sabbia, a lanciare i sassi nel fosso e a strappare un pochino di fresca erba verde. Camminiamo e a ogni passo M mi sembra più serena, sembra che a ogni piccola falcata possa, per un attimo essere solo una ragazzina, come se si stesse allontanando dai suoi stessi pensieri.

    ha un'andatura sgraziata, infantile, che alterna momenti di quasi staticità ad esplosioni motorie in cui accenna delle piccole corse.

    incontriamo un paio di persone che osservano con curiosità la nostra strana danza lungo il sentiero.

    Ogni volta che poggia un piede per terra, facendo seguire il movimento da una risatina dispettosa, non posso fare a meno che seguirla, in quel movimento ciondolante, quasi fatato. Passo dopo passo è come se anche io mi allontanassi dal nervosismo e dai problemi della quotidianità, lontani ormai dalla città con il suo via vai, ci troviamo ora persi, nella pianura infinita, costante e ridondante nella sua placidità.

    Mi sento felice, certo sento l'adrenalina dell'avere la responsabilità di questa vita in parte tra le mie mani, ma sono sereno. passo dopo passo.

    M. si piega a raccogliere un sasso: lo soppesa e lo osserva, con un investimento tattile che la coinvolge completamente,

    Mi suona il telefono: è la madre di M.:"siete ancora in giro? noi abbiamo finito la spesa quindi se volete tornare ci siamo"

    rispondo che nel tempo di meno di un'ora saremo indietro e saluto. dobbiamo tornare alla realtà entrambi.

    metto giù il cellulare e mi fermo in mezzo al sentiero. M. sta ancora procedendo, osservando le proprie scarpe che sollevano la sabbia e ridendo con un suono puro, immacolato.

    La chiamo.

    Inizialmente non si gira. "M., ciccia dobbiamo andare a casa. E' arrivata la mamma"

    Non so quale delle parole pronunciate abbia avuto effetto, ma la ragazzina si gira, mi fissa, ride e si siede per terra.

    Rido anche io.

    Cammino verso di lei e le tendo le mani "dai, su forza, in piedi" M. mi afferra i polsi e si issa da terra, la spolvero e la guardo.

    ha gli occhi socchiusi, un sorriso aperto sulla bocca e i capelli scompigliati.

    Sorridendo cerco di darle una sistemata.

    Ci avviamo verso casa, passo passo, torniamo nel mondo, diverso, complicato in entrambi i casi, con momenti luminosi e bui. Dobbiamo essere entrambi pronti al resto della giornata.

    Quando torniamo dalla nostra lunga camminata M. è sempre esausta, si siede sul divano e spesso schiaccia un pisolino: per la madre è un miracolo, un momento di pausa, visto che il ritmo sonno-veglia della ragazza è completamente alterato: ogni notte verso le 4 o massimo le 5 si sveglia e inizia una sua routine composta di gesti, risate e urla, svegliando il resto della famiglia.

    Mentre attraversiamo le ultime centinaia di metri di campagna mi chiedo se io avrei la forza per crescere una figlia come M. e il mio rispetto per i genitori di questi bimbi e ragazzini aumenta ogni giorno di più. La forza di continuare ad amare nonostante tutto, la forza di avere sempre il sorriso sotto le spalle curvate da un peso che pochi conosceranno mai.

    Riattraversiamo il paesino con i soliti curiosi che si affacciano agli sporadici strilli di M.; molti la conoscono, la salutano e agitano le mani allegramente.

    Mantenendo la piccola sul lato esterno rispetto strada, rasente ai muri delle case, entriamo nella via della nostra destinazione.

    Attraversiamo gli ultimi metri mentre, come al solito, parlo a M. le indico diversi oggetti, ripetendole i nomi.

    Suono il citofono: "siamo noi", annuncio all'interfono.

    la madre ha una espressione maggiormente rilassata rispetto a quella della mattina.

    "come è andata?" mi chiede

    "bene, è stata molto brava: abbiamo camminato, giocato con la sabbia... vero M?"

    la ragazzina è già lontana con la testa: si è sdraiata sul divano con la testa sotto un cuscino.

    La mattinata sembra finita per il momento.

    Saluto la madre e la nonna.

    "Dovevi vederla a 3 anni: era la bambina più bella del mondo e diceva un sacco di cose" mi dice l'anziana.

    3 anni. Effettivamente si attesta attorno all'età in cui vengono poste la maggior parte di diagnosi di autismo.

    "ci credo signora, ma anche adesso è bellissima e brava o no?"

    "Insomma, fa un pò la monella, vero?" risponde la nonna dandole un buffetto amorevole sulla gamba.

    In pochi minuti, tra saluti e convenevoli, ho finito la mia attività di quelle ore.

    Saluto tutti ed esco.

    "ciao, M., ci vediamo domani, mi raccomando fai la brava".

    ormai è già persa dentro la visione di Peppa Pig pone poca attenzione alle mie parole, anzi mi discosta da davanti alla TV. Le passo una mano tra i capelli e mi avvio verso la porta.

    "grazie" mi dice la madre

    "ci mancherebbe" rispondo.

    Di norma salto subito in macchina e torno a casa per studiare, ma quella mattina decido di ripercorrere qualche passo in quella campagna.

    mi fa strano essere senza M. Inizio a riflettere sulla giornata, sulle possibilità che la ragazzina si trova davanti: restare a casa, centro diurno, strutture di diverso tipo... mi chiedo cosa accadrà l'estate prossima quando probabilmente non la vedrò più al centro estivo della fattoria didattica.

    Mi mancherà, questo già lo so.

    Posso solo continuare a studiare e a lavorare passo dopo passo, posso solo andare avanti con la mia giornata, tornare dalla mia ragazza e dal mio ratto.

    Penso sia un sentimento comune a più figure accudenti: dal medico, all'educatore, alla psicologa alla psicomotricista. Quel sentimento non imbavagliabile, che urla a squarcia gola di come avresti potuto fare di più. Di come avresti dovuto cambiare approccio in quella determinata situazione e di come si sarebbe potuto gestire meglio un determinato momento.

    Alla fine ci rimangono solo i rimandi delle famiglie, dei nostri insegnanti e le reazioni dei bambini che seguiamo, la nota decisamente più importante.

    E qualcosa di cangiante: certi giorni diventa un fardello che curva la schiena mentre in altri mette le ali ai piedi e permette viaggi di pura gioia. E' un lavoro altalenante, almeno per come lo vivo io, ma su questa altalena ho toccato il cielo più di una volta e non ci scenderei per nulla al mondo. passo dopo passo.
     
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    Un racconto strabiliante, caro Fosco. Lineare in ogni punto e pieno di immagini vivide.
    Ho avuto due esperienze minimamente paragonabili al mondo della tua paziente. Mia sorella, che diventò come M. a 40 anni, a causa di un gravissimo incidente stradale. E poi un nipote, ora quattordicenne, verbalmente limitato, proprio a tre anni faceva le cose da te descritte, a partire dal gettarsi per terra, picchiare il suolo con i pugni (a volte con la testa) e urlare fino a perdere il fiato.
    Sarà cambiato qualcosa dai tempi del ricercatore che hai citato, ma mio nipote ha avuto - esattamente - una "madre frigorifero", che lo lasciava da solo a piangere e disperarsi sul pavimento, anche per ore, senza uno sguardo né una parola. Dopo qualche anno, ha avuto una nuova mamma, e le cose sono migliorate parecchio. Anche lui fa attività di supporto. Oggi, suonicchia la chitarra. Come spesso avviene, è bravo in matematica.

    Nel passaggio in cui hai menzionato l'arcobaleno di M. ho pensato d'istinto a una probabile allucinazione ricorrente che le scatena tutto. Se così fosse, quella parola è un grido di aiuto.

    Grazie per questa tua, toccante e meravigliosa, esternazione di vita.

    P. S. Questa frase mi ha colpito in modo particolare: "Dobbiamo essere entrambi pronti al resto della giornata."
     
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    Grazie mille, non posso dire altro. Ti sono grato per il bellissimo feedback. se qualcuno si dimostrerà interessato ho altro materiale che mi piacerebbe proporre.
     
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2 replies since 22/4/2024, 19:46   20 views
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